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E se Milano, e non Roma, fosse divenuta la capitale d'Italia?

di Francesco Lamendola - 07/01/2008

 

 

E se Roma non fosse stata fatta capitale del Regno d'Italia, nel 1870? Se la capitale fosse rimasta a Torino o, in alternativa, se fosse stata portata a Milano?  Quanto sarebbe stata diverso la nostra storia recente; e, soprattutto, avremmo uno Stato più efficiente, meno corrotto, meno pasticcione di quello odierno?

Pensieri oziosi, pensieri antistorici? Fin dai banchi di scuola ci hanno insegnato, e giustamente, che la storia non si fa con i "se", ma studiando ciò che effettivamente è accaduto.

Come ha osservato Leo Valiani nella sua notevole ricerca La dissoluzione dell'Austria-Ungheria (Milano, Il Saggiatore, 1966, p.412):

 

"(…) la storiografia che indugia a deplorare che certi eventi, e sia pure catastrofici, si siano prodotti, invece di concentrarsi nel compito di lumeggiare come si sono prodotti, ha il difetto di contrapporre, implicitamente o esplicitamente, dei 'se', delle ipotesi su quel che sarebbe potuto accadere 'se'…, a quel che è accaduto."

 

E tuttavia, non è detto che la prospettiva e la stessa forma mentis dello storico siano, sempre e comunque, la maniera migliore per comprendere il presente e i suoi problemi, specialmente quando esse tendono a scivolare nell'adorazione dell'esistente, della realtà "effettuale" e, quindi, inevitabilmente, del passato così come si è storicamente configurato.

Già Nietzsche metteva in guardia, nella Seconda Considerazione inattuale, intitolata Sull'utilità e il danno della storia per la vita, contro i rischi impliciti in un tale atteggiamento. Infatti nel 1874, ossia in pieno trionfo dello storicismo, egli osava affermare:

 

Certamente noi abbiamo bisogno di storia, ma in modo diverso da come ne ha bisogno il raffinato indolente nel giardino del sapere, anche se costui potrebbe guardare dall'alto i nostri duri e rozzi bisogni e necessità. Cioè, noi ne abbiamo bisogno per la vita e per l'azione, non per un comodo voltar le spalle alla vita e all'azione, o addirittura per dare un abbellimento alla vita egoistica e all'azione vile e cattiva. Noi vogliamo servire la storia nei limiti in cui essa serve la vita: ma vi è un grado di fare storia e una valutazione della stessa, in cui la vita deperisce e degenera: un fenomeno che oggi è necessario esperire sulla base dei rimarchevoli sintomi del nostro tempo, nella stessa misura in cui può essere doloroso." (Traduzione italiana di  Ferruccio Masini, in Nietzsche, Opere, Roma, Newton & Compton Editori, 1993, 2 voll.; I, p. 337).         

 

Chiarito, dunque, che lo studio della storia non deve trasformarsi in una adorazione della realtà effettuale che tarpi le ali a ogni slancio di progettualità e offuschi la capacità di pensare in grande quanto al presente e al futuro, vogliamo permetterci una breve riflessione meta-storica circa i presupposti e le implicazioni della scelta di Roma quale capitale del nuovo Stato.  Quest'ultimo era sorto, quasi magicamente, nel breve spazio del biennio 1859-60, fra lo stupore di molti europei che avevano visto a lungo nell'Italia, come il ministro austriaco Metternich al Congresso di Vienna, una mera "espressione geografica" (frase, questa, che comunque non era stata pronunciato nel significato dispregiativo che poi le è stato attribuito dalla tradizione storiografica italiana).

Perché, dunque, fin dal momento della proclamazione del Regno d'Italia, venne formulato espressamente l'auspicio che Roma avrebbe dovuto esserne, prima o poi, la capitale, mentre essa erra ancora sotto il dominio temporale di papa Pio IX (e vi sarebbe rimasta sino alla famosa "breccia di Porta Pia" del settembre 1870)?

Si prese in considerazione, da parte del governo sabaudo, la possibilità di lasciare la capitale a Torino, oppure di portarla in un'altra città, che non fosse Roma?

