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Usa: i tre piccoli segreti di una economia d'importazione, fatta a debito

di Joseph Halevi - 09/01/2008



La crisi finanziaria statunitense, apertamente in atto da circa sei mesi, pone in rilievo il carattere effettivo della globalizzazione i cui assi centrali sono Cina, deficit estero Usa ed indebitamento (privato e delle famiglie americane).

La prima ha creato una novità assoluta per il capitalismo. Finalmente il sistema può funzionare in maniera marxista, fondandosi sistematicamente su un esercito industriale del lavoro attivamente operante contro quello dei paesi sviluppati, e non solo. Dato che la Cina ha la maggioranza delle filiere che producono input per gli altri settori, il basso costo del lavoro si applica a gran parte delle interconnessioni produttive e non unicamente alle fasi finali. Le merci prodotte in Cina per conto di multinazionali possono quindi competere in termini di massa e margini di profitto anche contro le merci fabbricate in Indonesia, sebbene lì i salari siano assai inferiori. Lontana anni luce dalla complessità settoriale della Cina, l'Indonesia non ha la base materiale per generare simili economie di scala.

La trasformazione capitalistica della Cina è un processo strettamente guidato dalle autorità cinesi, ma non in maniera unilaterale. Esso è avvenuto anche in connessione diretta con gli interessi Usa. Si vedano le fasi che hanno portato alla rapida concessione alla Repubblica Popolare Cinese (Rpc) dello status di nazione più favorita da parte di Washington nel 1982, pochi anni dopo il varo delle 4 modernizzazioni da parte di Deng Xiaoping. Lo stesso dicasi per il contenuto delle trattative sfociate nell'entrata di Pechino al WTO. Le imprese che dagli Usa licenziano, delocalizzando e subappaltando in Cina, ottengono guadagni immediati; mentre l'impatto sul potere d'acquisto, quindi sulla domanda, si farà sentire solo dopo un certo tempo. E qui entrano in ballo sia la questione del deficit estero che del debito delle famiglie, cambiando la dimensione temporale del problema.

Come spiegato da Paul Volcker, predecessore di Greenspan, la politica antisindacale di Reagan ha lanciato la deflazione salariale continuata - aggiungo - grazie alla deindustrializzazione e al conseguente deficit estero. La deindustrializzazione ha cambiato la composizione dell'occupazione, polarizzandola verso settori ad impieghi e salari «flessibili». Sono trent'anni che negli Usa le remunerazioni del lavoro dipendente aumentano meno del valore della produzione. Secondo calcoli del Economic Report of the President del 2007, i redditi reali settimanali sono ancora inferiori a quelli del 1973. Se non ci fosse stato l'indebitamento delle famiglie, l'economia Usa sarebbe caduta in grave depressione. Infatti nè gli investimenti, nè il deficit pubblico hanno mai colmato il divario tra capacità di spesa delle famiglie e valore della produzione. Con l'indebitamento privato e la pioggia di soldi pubblici sul sistema finanziario ad ogni crisi (1987 crollo di Wall Street, 1989 Saving and Loan, 1995 crisi messicana, 1998 Long Term Capital, 2001 crollo della New Economy, 2007... subprime), la stabilità del sistema sembrerebbe garantita, purchè gli altri stiano al gioco sostenendo i deficit Usa.

Le importazioni dalla Cina permettono di prendere tre piccioni con una fava. Wal Mart, il più grande datore di lavoro statunitense, ne è l'esempio principale. Bassi salari ai propri dipendenti negli Usa, posizione quasi monopolistica nei confronti dei fornitori cinesi, importazione di merci prodotte con salari cinesi. Questi sono i tre fattori principali del basso livello di inflazione nei prezzi correnti. La trasformazione degli Usa in un'economia globale d'importazione mette il paese al centro della domanda mondiale e crea cointeresse da parte dei governi a non scardinarne la posizione.

Malgrado le lamentele, il resto del mondo - Cina e Giappone in testa - è disposto a rifinanziare il deficit Usa comprando a man bassa buoni del Tesoro americani, anche per arginare la svalutazione del dollaro. La grande domanda mondiale di buoni del Tesoro Usa ne aumenta il prezzo e ciò riduce automaticamente il saggio di interesse di lungo periodo, che serve a stabilire il tasso sui mutui. Il crescente dislivello tra valore della produzione e salari spinge sia le banche a creare nuovo credito, che le famiglie ad indebitarsi.

Ci vuole però un saggio di interesse fattibile. Se nessun paese estero volesse i buoni di Washington - come è invece successo per i debiti messicani, argentini, brasiliani - le imprese Usa non potrebbero prendere tre piccioni con una fava e i tassi non sarebbero agibili. Ora, più si espande l'insieme del debito privato, interno ed estero, più bisogna assicurarsi contro le incertezze e i rischi - compresi quelli legati al tasso di cambio - e più è necessario attrarre denaro dall'estero facendo balenare laute plusvalenze future, soprattutto quando l'erogazione del credito sui mutui espande la domanda di abitazioni e crea inflazione nei valori immobiliari.

Ed ecco che si innesca il meccanismo delle «cartacce collaterali» di cui si è già parlato (il manifesto, 27 dicembre). Tale meccanismo è necessario perchè la propagazione delle cartacce nel mondo, acquistate ad esempio da alcune banche regionali tedesche, convoglia soldi verso gli Usa e rende possibile la «dispersione del rischio», rinviando quindi i conti con la realtà. Quando questa poi si manifesta, la predisposizione a finanziare i truffatori - che poi è il sistema finanziario stesso - si afferma senza difficoltà. Tuttavia, come vedremo successivamente, la profondità della crisi sta inducendo, proprio da parte di multinazionali statunitensi, dei mutamenti circa la valutazione della centralità degli Usa.