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Il trionfo del rinoceronte, ovvero l'Antisocrate trionfante

di Francesco Lamendola - 20/08/2007

 

 

Che cos'hanno in comune Socrate ed Eugéne Ionesco? Il fatto che il filosofo greco non si stancava di predicare, come del resto l'oracolo di Delfi, : «Conosci te stesso»; mentre il commediografo francese di origine romena, nel suo celebre Il rinoceronte, ha descritto la progressiva e inarrestabile trasformazione degli esseri umani in copie industriali di un modello prefabbricato; trasformazione non solo fisica e psicologica, ma spirituale, che li porta a compiacersi ed estasiarsi di ciò che, prima - quando erano ancora umani - giudicavano semplicemente orribile. «Oh, ma che delizioso questo corno che mi è spuntato sulla fronte! Che aspetto meraviglioso possiedo ora, come sono bello!», esclamano estasiati a metamorfosi avvenuta; mentre l'ultimo uomo autentico, ridotto alla solitudine più disperante, circondato ovunque da mostri che sono, poi, i suoi ex amici e concittadini, con eroismo votato alla sconfitta ripete ossessivamente a sé stesso: «No, mai! Io non mi arrenderò, io lotterò, non diventerò come loro! Io non diventerò mai come voi! Io voglio restare me steso, me stesso, me stesso!».

Soocrate e Ionesco descrivono i due termini di una parabola antropologica caratterizzata dalla progressiva soppressione dell'esigenza di autenticità e dall'avanzata (ir)resistibile dell'uomo-rinoceronte, il mostro volontario, un nuovo essere nato per mutazione genetica e che si compiace della propria laidezza, della propria repellente disumanizzazione. Nella Grecia tra V e IV secolo ancora si poteva lanciare un richiamo alla necessità di ritrovare la propria autentica natura,, anche se quasi nessuno la faceva (si pensi a Diogene il Cinico, che si aggirava per le vie con la lanterna in mano, in pieno giorno, rispondendo a chi lo interrogava che stava appunto cercando l'uomo). Nel mondo della cosiddetta modernità i rinoceronti sono divenuti legione, calpestano ogni cosa con i loro zoccoli e incornano furiosamente chi non accetta la loro divina bellezza, chi si oppone alloro sconcio trionfo.

Già solo il fatto di mettere nero su bianco questo genere di osservazioni costituisce un azzardo. I rinoceronti non capiranno: nel migliore dei casi diranno: "Noi non abbiamo bisogno di tali prediche; noi siamo uomini, non rinoceronti; perché quel guastafeste ci secca con i suoi ammonimenti?"; nel peggiore, penseranno: "Guarda un po' quel rinoceronte che ha la faccia tosta di montare in cattedra; è lui più rinoceronte di noi, e vuole impancarsi a giudice e moralizzatore dei costumi! Guardi piuttosto la trave che ha nell'occhio, invece di preoccuparsi del bruscolo che crede di scorgere nel nostro." Già, perché nessuno vuole ammettere di essere diventato un rinoceronte; diciamo meglio: perché, una volta stabilito il regno dei rinoceronti, il rinoceronte non è più tale, non è più il simbolo dell'altro, ma diviene la norma obbligante di una società omologante, per cui può di nuovo usurpare il nome di uomo, anche se uomo non è più. E guai a ricordargli le sue ascendenze di pachiderma della savana: s'infurierebbe e caricherebbe il malcapitato con tutto il peso della sua mole spaventosa, protendendo il lungo corno come una micidiale arma da guerra. Davvero, meglio non far arrabbiare i rinoceronti, rammentando loro la cosa che più odiano sentirsi dire: che non sono più esseri umani, che sono diventati animali. Che, sposandosi e mettendo al mondo dei figli, stanno popolando la Terra di bestioni i quali non sapranno mai che cosa vuol dire essere umani, perché umani non lo sono mai stati. E così avanzano la seconda e, presto, la terza generazione di rinoceronti, compiaciuti di sé e convinti di essere "uomini": ma, per loro, uomo significa rinoceronte. Perciò costoro vivono e vivranno nella menzogna, senza neanche rendersi conto che essa è tale: credono e crederanno che il loro essere "uomini" sia la pura verità.

