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I delitti della guerra a stelle e strisce

di Fernando Fasce - 06/12/2005

Fonte: ilmanifesto.it

 

Informazione rigorosa e chiarezza espositiva caratterizzano In the Name of Democracy. American War Crimes in Iraq and Beyond, uscito negli Usa per le cure di Jeremy Brecher, Jill Cutler e Brendan Smith. Una analisi documentata sulle numerose azioni criminali che segnano il conflitto iracheno
Alle origini dell'espansionismo statunitense è dedicato un saggio di Marco Sioli, Esplorando la nazione, che individua nelle missioni di esplorazione delle terre dell'ovest, volute nel primo `800 dal presidente Thomas Jefferson, il primo progetto di costruzione di un «impero della libertà»

Mentre le cronache si riempiono di notizie sulla «Guantanamo in Kosovo» e su quei trasporti segreti di presunti terroristi islamici prigionieri con voli della Cia attraverso l'Europa, che tolgono il sonno al nostro ministro Frattini, e in Iraq non si sono ancora spente le polemiche su Abu Ghraib, giunge particolarmente opportuno, fresco di stampa negli Stati Uniti, un libro destinato a costituire un punto fermo nella discussione in corso, su entrambe le sponde dell'Atlantico e nel mondo (basti pensare da noi agli autorevoli interventi di Danilo Zolo), intorno ai «crimini di guerra» americani. Si tratta di In the Name of Democracy. American War Crimes in Iraq and Beyond. Lo hanno curato, per Metropolitan Books (parte della prestigiosa sigla Henry Holt di New York), due studiosi e militanti, veterani della Nuova Sinistra, quali Jeremy Brecher e Jill Cutler e un loro giovane collaboratore, lo studioso di diritto e di movimenti sociali contemporanei Brendan Smith. Il libro è costruito secondo il marchio di fabbrica tipico di Brecher, una formula che sembra smentire o per lo meno «complicare» una recente e alquanto perentoria affermazione resa dal noto politologo Giovanni Sartori alla rivista (non politologica) Class secondo cui «i sessantottini intelligenti si sono ravveduti e oggi costituiscono la nuova élite», mentre «quelli poco intelligenti - una larghissima maggioranza - vogliono ancora il governo dei loro simili, degli stupidi».

La parola alle fonti

Brecher e Cutler sono due ex-sessantottini intelligenti che non fanno parte dell'élite e che anzi vorrebbero far sloggiare dal governo o comunque neutralizzare, con mezzi legali, le élite non sessantottine (della cui intelligenza deciderà la storia), che, con mezzi spesso francamente illegali o al limite della legalità, hanno trascinato il mondo nel disastro - ormai riconosciuto come tale dalla maggioranza dell'opinione pubblica Usa - iracheno. La formula dei due studiosi del Connecticut, che andrebbe insegnata nelle nostre scuole di comunicazione, si basa su un impianto di grande respiro, una informazione rigorosa e a tutto campo, una formidabile chiarezza espositiva, nessuna concessione a scandalismi tipo talk show, non una riga in più del necessario. Le poco più che trecento pagine che compongono il libro sono divise in sei parti, distribuite fra una introduzione e una conclusione. Nell'introduzione, col contributo decisivo di Smith (che ha studiato legge a Cornell), si definiscono lucidamente i «crimini di guerra», così come sono stati codificati dal diritto internazionale nel secondo dopoguerra mondiale: ovvero, «crimini contro la pace», come per esempio intraprendere una guerra d'aggressione; «crimini di guerra» in senso stretto, cioè atti che violano la tradizione giuridica «umanitaria», che protegge combattenti e civili ed è sancita dalle conferenze di Ginevra del 1864 e dell'Aja del 1899 e 1907; «crimini contro l'umanità», introdotti dopo la seconda guerra mondiale, che riguardano atti di violenza contro gruppi perseguitati sia in tempo di guerra che di pace.

