Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Due secoli insieme. Ebrei e russi prima della rivoluzione (recensione)

Due secoli insieme. Ebrei e russi prima della rivoluzione (recensione)

di Giuseppe Giaccio - 25/07/2007

Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme. I. Ebrei e russi prima della rivoluzione, Controcorrente, Napoli 2007, pagg. 629, euro 30. 

 

Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme. II. Ebrei e russi durante il periodo sovietico, Controcorrente, Napoli 2007, pagg. 635, euro 30.

 

La drammatica esperienza del totalitarismo sovietico è all’origine delle carriere letterarie di scrittori che altrimenti avrebbero forse preso strade diverse (va da sé che il discorso potrebbe allargarsi anche ad altre forme totalitarie e autoritarie). Si pensi a Michail Bulgakov: laureato in medicina, ha lasciato un’impronta importante nella storia della letteratura con opere che privilegiano i registri satirico, grottesco e visionario (Il maestro e Margherita, considerato il suo capolavoro, ma anche Cuore di cane e Le uova fatali). O ancora ad Aleksandr Zinoniev: filosofo (diresse il dipartimento di logica dell’università di Mosca), matematico, valoroso combattente (fu ferito due volte) durante la seconda guerra mondiale nei ranghi dell’Armata rossa, dove raggiunse il grado di capitano dell’aviazione, aveva tutti i numeri per intraprendere un brillante e tranquillo cursus honorum nel mondo accademico dell’Urss. L’incontro con la letteratura segnerà una svolta nella sua vita. Il romanzo Cime abissali gli darà una fama mondiale – quella fama che, ovviamente, non poteva certo venirgli dai suoi studi specialistici – ma provocherà anche la sua espulsione dall’Unione Sovietica, dove rientrerà solo dopo la caduta del comunismo. Ma il caso più clamoroso di scrittore partorito dalla repressione del dissenso nell’URSS è probabilmente quello di Aleksandr Solgenitsin, la cui biografia presenta alcuni punti di contatto con quella di Zinoviev. Si laurea in matematica nel 1941, combatte come volontario con onore (anche lui viene ferito e decorato) sul fronte occidentale, ma, a differenza di Zinoviev, è condannato ai lavori forzati per aver criticato Stalin in una lettera privata. Deportato in Siberia, diventa il detenuto SSH-232, una sigla, e proprio dalla prigionia trae i materiali che poi confluiranno in Una giornata di Ivan Denisovic, il romanzo che rivelerà al mondo il suo talento (consacrato dal premio Nobel per la letteratura conferitogli nel 1971). Come Zinoviev, sarà esiliato, vivendo prima in Germania e successivamente negli Stati Uniti, nel Vermont, per poi tornare in patria dopo il crollo del regime. Al romanzo d’esordio, seguiranno molte altre opere caratterizzate perlopiù da una commistione fra genere letterario e storico (“inchieste narrative”, secondo la definizione coniata dallo stesso Solgenitsin in Arcipelago Gulag) che costituisce la sua cifra di scrittore e di cui l’imponente ciclo di romanzi La ruota rossa rappresenta l’espressione più evidente. Due secoli insieme può essere considerato, per certi versi, il fall-out, la ricaduta, delle ricerche storiche resesi necessarie per la stesura dei romanzi, come spiega proprio l’autore nella postfazione del secondo volume: “Nel 1990, quando, concludendo Aprile 1917, mettevo ordine nell’enorme massa di materiali rimasta inutilizzata ne La ruota rossa, ho preso la decisione di presentare una parte di questi materiali sotto forma di saggio storico sugli ebrei nella rivoluzione russa”. Decisione, al tempo stesso, coraggiosa e pericolosa quando, come nel caso di Solgenitsin, si affronta un tema così delicato rifiutando di offrire sacrifici davanti all’idolo del politicamente corretto, mossi solo dal desiderio di capire e non di compiacere. Libero poi ciascuno, come accade in ogni impresa scientifica, di criticare i risultati cui si è pervenuti.