L'avvento della società di massa è caratterizzato appunto da questa inconsapevolezza, dove gli esseri umani fabbricati in serie coltivano ciascuno la pretesa di essere unici e irripetibili, di avere una forte personalità, di essere autentici e "veraci". Li si vede, nei salotti televisivi, fare la ruota come pavoni e blaterare di essere individui speciali, anticonformisti, trasparenti, mentre tutto quello che dicono, il modo in cui vestono e si muovono, la cura con sui si truccano e si agghindano, la civetteria e il narcisismo esasperati con cui ammiccano alla telecamere, attestano l'esatto contrario. Li si vede per le strade, nella vita di ogni giorno, dove l'omologazione dell'abbigliamento, della cosmesi, perfino del modo di camminare, di gestire e di parlare sono arrivati a un punto tale che gli esseri umani si direbbero intercambiabili; eppure inseguono ferocemente l'illusione di essere veramente se stessi, di essere liberi e indipendenti, di non subire alcuna forma di condizionamento. E quando si è non solo rinoceronti, ma rinoceronti convinti di essere uomini, anzi uomini particolarmente originali e interessanti, allora non c'è più redenzione, ogni possibilità di rimedio è svanita senza speranza.

 

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Ci si chiederà a che scopo parlare di tutto ciò, visto che i rinoceronti non capiranno e ci ritorceranno contro l'accusa di essere dei rinoceronti. Naturalmente, grazie a Dio, essere uomini o essere rinoceronti non è una questione che si possa risolvere a chiacchiere, come nei salotti pomeridiani del secondo canale televisivo o nelle grottesche schermaglie dei concorrenti del Grande fratello; è,alcontrario, questione che si risolve con la testimonianza dei fatti, con la coerenza di vita. Così come una signora in pelliccia di visone non può ragionevolmente protestare la propria sensibilità ecologista o, meno ancora, il proprio amore per gli animali, allo stesso modo il giovanotto super-abbronzato e super-palestrato, vestito firmato dalla punta dei capelli a quella dei piedi, che non si muove se non in Ferrari e non esce la sera se non per andare in discoteca, ben difficilmente può sostenere di essere una persona che non guarda alle apparenze ma alla sostanza, così nelle piccole come nelle grandi cose della vita. O meglio, essi lo fanno: lo fanno platealmente, sfacciatamente, e diventano estremamente aggressivi se qualcuno lo mette in dubbio; tirano fuori i soliti luoghi comuni che "non si deve giudicare dalle apparenze" e che "l'abito non fa sempre il monaco".  Inoltre, troveranno un esercito di uomini e donne fotocopia, pronti a sostenerli a spada tratta, pronti a giurare sulla loro assoluta autenticità, perché difendendo loro, difendono anche se stessi. Tuttavia, anche questo fa parte del gioco, perché i rinoceronti si spalleggiano a vicenda e la loro forza non risiede  tanto nella mole animalesca, quanto nel numero strabocchevole: sotto il peso del loro numero vorrebbero appiattire e involgarire il mondo intero. Ma insomma si tratta di un gioco talmente scoperto, talmente penoso, che non inganna nessuno - a patto di non esser già diventati rinoceronti.

