Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ogni uomo che senta la bellezza di vivere è un amante dell'Orsa Maggiore

Ogni uomo che senta la bellezza di vivere è un amante dell'Orsa Maggiore

di Francesco Lamendola - 30/01/2008

 

 

 

Nel giustamente celebre libro-confessione del polacco Sergiusz Piasecki, L'amante dell'Orsa Maggiore (titolo dell'opera originale: Kochanek Wielkiej Niedžwiedzicy; 1939; traduzione italiana di Evelina Bocca Radomska e Gian Galeazzo Severi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1942; 1965, c'è un episodio particolarmente significativo, allorché il protagonista "scopre" la costellazione dell'Orsa Maggiore e, letteralmente, se ne innamora. Ma scopre ben presto di non poter condividere la sua passione con i suoi allegri compagni di contrabbando, rozzi e superficiali, tranne che con uno strano personaggio che si è aggregato, chissà in quali circostanze, a quegli avventurosi fuorilegge, chiamato Pietro il Filosofo.

L'Orsa Maggiore, per Vladek, (il protagomista del romanzo) rappresenta tutto ciò che egli ama di quella vita libera e selvaggia, fatta di pericoli e di forti emozioni, di mistero notturno, di spazi sconfinati; e poi ancora di amicizia virile, di belle ragazze, di vodka, feste, gioco e allegre risse tra ubriachi. Quando la scopre, in una radura in mezzo a un bosco fitto ed immenso, dopo una fuga precipitosa da un agguato delle guardie di frontiera, prova una gioia e una commozione che ricordano il famoso episodio della "scoperta" della Luna da parte del povero, spaventato minatore siciliano nella novella di Luigi Pirandello Ciaula scopre la Luna.

Non si tratta, però, solo di gratitudine per un ritrovato senso di protezione, di sicurezza e di conforto, ma di un amore "disinteressato" che, attraverso gli splendidi astri che brillano fermi nel vivido cielo notturno, nel profumo del bosco abeti e di betulle, si trasforma quasi in un francescano cantico di lode alla bellezza della natura; di un aspro, pungente grido d'amore per la vita, per la sua magnificenza, per il suo mistero, per il suo fascino inesauribile.

Vladek, l'«amante dell'orsa maggiore» (che è poi un personaggio realmente esistito, così come tutta la storia è una storia vera, analogamente a quella di Papillon di Henri Carriére) è un contrabbandiere-poeta: non lo interessa tanto il facile guadagno, quanto l'eccitante dimensione avventurosa e fantastica che avvolge la vita sulla frontiera russo-polacca negli ani Venti del Novecento.

"Vivevamo noi come fanciulli smarriti in una fiaba", dice egli stesso (e sembra un verso di una poesia tutt'altro che banale), consapevole delle ragioni non puramente materiali, ma profondamente spirituali, che lo avevano sospinto ad abbracciare quella carriera di contrabbandiere così incerta e pericolosa.

 

Scrive dunque Piasecki (Op. cit., pp. 5-6 e 61-62):

 

"Amavo le albe deliziose e freschissime di primavera quando il Sole giocava come un bambino sparpagliando nel cielo colori e luci.

"Amavo i crepuscoli estivi quando la terra respirava la calura e il vento rinfrescava e accarezzava dolcemente i campi profumati.

"Amavo l'incantesimo degli autunni variopinti, quando l'oro e la porpora danzavano nell'aria staccandosi dagli alberi e tessevano sui sentieri tappeti sontuosi mentre le nebie canute si cullavano sui rami degli abeti.

"Amavo anche le gelide notti invernali, quando il silenzio condensava l'aria e la luna meditabonda cospargeva di diamanti il candore della neve.

"In mezzo a queste meraviglie e a questi favolosi tesori, in mezzo a questo sfolgorio di colori e di riflessi, vivevamo noi come fanciulli smarriti in una fiaba. La nostra non era una battaglia per l'esistenza, ma una lotta per la libertà di movimento e per la gioia dell'amicizia. Nelle nostre teste scorrazzavano tutti i venti, negli occhi balenavano i fulmini, danzavano cirri e nuvole e le stelle ci sorridevano. Davano a noi il benvenuto e ci salutavano le raffiche di carabine: e spesso era il saluto della Morte, che danzava sgomenta intorno, indecisa chi rapire per primo.