In effetti, già il proposito di Solgenitsin, chiaramente espresso fin dalle prime pagine del libro, di affrontare questo argomento in chiave puramente storica non può non suonare come inaudito e provocatorio alle orecchie di quanti (ed oggi sono la maggioranza, una maggioranza pronta a scagliare anatemi) pensano che di fronte a quella che un tempo si chiamava questione ebraica, agli ebrei, alle persecuzioni da essi subite e ad Israele, l’unica posizione lecita possibile sia quella dell’incensamento, della genuflessione (una posizione, quindi, che rinvia alla sfera religiosa), pena la scomunica per antisemitismo. Solgenitsin cita le parole di uno scrittore israeliano, Ben Barukh, che evidenzia polemicamente questo sottofondo religioso: “A poco a poco, la memoria della Catastrofe ha smesso di essere una memoria ed è divenuta un’ideologia, l’ideologia dello Stato ebraico […] La memoria della Catastrofe si è trasformata in un servizio religioso, un culto di Stato […] Lo Stato di Israele ha assunto il ruolo di apostolo del culto della Catastrofe in seno agli altri popoli, è il suo sacerdote e percepisce da questi popoli una decima. E guai a chi rifiuta di versare questa decima! […] La peggiore eredità del nazismo per gli ebrei è questo ruolo di supervittima” (ne sa qualcosa il povero Ariel Toaff, costretto all’abiura per aver sostenuto tesi sgradite nel suo saggio sulle Pasque di sangue). Scrive, a questo riguardo, Solgenitsin: “Si dice che il problema ebraico possa essere rigorosamente compreso solo da un punto di vista mistico e religioso. Riconosco, naturalmente, la realtà di questo punto di vista, ma, benché numerosi libri l’abbiano già affrontato, penso che esso resti inaccessibile agli uomini, e che sia per sua natura fuori dalla portata persino degli esperti. […] Nei limiti della nostra esistenza terrena, possiamo esprimere giudizi sui russi come sugli ebrei a partire da criteri di questo mondo. Quelli dall’alto, lasciamoli a Dio! Voglio chiarire questo problema solo nelle categorie della Storia, della politica, della vita quotidiana e della cultura, e quasi esclusivamente nei limiti di due secoli di vita comune tra russi ed ebrei in un solo Stato”. Usando questo criterio di indagine (che poi è quello di ogni studioso serio e degno di questo nome), Solgenitsin, spulciando e sezionando una imponente massa di fonti (e dando così prova di una energia invidiabile, considerata la sua età), giunge a conclusioni, per quanto riguarda il periodo zarista, che ricordano molto da vicino quelle degli storici che si occupano degli inizi del cristianesimo. Probabilmente non è un caso, dato che i romani si trovarono di fronte a un problema per certi aspetti simile a quello che dovettero affrontare le autorità zariste, e cioè quali rapporti instaurare con una componente dell’impero, quella cristiana, che non appariva, per ragioni religiose che avevano però delle inevitabili ripercussioni sul piano politico e sociale, del tutto integrabile nelle strutture imperiali. Chi ha studiato questa materia, e non si è quindi limitato a vedere Quo vadis? o altri polpettoni del genere, sa che gli storici distinguono, grosso modo, due fasi persecutorie, la prima che arriva sino al III secolo, e la seconda che inizia con gli imperatori Massimino e Decio. Mentre nella seconda fase le persecuzioni venivano decise dal centro ed avevano un carattere generale, investivano cioè tutto l’impero, nella prima fase avevano un carattere locale. Non c’era, quindi, un piano persecutorio stabilito dall’imperatore e dai suoi funzionari, da Roma. I rappresentanti del potere imperiale svolgevano, anzi, un ruolo di pacificazione ed era il popolo a premere per punire i cristiani, i quali potettero perciò, nonostante tutto, nuotare nell’impero come i pesci nell’acqua. Culturalmente, il cristianesimo esprimeva, ci dice Santo Mazzarino, uno dei più seri studiosi dell’impero romano, la grande vita spirituale del tempo con Origene, che riuscì ad entrare in contatto con Giulia Mamea, madre dell’imperatore Alessandro Severo, Tertulliano, Ippolito, Clemente, con le celebri scuole di Alessandria e Antiochia. Dal punto di vista sociale ed economico, a partire dal II secolo la Chiesa può acquistare fondi, costruire edifici per il culto, avere proprie scuole, gestire proprie banche, intentare cause e persino vincerle. Gradualmente, prende piede un’economia ecclesiastica di “carità” che fa concorrenza a quella imperiale basata sul fisco.