Il pericolo, tuttavia, è un altro. Se è alquanto facile dimostrare chi è rinoceronte e chi non lo è in base al grado di avidità con cui si afferrano (o no) le cose e le persone della vita, dal grado di cinismo o di rispetto con cui ci si rapporta con il tu in un mondo fatto di specchi, dove tutto narcisisticamente ci rimanda la nostra immagine; non è però altrettanto semplice spiegare perché valga la pena di fare questo discorso, lanciare nel deserto questo intramontabile ammonimento del buon vecchio Socrate: «Conosci te stesso». Si faccia attenzione: non «Sii te stesso»,ma bensì: «Conosci te stesso». Il conoscere, infatti, viene prima dell'essere, se puntiamo all'essere consapevole; altrimenti si ricade nell'inconsapevolezza, e si torna a credersi uomini quando, invece, si è dei grossi e brutti rinoceronti, con tanto di corno lungo un metro ben piantato al centro della fronte.

Se vuoi essere te stesso, devi prima di conoscerti. Che cosa vuol dire conoscersi? Vuol dire sapersi guardare dentro, sapersi leggere dentro: cosa assolutamente non facile, e per due ordini di motivi: perché evitare di farlo ci protegge dalla delusione e dalla necessità di cambiare (in meglio); e poi perché ci protegge dall'essere diversi, cioè umani, in un mondo, appunto, di rinoceronti. Abbiamo visto che i rinoceronti si spalleggiano tra di loro; allo stesso tempo, con fiuto infallibile essi avvertono l'odore dei non-rinoceronti a molte miglia di distanza. E si preparano a caricare, affilando il loro corno sul tronco degli alberi, perché la semplice esistenza dei non-rinoceronti riesce loro intollerabile, come un perenne richiamo alla bruttezza del loro essere. Certamente, questa seconda ragione gioca un ruolo importante nell'estrema ripugnanza a guardarsi dentro, oggi più diffusa che mai; ma la prima è ancora più importante. Se si vive in un mondo di specchi, allora è essenziale che non ci si veda per quel che si è, ma per quel che vorrebbe essere: altrimenti, ogni passo in una qualunque direzione sarebbe una continua sofferenza un continuo rimprovero. E, se è vero che nessuno desidera soffrire, almeno a livello consapevole, è altrettanto vero che la società d'oggi ha elaborato una visione della vita che tende a escludere da essa, programmaticamente, ogni forma di sofferenza, della quale ha una paura nevrotica. Non è la paura della sofferenza ad essere nevrotica, ma lo è  l'esclusione programmatica (e, ovviamente, impossibile) della sofferenza dall'orizzonte esistenziale. Dal banale mal di testa al dolore morale per una perdita o un abbandono, tutti sembrano volere una cosa sola: che passi in fretta, che quest'ospite sgradito e non invitato se ne vada il più presto possibile. Ma questo è un altro discorso, o - quantomeno - è un discorso che ci porterebbe in un'altra direzione; perciò ci fermiamo qui.

 

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Ci eravamo posti la domanda circa il perché porre la questione del richiamo a essere se stessi. Infatti, se coprirsi con una serie di maschere - e divenire, così, dei rinoceronti - significa star meglio con gli altri e con se stessi, nel senso di riceverne una maggior grado di approvazione, a che scopo bisognerebbe sforzarsi di essere se stessi?

La risposta è terribilmente semplice: per poter stare veramente bene con se stessi, e non semplicemente fingerlo. Non si può costruire nessun solido equilibrio interiore, nessuna vera autostima, nessun rapporto sereno e armonioso con sé e con l'altro sulla base di una menzogna, anzi di un groviglio inestricabile di menzogne che si sorreggono e si giustificano a vicenda. Tutto quello che fingiamo di essere, prima o poi ci si rivolterà contro, e ci chiederà il conto con tutti gli interessi. «A Dio non la si fa», ripete tra sé e sé il dottor Manson ne La cittadella di Cronin: e altrettanto si potrebbe dire: «A se stessi non la si fa». Il rinoceronte, infatti, è un essere umano che ha abdicato ad essere tale per farsi bestia tra le bestie, fingendo però di essere ancora uomo, anzi super-uomo (o super-donna); rivendicando, cioè, un ruolo che non gli appartiene - che non gli appartiene più, perché vi ha rinunziato in cambio di un piatto di lenticchie. 