"Spesso mi mancava il respiro per la traboccante gioia di vivere. Ogni tanto, stupidamente, gli occhi si inumidivano di lacrime. Ogni tanto qualcuno lanciava una bestemmia e subito sorrideva infantilmente o mi tendeva con rudezza la sua mano fedele.

"Si facevano poche parole. Ma quelle poche erano parole schiette, riusciva facile comprenderle; e sempre sapevo che non erano le solite proteste, i giuramenti consueti, e proprio per ciò erano sicure.

"Così volavano in un turbine variopinto intere giornate e notti pazzesche di cui Qualcuno per una misteriosa ragione ci faceva dono.

"E su tutto ciò: su di noi, sulla Terra, sopra le nubi, nella è parte settentrionale del Cielo trascorreva il Gran Carro… regnava unica, magnifica, incantata l'Orsa Maggiore. (…)

"Trofida mi aveva fatto già vedere nel cielo sete stelle le quali mi avevano aiutato parecchie volte a ritrovare la strada. Mi ero profondamente affezionato ad esse e sempre, quando le nuvole non coprivano il cielo, le guardavo con la stessa tenerezza che avrei provato guardando gli occhi di un amico. Mi sentivo a disagio quando il cielo era coperto, e non potevo dominare questa tristezza.

"Una volta mentre ci riposavamo in una bellissima e serena notte mi rivolsi a Ivanka il Bolscevico che mi stava accanto, indicando le sette stelle.

"«Be', le vedo, e poi?» disse lui.

"«Che cosa ti ricordano quelle stelle?».

"Ivanka rimase zitto per un po', fissando il cielo con gli occhi socchiusi, poi disse:

"«Un'oca, un'oca ben grassa con un collo lungo».

"Mi sentii offeso. Mi accorsi d'un tratto che Ivanka era brutto, che le sue orecchie erano a sventola come quelle degli ebrei, che il suo nasone aveva una tinta violacea, che le sue spesse labbra  pendevano, che era stupido e che mi ripugnava  moralmente e fisicamente. Non gli rivolsi più la parola.

"Un'altra volta rivolsi la stessa domanda a Felek Tartaruga, che non riuscì dapprima a capire di che stelle si trattasse e poi quando finalmente le vide, disse:

"«Vedo, vedo, tu vuoi dire quella casseruola».

"Mi prese la rabbia. Quello lì non vedeva che roba da mangiare e utensili di cucina dappertutto! Era sciocco voler parlare di utensili da cucina con della gente che non pensava che a bere e a mangiare.

"Per molto tempo nutrii il desiderio di parlare di quelle stelle con Pietro il Filosofo, che mi dava soggezione per la sua serietà e per le sue vaste conoscenze.  Una volta trovai l'occasione propizia. Pietro mi capì al volo e mi rispose:

"«Quelle stelle hanno un nome comune, si chiamano la costellazione del Grande Carro».

"«Il Grande Carro?», esclamai con gioia.

"«Sì, poi hanno un nome latino, Ursa Major».

"«Non capisco».

"«Vuol dire l'Orsa Maggiore, e si usa chiamarle soprattutto così».

"L'Orsa Maggiore! L'Orsa Maggiore! Com'era possibile che gli scienziati avessero potuto trovare un nome così meraviglioso e bello. L'Orsa Maggiore, ripetevo incantato…

"«Vi interessate di astronomia? Volete sapere qualche cosa sulle stelle? - chiese Pietro. - Potrei prestarvi un manuale di cosmografia, così potreste leggere parecchio sull'argomento».

"«No, no. Mi interessano soltanto queste stelle»,risposi.

"Da quel giorno sentii crescere la mia amicizia per Pietro e anche per il suo inseparabile compagno, Giulio il Matto."

 

In questo brano appare in tutta la sua evidenza il contrasto fra una vita vissuta nella totale immediatezza e nella inconsapevole immedesimazione con le cose, come lo è per la maggior parte degli uomini (e non solo dei contrabbandieri o dei cosiddetti fuori-legge); e una vita capace di autocoscienza e di riflessione , come lo è quella del protagonista: una vita, cioè, capace di osservare non solo le cose, ma anche se stessa nell'atto di osservarle, di goderne e di gioirne.

