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In Norvegia i «figli» di Hitler

di Edoardo Castagna - 28/06/2007

 

Ritorna alla luce l’opera del Lebensborn, l’ente del Reich che allevava i bimbi nati da soldati tedeschi e madri scandinave: «campioni» della razza prima, paria sociali dopo la guerra

Nordici sono nordici, i tedeschi. Ma vuoi mettere i norvegesi? Per i nazisti, sacerdoti della loro "pura razza ariana", la conquista del Paese scandinavo rappresentò un'occasione da non perdere per "migliorare la razza": «Alla vittoria in campo deve seguire quella in culla», fu lo slogan. I rapporti tra i soldati occupanti della Wehrmacht e le donne norvegesi, lo strumento. Il risultato, qualche migliaio di bambini, condannati dalla storia a un destino bifronte: campioni della "razza ariana" fin tanto che i tedeschi erano i vincitori, figli della colpa a guerra finita. Tra tanti casi sconosciuti, spicca invece per notorietà quello di Anni-Frid Lyngstad, la cantante degli Abba cresciuta in Svezia dove sua madre, che l'aveva concepita durante una relazione con un soldato della Wehrmacht, era fuggita all'indomani della Liberazione. La loro vicenda - non solo in Norvegia, ma anche negli altri Paesi occupati abitati da una popolazione «razzialmente di valore» secondo gli standard nazisti (Danimarca e Olanda in primis, ma in qualche caso anche Belgio, Francia e perfino la slava Polonia) - è rimasta a lungo coperta dal silenzio. Oggi però la luce si è accesa, come rende conto il saggio I "figli" di Hitler. La selezione della "razza ariana", i figli degli invasori tedeschi nei territori occupati, curato da Kjersti Ericsson ed Eva Simonsen e appena tradotto da Boroli (pagine 206, euro 14,00). Storie spesso dolorose, frutto di una politica razziale sistematicamente condotta dagli occupanti che tuttavia trovò - va detto - un ambiente fertile in nazioni dove i paradigmi eugenetici degli anni Trenta erano quasi senso comune. Soprattutto in Norvegia, che non a caso fu il Paese in cui programma ebbe maggior successo. Perno della sistematica operazione di miglioramento, qualitativo e quantitativo, della "razza" furono le "case di maternità" del progetto Lebensborn ("Sorgente di vita"), istituti dove le ragazze madri di figli dal padre tedesco potevano partorire, trovare sostegno e anche, se decidevano di non tenere con sé il neonato, affidare i bebè. A loro provvedevano le autorità tedesche, assegnandoli a istituti selezionati o, preferibilmente, a famiglie tedesche di provata fede nazista - e, naturalmente, di "pura razza ariana". «Il Lebensborn - scrive Kåre Olsen - avrebbe dovuto costituire un potente strumento della politica razziale del Terzo Reich grazie alla crescita del numero di nascite "razzialmente di valore". Esattamente l'opposto dell'altra faccia della politica razziale nazista: il genocidio. L'obiettivo ero lo stesso: da una parte eliminare fisicamente le "razze inferiori" e dall'altra migliorare la qualità della popolazione rafforzando la componente "ariana" e "nordica"». I bambini figli di un tedesco e di una norvegese furono considerati fin dall'inizio cittadini tedeschi, quali «avamposto tedesco all'interno della popolazione norvegese». La supervisione del piano era avocata a sé dallo stesso Hitler, al quale spettava l'ultima parola in tema di matrimoni tra tedeschi e straniere dopo che un rigoroso accertamento aveva scandagliato genealogie e documentazioni mediche. Nei fatti, il progetto ebbe uno sviluppo limitato, tranne appunto in Norvegia. A farlo fallire furono il contesto bellico, l'ostilità delle popolazioni occupate e, soprattutto, le difficoltà pratiche nel definire le "purezze razziali". Quando l'idea di "razza" scende dal piano dell'ideologia a quello del mondo reale, mette in luce ogni volta la sua completa fallacia: impossibile tracciare linee di confine che separino, di qua o di là, le infinite sfumature che assume la razza umana. A fare invece da sottofondo a tutto l'impegno profuso dai tedeschi in questo senso era l'idea fascista che la "fertilità di una nazione" fosse un patrimonio pubblico; la conquista delle donne, allora, diventava altrettanto importante di quella delle strutture statali, economiche e militari. Purché fossero donne di «grande valore razziale», naturalmente. Quei bambini - almeno ottomi la - restarono uno scottante problema nazionale anche a guerra finita. Sempre a causa della prospettiva eugenetica dominante, dopo la Liberazione Oslo si pose il problema di che cosa farsene, di quei bambini. Il timore era che il paterno "sangue tedesco" potesse portarli a sviluppare un carattere dispotico e crudele, mentre dall'altra parte scontavano «cromosomi di una madre moralmente poco seria». Si ipotizzò perfino di spedirli in Germania, anche se poi non se ne fece nulla. E si preferì stendere una coltre di silenzio.