Per rispondere a queste domande, dobbiamo riportare una parte del famoso discorso che il conte Camillo Benso di Cavour tenne al Parlamento di Torino, nella storica giornata del 25 marzo 1861;  omettendo, in questa sede, quasi tutta la parte riguardante il problema specifico del potere temporale della Chiesa, e limitandoci a quella in cui si espongono le ragioni che rendevano ovvia, secondo l'insigne statista piemontese, la scelta di Roma come futura capitale dello Stato nazionale italiano e quelle che la rendevano politicamente realizzabile e moralmente legittima (riportato in: Franco Gaeta - Pasquale Villani, Documenti e testimonianze. Antologia di documenti storici, Milano, Principato Editore, 1971, pp. 705-708).

 

"la questione della capitale non si scioglie, o signori, per ragioni né di clima, né di topografia, neanche per ragioni strategiche; se queste ragioni avessero dovuto influire sulla scelta della capitale certamente Londra non sarebbe la capitale della Gran Bretagna, e forse nemmanco Parigi lo sarebbe della Francia. La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative.

"Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio; di una città cioè destinata ad essere la capitale di un grande Stato. [Segni di approvazione su vari banchi]. Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d'Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all'Europa, affinché chi ha l'onore di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall'intiera nazione [Applausi]. Io credo di avere qualche titolo a poter fare quest'appello a coloro che per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto:; giacché ,o signori, non volendo fare innanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunciare assolutamente, definitivamente ad ogni speranza di poter conservare nel suo seno la sede del governo [Approvazione].(…)

"Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d'Italia.

"Ma qui cominciano le difficoltà del problema, qui comincia la difficoltà della risposta che debbo dare all'onorevole interpellante [Profondo silenzio].

"Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni: noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre senza che la riunione di questa città al resto d'Italia possa essere interpretata dalla grande massa dei cattolici d'Italia e fuori d'Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo cioè andare a Roma, senza che per ciò l'indipendenza vera del Pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma senza che l'autorità civile estenda il suo potere all'ordine spirituale.

"Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo andare a Roma senza porre in pericolo le sorti d'Italia.

"Quanto alla prima vi disse già l'onorevole deputato Audinot che sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni d'Europa, di voler andare a Roma malgrado l'opposizione della Francia. Ma dirò di più: quando anche per eventi che credo  non siano probabili e nemmeno possibili la Francia si trovasse ridotta in condizioni tali da non poter materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l'unione di essa al resto d'Italia, se ciò dovesse recar grave danno ai nostri alleati.

"Noi, o signori, abbiamo contratto un gran debito di gratitudine verso la Francia. Io non intendo certo che siano applicabili alle relazioni internazionali tutte le strettissime regole di moralità che debbono regolare i rapporti individuali, tuttavia vi sono certi principii di morale che le nazioni stesse non violano impunemente. (…)

"Ma, o signori, noi abbiamo, rispetto alla Francia, un motivo ancor più grave di accordarci con essa. Quando noi abbiamo invocato nel 1859 l'aiuto francese , quando l'imperatore acconsentì a scendere in Italia a capo delle bellicose sue schiere, egli non ci dissimulò quali impegni ritenesse di avere rispetto alla Corte di Roma. Noi abbiamo accettato il suo aiuto senza protestare contro gl'impegni che ci dichiarava di avere assunti; ora, dopo aver ricavati tanti benefizi dall'accordata alleanza, non possiamo protestate contro impegni che fino a un certo punto abbiamo ammessi. Ma dunque mi si obietterà, la soluzione della questione di Roma  è impossibile!

"Rispondo: se noi giungiamo a far sì che si verifichi la seconda delle accennate condizioni, la prima non offrirà molti ostacoli; se noi giungiamo, cioè, a far sì che la riunione di Roma all'Italia non faccia nascere gravi timori nella società cattolica (intendo per società cattolica quella gran massa di persone di buona fede che professano il dogma religioso per sentimento vero e non per fini politici, quella gran massa la cui mente non è offuscata da volgari pregiudizi); se noi, dico, giungiamo a persuadere la gran massa dei cattolici che l'unione di Roma all'Italia può farsi senza che la Chiesa cessi d'essere indipendente, credo che il problema sarà quasi sciolto.