Solgenitsin dice cose sostanzialmente non molto dissimili in riferimento agli ebrei russi sotto il regime zarista. Cade in frantumi, nelle sue pagine, l’immagine polemica della Russia “prigione dei popoli” e di un potere instancabilmente impegnato ad organizzare pogrom. Questi ultimi nascevano semmai dal basso, tra i contadini indebitati e finiti sul lastrico a causa sia del commercio dell’alcool, tradizionalmente gestito da fabbricanti e bettolieri ebrei, sia della penuria di terre, “circostanza che gli ebrei benestanti avevano in parte favorito, affittando le terre dei proprietari fondiari e facendo in tal modo salire il prezzo dell’imposta, fino a un importo inavvicinabile per i contadini” (Hessen). I pogrom avevano origine anche in organizzazioni come La Volontà del Popolo (Narodnaja Volja), responsabile dell’assassinio di Alessandro II (lo “zar giusto”, secondo la definizione coniata dagli stessi ebrei) o come la Ripartizione Nera, perché, scrive l’Enciclopedia giudaica, “si presumeva che questi pogrom iniziassero il popolo alle azioni sovversive”. Questi gruppi, osserva uno scrittore ebreo, Praisman, “erano pronti a suscitare un movimento popolare su qualunque terreno, fosse anche quello dell’antisemitismo”. Dal canto suo, il potere zarista, contro il quale Solgenitsin esprime giudizi molto severi per la sua inettitudine e debolezza, moltiplicava i regolamenti, le normative e le commissioni di indagine nel tentativo, rivelatosi sempre fallimentare (e che tale resterà anche per le autorità bolsceviche), di trasformare un popolo dalla spiccata vocazione intellettuale e commerciale-industriale, in popolo di contadini. Un altro strumento utilizzato per cercare di controllare gli ebrei fu quello della “zona di residenza”, che ha fatto ipocritamente gridare allo scandalo quanti, nello stesso lasso di tempo, si dedicavano a politiche di espansione imperialistica o sterminavano i pellerossa e li rinchiudevano in riserve. L’espressione fa pensare a una sorta di ghetto, a un luogo di confino per ebrei. Si trattava, in realtà, di un territorio vasto, che andò progressivamente estendendosi dal mar Baltico al mar Nero e che, col tempo, divenne sempre più “permeabile”. Essa comprendeva la Polonia e la Curlandia, le province di Vilnius, Grodno, Kaunas, Vitobsk, Minsk, Mohilev, Volhynie, Podolsk, Kiev, cui bisogna aggiungere “le vaste e fertili terre di Poltava, Iekaterinoslav, Cernigov, Tauride, Kherson e Bessarabia, tutte insieme più grandi di qualunque Stato, se non addirittura gruppo di Stati, europeo”. Non erano pochi gli ebrei autorizzati a soggiornare fuori dalla zona. Infatti, “né il fior fiore della finanza, né l’élite istruita erano sottoposti alle restrizioni della zona […] La famosa Zona di residenza non impediva affatto a una importante frazione di ebrei di penetrare in numero sempre più elevato nelle province della Russia centrale”. Gli ebrei erano molto ben rappresentati in categorie professionali come quelle dei dentisti, dei sarti, degli infermieri e degli speziali, “mestieri di grande utilità dappertutto, dove erano sempre i benvenuti”. Se poi si pensa che nell’Impero la popolazione rurale russa viveva in condizioni servili, i limiti posti alla libertà di spostamento degli ebrei potevano “non assumere più tinte troppo fosche”. La presenza degli ebrei era molto marcata nell’ambito imprenditoriale e finanziario, in particolare nelle industrie zuccheriera, del grano, del legname, nel commercio delle pellicce e del bestiame, la filatura, l’industria della confezione, del tabacco e della birra, nell’industria dell’estrazione dell’oro. “All’inizio del XX secolo”, scrive Solgenitsin, “gli ebrei rappresentavano il 35% della classe mercantile in Russia”. Ma è nella finanza che gli ebrei davano il meglio di sé, come osserva l’Enciclopedia giudaica: “Il credito è un ambito dove gli ebrei si sentono da molto tempo come a casa loro”. Questo loro talento li porta a creare un rete di banche (la Banca commerciale Azov-Don, il Credito fondiario di Mosca, la Banca fondiaria del Don, la Banca Poliakov, la Banca internazionale, la Banca di Siberia, la Banca commerciale di Varsavia) che svolsero un ruolo di rilievo nella vita economica dell’impero zarista. Il giudizio storico di Solgenitsin relativamente agli ebrei nel periodo zarista è affidato a due intellettuali ebrei, il primo dei quali, Daniil Samoilovic Pasmanik, sionista, il secondo, Iossif Menassievic Biekerman, non sionista.