Di conseguenza, i sentimenti e gli affetti più elevati della natura umana, quelli che rendono amabile la vita, sono fatalmente preclusi a questi rinoceronti camuffati da esseri umani. Magari dopo un inizio brillante, ogni loro  incontro con il tu finirà in un clamoroso fallimento. Non può esservi amicizia, non può esservi amore se non sulla base della consapevolezza di sé e dell'altro; perché amore e amicizia richiedono capacità di aprirsi e di darsi, cosa che non è possibile se si è ignoranti di sé e, appunto, dei propri sentimenti. Al massimo, ci si può credere legati da sentimenti di amicizia o di amore verso il prossimo; ma sarà  solo una commedia, e alla prima circostanza un po' impegnativa, quando occorre mostrare non già di che stoffa si è fatti, ma almeno se si sa di che stoffa si è fatti, ogni nodo verrà fatalmente al pettine.

E si noti che il fraintendimento dei sentimenti, propri e altrui, può aver luogo nelle due diverse direzioni: per eccesso o per difetto. Ci si può ingannare, ad esempio,  sul fatto di amare o di essere amati; ma ci può ingannare altrettanto sul fatto di non amare o di non essere amati. Cioè, la persona ignorante di sé può credere di amare o di essere amata, mentre una delle due cose, o entrambe, non sono vere; ma può anche credere di non essere innamorata, o che altri non la amino; e, anche in questo caso, una delle due cose o perfino entrambe potrebbero essere false. Ora, se è male credere di amare (o di essere amati), quando ciò non è vero - perché le conseguenze sono comunque dolorose, sia per sé stessi che per l'altro; è male anche, e forse più, ingannarsi nel senso opposto: cioè non saper riconoscere il proprio amore verso gli altri, o quello che altri provano per noi. C'è così poco amore sulla Terra (non sesso, non attrazione, non desiderio: amore), che sprecare anche quel poco che c'è, per non averlo saputo riconoscere, è un vero e proprio delitto: come un carovaniere che, durante la traversata del deserto, si levasse il capriccio di versare sulla sabbia la scorta d'acqua che significa vita o morte. Questi analfabeti dei sentimenti umani vanno in giro e combinano disastri a ripetizione, reiterando senza posa, in maniera perfino monotona, sempre gli stessi errori. Né potrebbero fare altrimenti: chi non ha mai saputo o volto guardarsi dentro somiglia a un automobilista ubriaco che si lancia a 150 km. l'ora, nella notte, su una strada piena di curve e di  incroci pericolosi. Solo un miracolo potrebbe impedirgli di fare del male a sé stesso e ad altri; ma, nel caso dell'analfabeta di sé stesso, ci vorrebbe una serie infinita di miracoli, ogni giorno della sua vita: il che significa chiedere davvero un po' troppo alla provvidenza.

Ora, noi viviamo in una società che ha fatto del carpe diem più sfrenato (non quello, misurato e dignitoso, dei filosofi epicurei, e anche del poeta Orazio) il suo emblema e il suo scopo. Avendo abolito ogni valore assoluto, viviamo immersi nel relativo, e del relativo ci facciamo volonterosi ministri e sacerdoti. Why not?, "perché no?", è diventato la nostra bandiera. Esaltiamo ed inseguiamo tutto ciò che è effimero, tutti gli impulsi più disordinati e, quel che è peggio, più artificiali, ossia creati dall'industria del consumo. Non solo i sentimenti più elevati, ma perfino gli impulsi più primitivi sono, spesso - e specialmente nei giovani e nei giovanissimi - artefatti e contraffatti. Come si fa, in tali condizioni, a parlare di autenticità? Molti rinoceronti diventano tali senza neanche rendersene conto - i figli dei rinoceronti, ad esempio, che nemmeno sospettano ci possa essere un altro modo di vivere. E l'intera società corre verso la propria autodistruzione, minata da innumerevoli pulsioni nichiliste ed anarcoidi, da una folla incontenibile di piccoli e grandi egoismi, da una scriteriata esaltazione di sempre nuovi diritti, immaginati come del tutto staccati dai doveri ad essi sottesi.