"Non bisogna farsi illusione; molte persone di buona fede, non animate da pregiudizi ostili all'Italia e nemmeno alle idee liberali, temono che, quando Roma fosse unita all'Italia, quando la sede del Governo italiano fosse stabilita in Roma, quando il re sedesse sul Quirinale, temono, dico, che il Pontefice avesse a perdere molto e in dignità e in indipendenza; temono in certo modo che il Pontefice invece d'essere il capo di tutto il cattolicismo dovesse essere ridotto alla carica di rande elemosiniere o di cappellano maggiore [Si ride.]

"Se questi timori fossero fondati, se realmente la caduta del potere temporale dovesse trar seco necessariamente questa conseguenza, io non esiterei a dire che la riunione di Roma allo stato d'Italia sarebbe fatale non solo al cattolicesimo, ma anche all'Italia; giacché, o signori, io non so concepire maggiore sventura per un popolo colto che vedere riunita in una sola mano de' suoi governanti, il potere civili e il potere religioso. [Bene!]

"la storia di tutti i secoli, come di tutte le contrade, ci dimostra che, ovunque questa riunione ebbe luogo, la civiltà quasi sempre immediatamente cessò di progredire, anzi indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì; e ciò, o signori, sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere temporale, sia che un califfo o un sultano riunisse nelle sue mani il potere spirituale. Dappertutto questa fatale mescolanza ha prodotto gli stessi effetti: tolga adunque Iddio, o signori, che ciò avvenga nella nostra contrada. Ciò premesso, io credo dover sollevare da tutti i lati la sollevata questione, quella degli effetti che la riunione di Roma all'Italia avrà sulla dipendenza del potere spirituale del Pontefice.

"La prima cosa che io debbo fare si è di esaminare se ora veramente il potere temporale assicuri al Pontefice una effettiva indipendenza. In verità se ciò fosse, se il potere temporale garentisse ora, come nei secoli scorsi, l'indipendenza assoluta del Pontefice, io esiterei molto a pronunziare la soluzione di questa problema. Ma, o signori, possiamo no, può alcuno affermare con buona fede che il potere temporale del Pontefice qual è ora costituito conferisca alla sua indipendenza? No certamente, quando si volgiamo considerare le condizioni attuali del Governo romano con spirito di imparzialità.

"Nei secoli scorsi quando il diritto pubblico europeo non conosceva quasi nessuno altro titolo giuridico di sovranità che il diritto divino; quando i sovrani erano considerati come proprietari assoluti dei paesi che costituivano il loro dominio; quando i vari Governi d'Europa rispettavano questo principio, oh! Io intendo che, pel Pontefice ,il possesso di alcune provincie, di uno Stato di qualche estensione fosse una garanzia d'indipendenza. In allora questo principio era accettato, ed almeno subito dalle popolazioni stesse; quindi volendo o non volendo, simpatico od antipatico che fosse loro quel governo lo accettavano, lo subivano; perciò io non esito a riconoscere che sino al 1789 il potere temporale fu del Pontefice una garanzia d'indipendenza.

"Ma ora, o signori, questo diritto pubblico è mutato; quasi tutti i governi civili riposano sul principio del consenso o tacito o esplicito delle popolazioni. Noi vediamo questo principio solennemente proclamato in Francia de in Inghilterra; noi lo vediamo quasi accettato in Prussia; vediamo persino che l'Austria stessa vi si accosta, e che la Russia, se lo contesta ancora, non lo respinge più con quella veemenza con cui lo combatteva l'imperatore Nicolò; il quale aveva quasi fatto del diritto divino un dogma religioso.