Dice Pasmanik, poco dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi: “Sotto il regime zarista, gli ebrei vivevano infinitamente meglio e, qualunque cosa se ne dica, le loro condizioni di prima della guerra erano eccellenti. Eravamo allora privi di diritti politici, ma potevamo sviluppare un’intensa attività nella sfera dei nostri valori nazionali e culturali, mentre la miseria cronica che era stato il nostro destino spariva progressivamente. […] Malgrado il regime poliziesco – che però era la libertà assoluta in confronto con l’attuale regime della Ceka bolscevica – le istituzioni culturali ebraiche di ogni genere prosperavano. Ovunque si notava un fervore di attività: le organizzazioni erano in pieno sviluppo, la creazione era anch’essa molto viva e vaste prospettive erano ormai aperte”. 

Ed ecco Biekerman: “Malgrado i regolamenti di maggio 1882 e altre disposizioni dello stesso tipo, malgrado la Zona di residenza e il numero chiuso, malgrado Kichinev e Bialystok, ero un uomo libero e mi sentivo tale, un uomo che aveva davanti a sé un ampio ventaglio di possibilità di operare in ogni genere di campi, che poteva arricchirsi sul piano materiale come su quello spirituale, che poteva battersi per migliorare la sua situazione e risparmiare forze per continuare la lotta. Le restrizioni andavano sempre diminuendo sotto la pressione dell’epoca e sotto la nostra, e durante la guerra fu aperta una larga breccia nell’ultimo bastione della nostra ineguaglianza. Bisognava attendere ancora da cinque a quindici anni prima di ottenere la completa uguaglianza davanti alla legge; potevamo aspettare”.

