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Cina, un affare criminale

di Antonio Gentilucci - 28/11/2007

     

 

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Sembra quasi uno sberleffo alle nazioni europee, che si affannano alla disperata ricerca di un aumento “zero virgola” del PIL. Ma la decisione del governo di Pechino di raffreddare l'impetuosa crescita della Cina (11,5% nel terzo timestre di quest'anno!) serve a farla digerire al vorace Dragone d'Oriente.
La Cina è la nuova frontiera del capitalismo. E’ oggi il Paese che calamita il maggior volume di investimenti, superando gli USA. Merito (si fa per dire) del regime (ex) comunista. Il quale costringe senza fiatare intere città a respirare i veleni delle industrie chimiche e in genere chiude gli occhi di fronte ad ogni scarico prodotto da quello che un tempo era l’Impero celeste (oggi grigio come lo smog che soffoca Pechino). Mantiene una condizione del lavoro ai limiti della disumanità (orari massacranti, ritmi militari, subordinazione totale ai proprietari-padroni).
Ma soprattutto, anche grazie ad una violenta politica demografica, ha creato un immenso Mercato. Ossia quella gigantesca cloaca dove buttare ogni tipo di merce.
E questo è ciò cui bramavano le imprese e le multinazionali mondiali. I mercati americani ed europei sono ormai saturi, per vendere qualcosa bisogna creare bisogni sempre più immaginari con una pubblicità sempre più subdola, violenta e invadente. Lo sforzo è tanto e la “resa” è poca. In Cina invece, hanno bisogno di tutto. Al contadino che ha dovuto abbandonare la campagna per inurbarsi viene chiesto solo di lavorare tanto e consumare tanto. E’ il loro turno di diventare felici con le gioie del capitalismo. Per intenderci: per far posto a giganteschi centri commerciali vengono fatti sloggiare gli abitanti di interi quartieri, addirittura di intere regioni, con le buone o con le cattive.
La Cina, divenuta spauracchio come esportatrice di beni (e lo è) sta divenendo un grande Paese importatore: per limitarci al nostro Paese, l’Istat ha rilevato che la Cina è il principale sbocco (al di fuori dell’UE) dei prodotti italiani, con un aumento su base annua di ben il 31,5%.
Si capisce bene che quel codazzo di affaristi che accompagnò Prodi a Pechino lo scorso anno, a firmare contratti e aprire fabbriche in quel loro nuovo paradiso e chiuderle qui, e magari propinarci poi gli stessi beni che hanno prodotto là, decreta nient'altro che l'ingresso della Cina nel grande mare della globalizzazione economica.
Scontenti gli occidentali che perdono il lavoro, o lo ottengono a condizioni “cinesi”. Scontenti i cinesi che devono sobbarcarselo a dosi sempre più, è il caso di dirlo, industriali.
Ma allora, quando imprenditori poco lungimiranti, economisti mediocri e politici asserviti ci dicono che la Cina è un’opportunità grandissima e da non perdere, dicono una bugia? No, dicono la verità. Ma non osano rivelarla tutta. La verità, tutta la verità, è che il sistema capitalista si regge non sulla produzione in sé, ma sull’incremento continuo di produzione. E ciò genere necessariamente squilibri spaventosi. A differenza dell’economia che avevamo prima della rivoluzione industriale, statica ma equilibrata, povera ma dignitosa.
Non ci dicono, i magnificatori del mercato globale e del progresso con gli occhi a mandorla, che siamo schiavi di un modello unico che inglobando anche il mercato cinese, è come iniettare una enorme dose di flebo a questa allucinazione mondiale. Ma il pianeta non può permettersi 1 miliardo e trecento milioni di cinesi che consumano e inquinano come facciamo noi. La resa dei conti, cari affaristi filo-cinesi, arriverà molto presto.