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Il marmo scavato dalle lacrime

di Federico Rampini - 26/06/2007

   
Ammirato, osannato, considerato una delle massime espressioni dell’arte mondiale, il Taj Mahal, oltre a essere il simbolo della storia d’amore tra limperatore Moghul Shah Jahan e la sua favorita, Mumtaz Mahal, rappresenta anche il frutto di una civiltà al massimo splendore, un vero e proprio monumento all’armonia tra la religione braminica e l’Islam.
Conteso per secoli tra l’Occidente e l’Oriente, pur avendo superato le più varie traversie e le continue minacce alla sua integrità, il Taj Mahal resiste, miracolosamente intatto.


[...] Il Taj Mahal è uno dei capolavori dell’arte mondiale, immediatamente riconoscibile per centinaia di milioni di persone, l’icona dell’India per eccellenza. Lo status di meraviglia universale non è l’unica dimensione del suo fascino. Nella seduzione che esercita il mausoleo di Agra entrano ingredienti che mancano perfino a San Pietro, al Partenone e alla Piramide di Cheope. Il Taj è un luogo che parla della morte e dell’aldilà ma anche di una struggente storia d’amore, è la gigantesca e sublime tomba edificata da un vedovo inconsolabile per ricordare in eterno la moglie. È una fusione di influenze artistiche che spaziano dalla Persia all’Estremo Oriente, così perfetta da alimentare per secoli un “giallo” tuttora irrisolto sul misterioso architetto che lo progettò. È infine il frutto dell’èra più felice della storia indiana, monumento all’armonia tra la religione braminica e l’Islam. La leggiadra eleganza delle sue forme, il candore abbagliante della pietra che cambia riflessi a ogni ora del giorno, la ricchezza dei giardini, la fine tragica dell’imperatore che lo fece costruire, e poi le velenose gelosie tra occidentali, musulmani e indù sulla paternità culturale di questo tesoro: per queste ragioni il Taj suscita estasi e controversie da secoli. Ancora quest’anno ha ispirato due nuove ricostruzioni: Taj Mahal, Passion and Genius at the Heart of the Moghul Empire degli storici oxfordiani Diana e Michael Preston; The Complete Taj Mahal di Ebba Koch, la più autorevole esperta mondiale di storia dell’architettura indiana nell’èra Moghul.
Il Taj viene concepito durante la sofferenza di un parto mortale. È una serata torrida, nel giugno 1631, sull’altopiano del Deccan nell’India centrale. Mumtaz Mahal, “la Scelta del Palazzo”, cioè la preferita dell’harem, a trentotto anni sta agonizzando negli spasimi della sua quattordicesima gravidanza. Al capezzale c’è il marito Shah Jahan, quinto imperatore nella dinastia islamica dei Gran Moghul fondata da Babur. Alla moglie morente lui promette di non sposarsi mai più, e di edificarle un mausoleo funebre che sarà la testimonianza perenne del loro amore. Per due anni, prostrato dal dolore che gli imbianca di colpo tutti i capelli, Shah Jahan pensa solo all’amata che non c’è più. Dedica tutte le sue energie a mantenere la promessa, mobilita per la costruzione del Taj le ricchezze del suo regno, il know-how tecnologico, i talenti artistici di tre continenti.
Il risultato è un exploit eccezionale: dodicimila tonnellate di pietre e marmi trasportati da grandi distanze; un edificio la cui circonferenza supera la basilica di San Pietro e la piazza del Bernini messe assieme; la perfezione delle forme raggiunta grazie a complessi calcoli matematici; l’eresia del marmo bianco che nella tradizione islamica era riservato alle tombe dei santi; la profusione di pietre rare incastonate nei muri; le pregevoli decorazioni affidate al più grande calligrafo persiano dell’epoca, Amanat Khan. «Costruito da giganti, rifinito da cesellatori di gioielli», secondo la definizione di un vescovo anglicano, il Taj è così bello che fin dall’inizio gli europei cercano di appropriarsene il merito. Il viaggiatore francese François Bernier nelle sue cronache dall’India del Seicento si dice convinto che i decoratori abbiano copiato dalla Firenze dei Medici la tecnica della pietra dura incastonata nel marmo. In realtà gli indiani padroneggiano quella tecnica secoli prima del Rinascimento italiano.
Anche il mistero dell’architetto anonimo eccita le fantasie eurocentriche. «Secondo il sacerdote portoghese Sebastien Manrique che visitò Agra nel 1640 - scrivono Diana e Michael Preston - l’architetto era un veneziano di nome Geronimo Veroneo, giunto in India su una nave portoghese. Per secoli lo sciovinismo europeo diede grande credibilità a questa leggenda. C’era la convinzione razzista che un non-europeo non poteva aver disegnato un edificio di così rara bellezza. Ma l’affermazione di Manrique non ha fondamento. L’influenza europea sull’architettura Moghul era molto limitata. Se un europeo fosse stato l’architetto avrebbe incorporato nell’edificio almeno qualche segno della sua tradizione. Non ce n’è traccia». La risposta all’enigma dell’anonimato è semplice. Con ogni probabilità molti architetti contribuiscono al progetto, e comunque l’ultima parola e un’influenza decisiva spetta proprio all’imperatore Shah Jahan, uomo di cultura e appassionato conoscitore di architettura.