Queste ultime parole racchiudono l’accusa di Solgenitsin nei confronti degli ebrei russi. A suo parere, l’impero zarista stava evolvendo – seguendo in questo, sia pure con un certo ritardo, l’esempio degli altri stati europei – verso forme più aperte e tolleranti, stava cercando, benché a fatica, di trovare una sua strada verso la modernizzazione. Bastava attendere ancora un po’, e si sarebbero risparmiati alla Russia settanta anni di totalitarismo comunista. Tanto più che, con la rivoluzione di Febbraio e l’abdicazione di Nicola II, gli ebrei si videro riconosciuti tutti i diritti in precedenza negati. Ciò nonostante, una significativa componente del popolo ebreo premette ancora sull’acceleratore, contribuendo, per la sua parte, all’istaurarsi del bolscevismo, con tutti gli errori e gli orrori che ne seguirono (inutile precisare che Solgentsin non condivide affatto le ipotesi complottiste adombrate nei Protocolli dei Savi di Sion, egli anzi ribadisce più volte che la rivoluzione d’ottobre fu opera dei russi). Qui Solgenitsin apre un altro capitolo scomodo, quello delle responsabilità del popolo ebreo, che è sempre pronto a pretendere dagli altri il riconoscimento delle loro colpe in relazione all’antisemitismo e alle persecuzioni subite dagli ebrei, ma che non è disposto a cedere nemmeno di un millimetro quando si tratta di ragionare sulle proprie responsabilità. Noi russi, scrive Solgenitsin, siamo certamente responsabili di ciò che ha fatto Lenin. Questo vale per tutti, anche per quelli che erano e sono lontanissimi dal bolscevismo e dal comunismo, giacché tutti abbiamo contribuito a creare il “clima nel quale Lenin è cresciuto e che lo ha riempito di odio. Come non vedere in lui un rinnegato? Eppure, è russo, e noialtri russi rispondiamo di lui”. Solgenitsin vorrebbe che questa regola valesse pure per gli ebrei, che dovrebbero pentirsi, al pari dei tedeschi rispetto al nazionalsocialismo, per le sofferenze subite sotto il comunismo dai russi e dalle numerose altre etnie che popolano l’ex URSS. Il contributo dato dagli ebrei all’edificazione del regime totalitario è infatti stato, secondo lui, significativo, e questo vale anche per l’universo concentrazionario del Gulag (che Solgenitsin conosce molto bene per averlo sperimentato sulla propria pelle), dove gli ebrei non figuravano solo come vittime (in particolare sotto Stalin, che seppe abilmente mescolare la blandizie e la repressione), ma anche come carnefici e organizzatori del sistema carcerario. Gli ebrei invece preferiscono, quando si parla di questo argomento, scivolare in un atteggiamento che ricorda molto da vicino i canoni del realismo socialista; preferiscono, in altri termini, dare di sé un’immagine idealizzata: “Non bisogna dipingere la realtà a tinte fosche, bisogna seguire le regole del realismo socialista, scrivere come sarebbe dovuto essere e non com’era”. Questo passaggio dalla sfera dell’ideale a quella del reale, alla normalità auspicata senza successo da un Abraham B. Yehoshua, è stato per ora compiuto solo da singoli autori ebrei come, ad esempio, Sonia Margolina, scrittrice della diaspora, che non ha esitato a scrivere: “Certamente, la storia degli ebrei è stata, come quella degli altri popoli, non soltanto quella di esseri che senza difesa erano condotti a morte, ma anche quella di persone armate che hanno portato la morte. Ci sono, in questa storia, pagine che non si possono aprire senza fremere. E sono precisamente queste pagine ad essere state scientemente e sistematicamente occultate nella coscienza degli ebrei”. 