"Ammesso che il consenso dei popoli al governo che è loro imposto sia necessario, è facile dimostrare che il potere temporale manca assolutamente di fondamento. Ora, che non ci sia questo consenso, che anzi vi sia stato e vi sia tuttora un antagonismo crescente tra le popolazioni degli antichi domini del papa ed il governo temporale del Sommo Pontefice è cosa evidente.(…)

"Questo antagonismo si fece più forte e più irresistibile dopo il 1848, e d'allora in poi non bastò più la minaccia dell'intervento l'intervento effettivo esteso a tutte le parti dello Stato divenne una necessità.(…)"

 

Riassumendo, Cavour e il suo ministero liberale davano per scontato che Roma dovesse divenire la capitale del Regno d'Italia - al punto da domandare, poco liberalmente, a tutti i membri del Parlamento di non porre nemmeno in discussione tale linea politica - essenzialmente per due  ragioni, entrambe di tipo morale.

La prima: perché solo Roma aveva, fra le maggiori città italiane, un passato non esclusivamente di tipo municipale; e perché essa sola aveva fondato una tradizione (in pratica, quella dell'Impero) che andasse molto al di là della sua sfera più prossima, in senso ideale e spirituale.

La seconda: perché, dopo la Rivoluzione francese, si era affermato ovunque, in Europa, il principio del consenso dei popoli verso i propri rispettivi governi; e la Corte pontificia non godeva più, se pure ne aveva goduto in passato, del consenso del popolo romano.

Vale dunque la pena di esaminare brevemente queste due ragioni in favore di Roma capitale.

La prima era vera, ma all'interno di una mezza verità. L'Italia non era mai stata uno Stato e l'Impero Romano non era uno Stato di tipo nazionale, ma uno Stato plurinazionale fondato dalla città di Roma, che aveva, per prima cosa, conquistato e sottomesso le altre città italiane, l'una dopo l'altra. Sicché, era logico che Roma fosse l'unica città che avesse giocato un ruolo politico di ampio respiro; ma era falso che l'Impero romano fosse stato un Impero italiano, ossia che lo si potesse pensare come l'antecedente storico del Regno d'Italia, nato nel 1861. Anche dopo aver sottomesso tutta l'Italia, Roma non era mai stata la capitale morale dell'Italia, bensì dell'Impero; sicché vedere e presentare la Roma del 1861 come l'erede naturale della Roma dei Cesari costituiva una forzatura storica.

A ciò si aggiunga che l'Impero dei Cesari era caduto nel 476, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte del barbaro Odoacre: quasi esattamente millequattrocento anni prima del compimento dell'unità d'Italia. Ne era passata, da allora, di acqua sotto i ponti! Quattordici secoli di storia non son cosa da poco: sarebbe come dire che la capitale dell'Egitto moderno deve essere Menfi, Tebe o, al massimo, Alessandria, perché le prime due furono le capitali dei faraoni, la terza dei sovrani ellenistici; o, meglio ancora, che la capitale della Germania moderna deve essere Aquisgrana, perché era stata la sede (peraltro, temporanea) della corte di Carlo Magno.

Non basta. L'Impero di Roma era divenuto, nella coscienza dei popoli europei durante il Medioevo, il simbolo di una sovranità politica universale; perfino il Sacro Romano Impero Germanico non era stato che un tentativo di far rivivere quel sogno del passato. Roma, pertanto (che era stata la Roma dei papi per millequattrocento anni, cioè molto più a lungo di quanto non fosse stata la Roma dei Cesari), era divenuta, per la coscienza degli Europei e del mondo intero, il simbolo di una sovranità transnazionale: e di questo simbolo si voleva fare, ora, la capitale di un nuovo Stato, sorto proprio sulla spinta dell'affermazione del principio di nazionalità. La contraddizione è evidente. Se Roma era stata, per un tempo lunghissimo, il simbolo di un'idea politica universale, ora quella città come poteva divenire il simbolo della nazione italiana, una fra le tante nazioni d'Europa e del mondo? E come avrebbe potuto spogliarsi del simbolo della seconda idea universale ch'essa aveva impersonata, quella dell'universalismo religioso?