L’invidia europea per questo capolavoro e i nostri complessi di superiorità sono rivelatori di un’ignoranza sull’India di quel tempo. Con cento milioni di abitanti nel Diciassettesimo secolo i Moghul amministrano la più vasta potenza musulmana mai esistita, cinque volte più grande dell’Impero ottomano. La loro storia spiega perché il baricentro dell’Islam nato in Arabia slitta progressivamente sempre più a Oriente. Se ancora oggi ci sono più musulmani a est dell’Afghanistan che a ovest, lo si deve al successo dei Moghul nel subcontinente indiano. La loro India è una potenza ricca e sviluppata. La capitale imperiale di Agra è detta la Venezia indiana per il lusso e la profusione d’arte, ma le sue dimensioni eclissano qualsiasi città europea dell’epoca. Con settecentocinquantamila abitanti è due volte più grande di Londra, supera di molto sia Parigi che Costantinopoli, le maggiori metropoli europee del Seicento. Un’esibizione dell’opulenza indiana di quell’epoca è la cerimonia annua del compleanno imperiale: il sovrano viene “pesato” su una bilancia prima in argento, poi in oro, poi in gioielli. I metalli rari e le pietre preziose equivalenti al peso regale vengono distribuiti in beneficenza. Mentre l’Europa è terrorizzata dalle guerre di religione e dall’Inquisizione, sotto i Moghul si afferma una versione dell’Islam aperta e tollerante, in convivenza armoniosa con l’induismo e il cristianesimo.
La storia di colei che è sepolta nel Taj, Mumtaz Mahal, sfida gli stereotipi sul ruolo della donna nella società islamica. Gli imperatori Moghul praticano la poligamia ma questo non impedisce una certa libertà di costumi negli harem delle loro mogli. La morbosa curiosità dei visitatori occidentali è eccitata dalle descrizioni dei falli d’oro e d’argento che circolano nei serragli, dalle descrizioni esplicite degli amplessi imperiali, dall’uso dilagante di afrodisiaci. L’harem è anche un centro di potere economico dove le donne amministrano fiorenti attività imprenditoriali. «Le donne di corte - scrivono i Preston - erano ricche, istruite e abili nell’usare le loro relazioni. Attivando reti di intermediari dirigevano commerci con il mondo intero, erano armatrici di navi mercantili, esportavano prodotti indiani in Arabia e oltre». Il potere di Mumtaz sull’imperatore deriva in parte, secondo i due storici inglesi, dalle sue arti erotiche. [...]
La disperazione in cui Shah Jahan piomba alla morte della Mahal non si spiega solo per la fine di un’intesa fisica così perfetta. Tutti i resoconti dell’epoca descrivono tra l’imperatore e Mumtaz un rapporto di fiducia, di vera amicizia, di complicità intellettuale: un amore paritetico, esclusivo, quasi monogamico perché mette in ombra tutte le altre mogli e concubine. La morte precoce della favorita, oltre che alle numerose gravidanze, va attribuita all’insolita abitudine di Mumtaz di viaggiare sempre a fianco del sovrano nelle defatiganti campagne militari. Quasi a sottolineare il rapporto di parità con la moglie, Shah Jahan accarezza il progetto di far costruire per la propria morte un gemello del Taj Mahal, identico ma tutto di colore nero, per esservi sepolto a fianco del mausoleo di Mumtaz. Un cantiere mai iniziato: il figlio Aurangzeb farà morire Shah Jahan in carcere e lo seppellirà nello stesso Taj Mahal.
In quattro secoli di esistenza il Taj ha attraversato tutte le tensioni e le contraddizioni della storia indiana. I nazionalisti indù hanno voluto rivendicarne la genesi, inventando una leggenda: Shah Jahan non avrebbe costruito il mausoleo ma lo avrebbe ricavato modificando un pre-esistente tempio di Shiva costruito dal rajah di Jaipur. I musulmani più fanatici dopo l’Indipendenza nel 1947 tentarono di sequestrare il Taj per riservarlo solo alla memoria dei morti di religione islamica. Dovette intervenire la Corte suprema per sottrarlo alla legge della sharia e lasciarlo aperto ai visitatori di ogni fede. Nel 1965, durante la guerra col Pakistan, è stato a lungo incappucciato con un’immensa rete nera per nasconderlo ai raid aerei e sottrarlo ai bombardamenti.
Le ultime aggressioni sono quelle dell’inquinamento e del turismo. Per salvare i suoi marmi candidi dalla corrosione dell’anidride solforosa il governo ha dovuto chiudere duecentocinquanta piccole fabbriche locali, costringendo centomila operai alla disoccupazione («Tutta Agra diventerà una tomba per proteggere il Taj», fu il commento di un sindacalista). La siccità e la desertificazione inaridiscono il corso del fiume Jumna che lambisce la cinta del mausoleo, l’erosione fa già inclinare le torri dei minareti. Perfino il fiato dei turisti è una minaccia: tre milioni di visitatori all’anno producono una umidità pericolosa per la conservazione dei dipinti all’interno del mausoleo. Eppure resiste, in uno stato di salute stupefacente, per ricordare che in India i miracoli sono possibili. Il più importante è di quattro secoli fa, un gioiello dell’arte di tutti i tempi nato dall’amore fra un uomo e una donna, e dall’incantevole unione tra la civiltà indiana e l’Islam.