Con la creazione dello Stato di Israele e, successivamente, con la folgorante ed esaltante vittoria nella guerra dei Sei Giorni, il sentimento nazionale degli ebrei russi conobbe un’impennata. Gli ebrei iniziarono una dura lotta per ottenere il diritto di emigrare in Israele – lotta che coinvolse sia il fronte interno, russo, e comportò, tra l’altro, il fallito dirottamento di un aereo, manifestazioni di protesta, la convocazione di provocatorie conferenze stampa, la montatura di falsi “casi umani” per attirare su di sé la simpatia del mondo e mettere in imbarazzo le autorità sovietiche, sia quello esterno, internazionale, dove gli ebrei della diaspora, in particolare quelli statunitensi, diedero un sostegno non indifferente in termini di pressioni politiche e di amplificazione mediatica del problema migratorio (con la BBC, La Voce dell’America e Radio Libertà schierati in prima fila). Il coraggio degli ebrei fu premiato, il loro successo su questo fronte fu totale, ma segnò anche l’inizio di una parabola discendente, di un interrogarsi, che non si è ancora esaurito, sulla propria identità e il proprio futuro, che Solgenitsin illustra esaurientemente nei capitoli dedicati all’esodo e all’assimilazione. La semplice esistenza dello Stato di Israele mette infatti in discussione la diaspora. Che senso ha vivere dispersi, nel galut (esilio), quando c’è un luogo, Israele, dove l’ebreo non è più costretto a sperimentare l’antisemitismo e può finalmente sentirsi a casa sua? Pertanto, chi continua a vivere in diaspora, magari giustificando il suo atteggiamento auto-convincendosi di poter in questo modo essere più utile ai “fratelli” israeliani, diventa oggetto di condanna: “Un ebreo galut è un essere amorale. Egli gode di tutti i benefici del paese che lo ha accolto, ma, nello stesso tempo, non si identifica completamente con esso […] queste persone esigono uno statuto speciale che nessun altro popolo al mondo possiede: che sia loro permesso di avere due patrie, una nella quale vivono e l’altra nella quale ‘vive il loro cuore’. Dopodichè, si stupiscono di essere odiati!” (A.B. Yehoshua). L’unica scelta coerente per chi decide di non diventare cittadino d’Israele è perciò, in quest’ottica, l’assimilazione, ed è la scelta che fece a suo tempo Arthur Koestler e che potrebbe essere favorita dalla pratica dei matrimoni misti, fieramente avversata dai rabbini e tuttavia in forte crescita. Vi sono poi ebrei antisionisti, o non sionisti, per i quali solo in diaspora l’ebreo riesce a dare il meglio di sé: “Accetto il galut nel quale abbiamo vissuto duemila anni, il solo luogo in cui abbiamo realizzato una vera unità, dove dobbiamo vivere e manifestarci in futuro” (Biekerman). Recentemente, questa tesi è stata espressa anche da Avraham Burg, laburista, ex presidente dell’Agenzia ebraica e della Knesset, figlio di uno dei fondatori dello Stato di Israele. 

D’altra parte, per gli ebrei che optano per il rientro nella terra dei padri, e che diventano subito, in base alla cosiddetta “legge del ritorno”, cittadini israeliani, le difficoltà non mancano. Inizialmente, gli ebrei russi che decidevano di emigrare si recavano in massa in Israele, ma l’impatto con la realtà della società israeliana sionista smorzava in fretta l’entusiasmo da neofita dei neo-israeliani. “Non senza ragione”, commenta Solgenistsin, “numerosi ebrei sovietici ebbero l’impressione, sbarcando in Israele, di aver scambiato un regime autoritario con un altro”. Impressione che, nel frattempo, non si è certo dissipata, almeno a giudicare dall’intervista concessa al quotidiano Ha’aretz dal succitato Burg lo scorso 8 giugno e nella quale si può leggere: “La realtà israeliana non è entusiasmante. È difficile ammetterlo, ma Israele è con le spalle al muro. Domanda ai tuoi amici se sono sicuri che i loro figli vivranno qui. Quanti di loro ti risponderanno di sì? Forse la metà. L’élite israeliana è già separata da questa terra. E senza élite, non c’è nazione. […] Siamo già morti. Non lo sappiamo ancora, ma siamo morti. Il sistema non funziona più”.  

Osservando con uno sguardo d’assieme la storia degli ebrei, Solgenitsin la descrive come un movimento prima espansivo, che li ha portati dalle sponde del Mediterraneo “fino alle regioni orientali dell’Europa”, poi di ritrazione, che li ha portati a “ritornare alla terra da cui erano partiti”. 

Probabilmente, lo strumento di cui gli ebrei si sono dotati per ottenere questo risultato, il sionismo, è giunto al capolinea, come prima o poi capita a tutte le cose umane, ed occorrerebbe porsi il problema di un nuovo fondamento politico, di un nuovo inizio, di una nuova, e più pacifica, base di legittimazione.