La seconda ragione addotta da Cavour - il principio del consenso dei governati verso i propri governanti - era, invece, una bugia bella e buona; o, nella migliore delle ipotesi, un pio desiderio. Anche se, nel 1848, il popolo romano aveva costretto Pio IX a fuggire a Gaeta e aveva poi combattuto eroicamente sulle barricate della Repubblica Romana, quella stagione era passata per sempre. Adesso i Romani non erano più così impazienti di scuotere il giogo del governo pontificio. Lo si sarebbe visto, nel modo più chiaro, nel 1867, quando Garibaldi tentò il gran colpo e venne fermato dai Francesi a Mentana. I Romani non fecero nulla per andare incontro al loro "liberatore", e non mossero un dito quando le guardie pontificie massacrarono i fratelli Cairoli, che avevano cercato di accendere l'insurrezione in città, a Villa Glori.

Pertanto, se Cavour voleva dare a intendere che il popolo di Roma non era più disposti a lasciarsi  governare dal papa e non attendeva altro che l'arrivo degli Italiani, ciò non era affatto vero. Eppure i suoi agenti nella Città Eterna dovevano averlo ben edotto sui sentimenti della popolazione, sicché riesce difficile credere che fosse davvero così male informato: proprio lui, così scaltro nei mille segreti della diplomazia internazionale.

 

Ora, però, proviamo a invertire il ragionamento e domandiamoci perché Roma non avrebbe dovuto essere designata quale (futura) capitale del Regno d'Italia.

La prima ragione, secondo noi, è che il lunghissimo dominio temporale dei papi aveva creato un clima non solo politico, ma altresì morale, che avrebbero dovuto sconsigliare di farne, da un giorno all'altro, la capitale di uno Stato moderno, laico, liberale, basato sul principio di nazionalità. Come un palazzo, o un castello, che è stato abitato per secoli da un potente casato feudale, non può diventare dall'oggi al domani un albergo di lusso o una sede amministrativa: c'è qualcosa nelle sue abitudini, nello stile della servitù, nella sua organizzazione interna (arredamento, cucina, riscaldamento, cura del giardino) che non si addice a una gestione del tutto diversa, e che richiede tempi lunghi per essere modificato.

Una capitale è fatta dalla somma del governo e dei cittadini. Ora, i cittadini romani possedevano, sotto il profilo economico, sociale, culturale e psicologico, i requisiti per divenire i cittadini della capitale di un grande e giovane Stato, sorto in pochi anni sull'onda di eventi legati alla storia moderna? Il popolo romano si era particolarmente distinto nel corso di quegli eventi, aveva mostrato di sapere e di volere porsi alla testa, almeno idealmente, del movimento di unificazione nazionale? Possedeva, inoltre, il popolo romano - quello del 1861, non quello di quattordici secoli prima -, l'attitudine a trasfondere le sue energie nelle attività produttive, o in quelle scientifiche e tecniche, o in quelle artistiche? A ciascuna di queste domande, se si vuol essere onesti, bisogna rispondere decisamente di no.

Perciò la Roma cui pensava Cavour non era la Roma del suo tempo, fatta di persone e cose concrete, ma una Roma puramente ideale, la Roma del mito e dei libri di storia antica; una città che esisteva solo nell'immaginario collettivo.

L'Italia nasceva giovane e piena di fervore; e, prima ancora di aver regolato la questione del potere temporale, i suoi uomini di governo avevano già deciso di darle per futura capitale una città vetusta, carica di un ingombrante passato, immersa nei suoi ricordi e nella sua desolazione. Dove un tempo sorgeva, splendido, il Foro Romano, nell'Ottocento si estendeva il Campo Vaccino, pascolo per gli armenti; ovunque s'innalzavano monumenti in abbandono e regnava, onnipresente, la malaria, che rendeva pericoloso visitare perfino il Colosseo, d'estate, nelle ore dopo il tramonto. E, a pochi chilometri fuori città, le Paludi Pontine: nido di zanzare e nido di briganti.

Tutto, in verità, si poteva dire, tranne che Roma possedesse di fatto i requisiti non già per divenire la capitale di un grande e giovane Stato, ma semplicemente per essere considerata una città moderna.