Poi si entra nel vivo del discorso, con una prima sezione, intitolata The Evidence, nella quale senza strilli e isterismi, si fanno parlare le fonti più diverse, con una impressionante serie di documenti che spaziano dalla famosa intervista Bbc a Kofi Annan del 2004, che definiva la guerra in Iraq «illegale», alle e-mail Fbi dell'agosto dello stesso anno, nelle quali si discute ampiamente di strangolamenti, usi di sigarette accese sui corpi dei detenuti e tentativi di nascondere i crimini perpetrati a Guantanamo. Viene solo da aggiungere che sarebbe stato opportuno qui anche un riferimento al saggio con cui, in tempi non sospetti, già nel 2003, sull'autorevole Political Science Quarterly il massimo esperto di war power presidenziale, Louis Fischer, della Library of Congress, faceva brillantemente il contropelo costituzionale alle procedure adottate dall'amministrazione Bush nei confronti del Congresso per lanciare l'intervento. Non meno efficaci sono, del resto, la seconda, terza e quarta parte del libro, dedicate, rispettivamente, alla questione della «responsabilità e della catena del comando» (con un bell'intervento di Mark LeVine sul problema della protezione dei civili iracheni), al «futuro dei crimini di guerra Usa» (che si apre con quella dichiarazione di intenti di Bush del settembre 2002 circa la «guerra preventiva» sulla quale si interrogò con preoccupazione, a caldo, il non certo estremista Business Week) e a «sguardi prospettici sui crimini di guerra americani» (che ospita un articolato saggio Da Norimberga a Guantanamo di Lisa Hajjar, studiosa californiana di diritto internazionale e direttrice della rivista Middle East Report, e l'intervento di Jimmy Carter contro l'azione «sostanzialmente unilaterale» in Iraq, sul New York Times del 9 marzo 2003). Le due ultime sezioni affrontano con la solita lucida passione di Brecher e Cutler, la questione cruciale del «che fare», con due parole d'ordine, strettamente legate fra loro: la prima si riassume nella formula di «coscienza, non codardia», la seconda è l'invito a costruire una «responsabilità condivisa» fra i cittadini per fermare i crimini di guerra. L'azione di resistenza trova espressione in innumerevoli testimonianze tra le quali spicca quella del sergente Jimmy Massey, che, con dodici anni da veterano dei marines alle spalle, dopo aver ucciso «incidentalmente» tre civili a un posto di blocco in Iraq, si è congedato e nel tempo libero dal lavoro gira oggi per le strade della sua città natale, in North Carolina, con indosso l'uniforme e una scritta che dice «Ho ucciso civili innocenti per il nostro governo». La paziente ricerca di forme legali per bloccare i «crimini di guerra» è illustrata in un bellissimo saggio di Brecher stesso, che riassume le tante iniziative prese da singoli, associazioni civiche e religiose e gruppi di militanti e ribadisce l'importanza di tenere insieme una dimensione istituzionale e di movimento, senza mai dimenticare le lezioni che possono venire dal passato.

 


Allargare i confini

Dal passato dei rapporti internazionali statunitensi arriva una interessante ricerca storica, sviluppata dallo studioso milanese Marco Sioli (Esplorando la nazione, ombrecorte, pp. 210, euro 17), sulle «origini dell'espansionismo americano», come recita il sottotitolo. Che vanno cercate, secondo Sioli, nel primo Ottocento, nell'età di Thomas Jefferson, al tempo dell'acquisto della Louisiana (1803) e delle famose missioni di esplorazione delle terre dell'ovest, promosse direttamente dallo stesso presidente, che portarono il segretario personale di Jefferson, Meriwheter Lewis, e il capitano William Clark, comandante della compagnia nella quale aveva militato Lewis, a toccare le sponde del Pacifico nel 1805. Invero chi si fosse trovato due anni fa negli Stati Uniti fra agosto e settembre, nei giorni che celebravano il bicentenario della partenza di Lewis e Clark, non si sarebbe potuto sottrarre alle ricchissime iniziative organizzate per commemorare l'affascinante spedizione dei due giovani ferventi jeffersoniani a ovest del Mississippi.
Senza nulla togliere al significato conoscitivo - fortemente influenzato dalla straordinaria curiosità scientifica, naturalistica e protoantropologica di Jefferson - di quella missione, Sioli la riconnette abilmente al progetto politico di costruire un «impero della libertà»: «non un imperium», nel senso tradizionale del termine, chiarisce l'autore sulle orme di Anders Stephanson, «ma un regno/territorio in cui l'autodeterminazione dei cittadini avrebbe permesso agli americani di espandersi naturalmente, abitando e organizzando la natura per allargare i confini operativi dei principi repubblicani»; principi incarnati, secondo i disegni del grande piantatore e proprietario di schiavi Jefferson, in quei piccoli agricoltori bianchi che avrebbero trovato negli spazi acquistati da Napoleone la sede per una prospera e libera esistenza. Di qui vennero le missioni, di Lewis e Clark, ma anche di Dunbar e Hunter, e poi di Freeman e Custis, secondo una linea che si dispiegò progressivamente in senso sempre più chiaramente militare con Zebulon Pike. Missioni che avevano il triplice obiettivo di aprire canali commerciali per la neonata nazione, di individuare le difficoltà che potevano insorgere con le potenze europee già presenti (soprattutto la Spagna) e con le «nazioni native», e di mappare il territorio, tracciare confini e «notificare ai nativi» - se necessario con toni più decisi delle variazioni letterarie jeffersoniane sul mito del «buon selvaggio» - la presenza della nuova autorità americana. Anche qui, come in Brecher e soci, la vicenda statunitense è dunque sottratta ai miti di ogni genere e restituita, per il bene di tutti, alla dimensione che le compete, la storia.