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L’Onu dice: la globalizzazione è una rovina per i lavoratori

di Fabio Sebastiani - 13/12/2005

Fonte: liberazione.it

La storia è sempre la stessa: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri, al contrario, stanno sempre lì, sotto la fatidica soglia dei due dollari. E rappresentano ormai più della metà della popolazione mondiale che pure ha la fortuna di avere un lavoro. Dieci anni fa quando la parola “globalizzazione” non era nemmeno stata inventata i poveri, i derelitti, erano un po’ di più in percentuale e molti di meno in termini assoluti. Oggi che il commercio mondiale ha sfondato qualsiasi barriera realizzando profitti senza precedenti a loro sono andate soltanto le briciole. Si ritrovano in condizioni al limite del lavoro schiavistico, tanto che anche l’Ilo, l’International labour office dell’Onu, dice: "Questa globalizzazione non serve a nessuno".
In pratica, l’Ilo, l’agenzia delle Nazioni unite per il lavoro e le politiche sociali, dimostra, dati alla mano, che la correlazione tra crescita economica e incremento dei posti di lavoro è molto debole. E tutte le pompose dichiarazioni sull’importanza del capitalismo come fattore di sviluppo nelle regioni povere sono prive di fondamento. A supporto della loro tesi gli esperti citano l’“indicatore di elasticità”.
Questo numeretto rivela che per ogni punto percentuale di crescita del prodotto interno lordo l’occupazione globale è salita, tra il 1999 e il 2000, soltanto di meno di un terzo di punto (0,30). L’indice è addirittura peggiorato se si prende in considerazione il quadriennio tra il ’95 e il ’99 quando segnò uno 0,38. Laddove il lavoro cresce di più, Medio Oriente e Nord-Africa, si tratta pur sempre di "informal economy", economia informale, ovvero le mille svariate forme dell’auto-impiego, "dove le condizioni di lavoro sono spesso misere". In queste aree il numero dei lavoratori che mantengono la famiglia con meno di un dollaro al giorno e sono quindi al di sotto della soglia della miseria supera i 32 milioni.
Lo studio degli esperti dell’Ilo, che hanno messo sotto la lente di ingrandimento ben venti indicatori del mercato del lavoro (produttività, salari, durata del rapporto di lavoro, tipo di contratto, tasso di disoccupazione, tasso di attività, etc.) svela anche un altro falso mito, quello della competitività. "La competitività di un’economia ad alti stipendi non è immediatamente minacciata dai costi della manodopera più bassi altrove, perché i paesi dove la mano d’opera costa poco hanno spesso bassi livelli di competitività. Molto più correttamente, i fattori trainanti della competitività sono l’innovazione e la produttività, e non è dimostrato un nesso tra scarsa competitività e costo del lavoro".
A vivere sotto la soglia dei due dollari al giorno sono un miliardo e quattrocento milioni di persone. Sono in aumento - in termini assoluti - rispetto a dieci anni fa, ma in diminuzione in termini percentuali (oggi sono poco più del 50% mentre nel ’94 erano il 57%).
"La cosa principale che vogliamo dire - ha sottolineato il direttore generale dell’Ilo Juan Somavia - è che la stabilità del lavoro e la sicurezza del reddito dei lavoratori non sono state considerate delle priorità di politica economica. E così la globalizzazione ancora non ha creato sufficienti opportunità di lavoro decente e sostenibile. Questo deve cambiare e noi ci auguriamo che questo nostro Rapporto possa essere uno strumento orientato a questo obiettivo".
"Le donne e gli uomini - si legge nel rapporto - lavorano molto duramente e con orari prolungati, in cambio di pochissimo". E’ vero che le donne sono sempre più presenti nel mercato del lavoro (meno che in alcune aree come l’Africa del Nord, il Medio Oriente, l’Asia del Sud-Est), ma è altrettanto vero che a loro sono riservate le occupazioni meno qualificate e meno pagate. Inoltre, dice sempre l’Ilo, la disoccupazione giovanile è doppia rispetto a quella degli adulti e i giovani possono essere senz’altro considerati i nuovi poveri.
Piccola curiosità, il rapporto dell’Ilo sembra riecheggiare l’ultimo rapporto, reso noto dal Censis pochi giorni fa, sulla condizione del lavoro in Italia. Secondo l’istituto di ricerca italiano, la forbice tra i nuovi ricchi e chi invece deve fare dei veri e propri miracoli per arrivare a fine mese si fa sempre più ampia. Negli ultimi anni, afferma il Censis, il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi la metà (45,1%) dell’intero ammontare della ricchezza netta. Negli ultimi dieci anni la quota di ricchezza posseduta dal 5% delle famiglie agiate è passata dal 27% al 32% e quella posseduta dall’1% dei più ricchi è cresciuta dal 9% al 13%. La crescita dei differenziali di reddito non sembrerebbe destinata ad esaurirsi nel breve periodo: solo il 3,5% dei nuclei familiari che allo stato attuale hanno introiti mensili che non superano i 1.000 euro pensano che nel prossimo anno i propri redditi aumenteranno, mentre il 16,7% è convinto che diminuiranno ulteriormente. Di contro, il 22,5% di quanti dichiarano di avere redditi superiori ai 3.100 euro mensili pensa che i propri guadagni siano destinati a crescere mentre il 9% crede che si ridurranno.