Torino, la città da cui era partito il movimento unitario, anche se decentrata geograficamente, era sotto questo profilo molto più adatta. Del resto, Vittorio Emanuele II non aveva conservato il titolo di "II" anche dopo esser divenuto il primo re d'Italia, come a dire che la "nuova" Italia era, per i Savoia, nulla più che un semplice ingrandimento del Piemonte? Molto più logico sarebbe stato lasciare la capitale a Torino e denominare il re Vittorio Emanuele I di Savoia.. Questo, sì, avrebbe dato l'idea di un nuovo inizio, di una "nuova" Italia.

Oppure, Milano. Milano perché, già allora, era dal punto di vista economico, ma anche culturale, la città più dinamica, più moderna, più "europea" di tutta la Penisola. Posta quasi al centro della Pianura Padana, era anch'essa geograficamente eccentrica; ma non lo erano anche Londra rispetto alla Gran Bretagna e Parigi rispetto alla Francia, come del resto Cavour aveva fatto notare? In compenso, la Pianura Padana è il luogo di contatto fra l'Italia e l'Europa; e, per fare del neonato regno italiano uno Stato di tipo veramente europeo, bisognava cominciare con l'avvicinarlo il più possibile al cuore pulsante dell'Europa: alla Francia, alla Svizzera, alla Germania e all'Austria, i suoi vicini settentrionali.

Così come Parigi aveva settentrionalizzato la Francia, Milano avrebbe potuto settentrionalizzare l'Italia. Non per un bieco pregiudizio razzista, ma semplicemente perché quelli erano i modelli che si volevano imitare: la democrazia inglese, l'economia francese, le ferrovie tedesche, la buona amministrazione austriaca. Certo non si voleva imitare la teocrazia papale né il dispotismo borbonico; non si volevano estendere i latifondi meridionali, ma il modello della piccola proprietà agraria e della mezzadria del Centro-Nord. Solo così, settentrionalizzando l'Italia, si sarebbe potuto aiutare anche il Sud a uscire da secoli di arretratezza e di abbandono, di cui Napoli - la città più popolosa d'Italia, ma anche la più squallidamente misera, ancora straziata da ricorrenti epidemie di colera  - era il simbolo negativo.

Guarda caso, l'unico grande Stato europeo a darsi una capitale al centro geografico del proprio territorio, scegliendola per ragioni puramente amministrative, era stata la Spagna di Filippo II: la Spagna che, nell'Europa moderna, aveva fornito il modello negativo del centralismo inefficiente e velleitario, del fiscalismo assurdo e rapace, dello sperpero economico e finanziario. La Spagna che, a partire dal XVII secolo, aveva trascinato a peso morto, nella propria inarrestabile decadenza, tutta l'Italia meridionale, e del cui esoso e corrotto malgoverno era rimasto impresso il ricordo per generazioni e generazioni.

Che cosa sarebbe oggi l'Italia, se Torino o Milano ne fossero state le capitali sin dal compimento dell'unità?

Avremmo ancora, più forte che mai, la presenza della malavita organizzata in tutto il Mezzogiorno e oltre? Avremmo ancora una classe politica che vivacchia occupando il potere quanto più a lungo possibile, senza mai affrontare i nodi centrali della vita economica e sociale del Paese? Avremmo ancora quella mentalità temporeggiatrice, parolaia, statalista nel senso peggiore del termine, sostanzialmente parassitaria, che affligge le classi dirigenti, che paralizza la volontà quando bisogna prendere delle decisioni, che non arrossisce nemmeno davanti ai fallimenti più clamorosi, che non fa mai un minimo di autocritica?

Non stiamo dipingendo un quadro negativo di maniera; è cronaca di questi giorni. Napoli e la Campania affogano sotto il peso di 60.000 tonnellate di rifiuti altamente inquinanti, così inquinanti che perfino gli avanzatissimi inceneritori tedeschi si sono rifiutati di farsene carico; le autorità preposte non hanno fatto nulla per anni e anni; la popolazione è in rivolta, la camorra mesta nel torbido. E i rifiuti restano tutti lì, anzi crescono giorno dopo giorno, si accumulano, ammorbano l'aria.

Se fossimo in piena estate, probabilmente sarebbe già scoppiata un'epidemia.

Di colera.

Come ai tempi della Spagna o dei Borboni.