 

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Dopo aver cercato di spiegare perché, a nostro avviso, l'avvento dell'era dei rinoceronti sia un male, ci resta il compito doveroso di interrogarci su che cosa si possa fare per contrastarla e, se possibile, per invertire la tendenza. Non molto, questo è certo. Il male si è tanto diffuso che è quasi impossibile tornare indietro, anche se alcuni cominciano ad aprire gli occhi e a rendersi conto del grave pericolo in cui ci troviamo: ne va, infatti, della nostra felicità individuale ed anche, come si è detto, della sopravvivenza della nostra società. E il male si è tanto diffuso per un motivo piuttosto semplice: questa esaltazione dell'effimero, delle mode, dei capricci, dell'avidità, dell'ego, del guardare sempre fuori per non guardarsi mai dentro, tutto ciò va incontro alla naturale tendenza umana (per meglio dire: della gran maggioranza degli esseri umani) a cercare sempre la strada più facile, più piacevole e soprattutto meno faticosa. Le filosofie del "tutto e subito", del "ogni lasciata è persa", del "fa' ciò  che vuoi", del "perché no?", stanno distruggendo il rispetto più elementare per gli altri e per sé stessi, incoraggiando pratiche e stili di vita basati su un nichilismo suicida camuffato da edonismo.

In fondo, non è vero che gli uomini e le donne che si sono retrocessi spontaneamente alla condizione di rinoceronti (peraltro senza saperlo, anzi pensando giusto il contrario, di essere divenuti - come si è detto, super-uomini e super-donne) si vogliono bene. Chiunque rinunzi a un bene superiore per un bene inferiore, degradandosi, non si vuol bene, ma si odia; e si odia perché non si piace: ma, invece di cercare di piacersi agendo in profondità sulle proprie disarmonie, cerca di piacersi cambiando semplicemente vestito, o tingendosi i capelli, o magari trasferendo la propria residenza: come se queste cose potessero dare nulla più che un misero surrogato di un cambiamento autentico.

E pensare che, oggi, legioni di pseudo-scienziati e apprendisti stregoni, che si fanno chiamare psicologi e psichiatri (ma i più pericolosi sono i secondi) insegnano - facendosi lautamente pagare, sofisti incalliti della modernità -  che tutto è uguale a tutto, che nulla ha un senso, che noi possiamo solo, e anzi dobbiamo, strappare più grappoli d'uva che possiamo, e ingozzarcene fino quasi a scoppiare, prima di venir condotti al macello e sgozzati come maiali per il pranzo di Natale. È vero che ci sgozzeranno, dicono i moderni sofisti, ma intanto avremo avuto almeno la soddisfazione di riempirci il ventre…come rinoceronti.

 

Dopo quanto abbiamo detto, la strada da seguire per uscire dal vicolo cieco è evidente: riscoprire il piacere di piacersi, ma non nelle forme idiote e superficiali che il consumismo ci propone con le sue mille sirene, bensì riscoprendo la capacità di giudicare ciò che ci fa star bene ascoltando la nostra voce interiore - S. Agostino direbbe: il nostro Maestro interiore; la presenza divina che è in noi, soffocata sotto mille miraggi di bene e illusioni di possesso. Come se noi potessimo possedere qualcosa, oltre la nostra possibilità di essere liberi mediante la conoscenza autentica di noi stessi. Ma, per udire il Maestro interiore, dobbiamo fare un po' di silenzio attorno a noi; silenzio, e recupero della nostra capacità di ascolto.

Il resto, se le nostre intenzioni sono pure, verrà da solo.

 

 

                                                                                      Francesco Lamendola