In questa pagina de L'amante dell'Orsa Maggiore abbiamo, inoltre, una geniale intuizione, che pone Piasecki, scrittore non professionista e, anzi, "rifiuto" della società borghese (condannato a morte in un primo tempo, a una lunga pena detentiva poi), addirittura al di sopra della prospettiva "dualistica" che caratterizza i grandi scrittori europei della crisi.

Per Proust, Joyce, Musil, Kafka, Svevo,  Pirandello, Thomas Mann e Joseph Roth (per non citare che i maggiori) l'umanità si divide in due grandi categorie, i "sani" e i "malati" (o inetti, o anti-eroi dei rispettivi romanzi); i primi, che vivono la vita lottando per conquistare ciò che vogliono; i secondi, che si ripiegano in un mondo illusorio di sogni e si tormentano in una incessante auto-analisi, che ne paralizza la volontà e li vota all'insuccesso nella sfera pratica. I primi sanno godere, i secondi no (anche se Svevo, a un certo punto, si consola col pensiero che gli inetti, essendo meno "specializzati" nei diversi ambiti sociali, sarebbero forse gli unici a cavarsela, qualora dovesse sopraggiungere un improvviso e radicale cambiamento materiale). Per usare una celebre espressione di Pirandello, "la vita la si vive, o la si scrive": cioè, coloro che non sanno vivere e gustare a vita in prima persona, come invece fa la maggioranza degli esseri umani, ripiegano sulla scrittura, ossia sull'osservazione distaccata della propria e dell'altrui esistenza.

E tutti questi scrittori - Proust, Joyce, Musil eccetera - son venuti fuori dal mantello di Dostojevskij, il Dostojevskij delle Memorie del sottosuolo; così come tutti gli scrittori russi del secondo Ottocento, per usare l'espressione di un insigne critico letterario, son venuti fuori da Il cappotto di Gogol' (uno dei Racconti di Pietroburgo). Ma  Dostojevskij era un genio capace di abbracciare la totalità della problematica umana e, in particolare, della lacerazione tra il bene e il male; e la tematica del "sottosuolo" (ossia delle pulsioni inconsce e della disgregazione dell'io) era solo uno degli aspetti della sua riflessione antropologica e morale. Gli scrittori europei della crisi, al contrario, si sono concentrati quasi esclusivamente su tale aspetto e ne hanno fatto poco meno che un dogma o un articolo di fede: proprio come avvenne per la psicanalisi freudiana che furoreggiava in quegli ani e alla quale quasi tutti loro, direttamente o indirettamente, si sono ispirati. Nessuno di essi ha saputo vedere, nella persona umana, altro che una dicotomia inconciliabile tra "arte" e "vita"; nessuno ha saputo andare oltre la prospettiva decadentistica sfociante nel più nero nichilismo; nessuno ha riconosciuto alla vita umana la dignità di un senso, di un progetto, di uno scopo o di un fine.

Eppure, l'umile contrabbandiere polacco ci è riuscito: ha compiuto il prodigio; ha saputo spingersi oltre.

Ecco, la frontiera russo-polacca tra il 1926 e il 1930 diviene, nel suo romanzo, la cifra di un'altra frontiera: quella dello spirito, quella della vita. Una frontiera elusiva e misteriosa, eppure - anzi, proprio per questo - accesso privilegiato a una dimensione superiore, ove le antinomie dell'esistenza trovano ricomposizione e le brucianti lacerazioni si placano e si rasserenano. Come è stata possibile una cosa simile?

Perché Vladek - personaggio infinitamente più vitale di tutti gli Aschenbach, di tutti i Cosini, di tutti gli inetti e di tutti gli "uomini senza qualità" dei grandi scrittori della crisi - riesce per via d'istinto, senza sforzo intellettuale, ad equilibrare i due corni del dilemma: la vita vissuta e la vita contemplata. Egli vive la vita immergendovisi: uomo tra gli uomini (direbbe Saba), fratello nella gioia e fratello nel dolore, innamorato delle donne e innamorato dell'avventura; ma anche, al tempo stesso, la osserva con stupore, con freschezza, con ammirazione incantata ed estatica. Questo dualismo della sua natura non lo paralizza, non lo rende nevrotico, impotente, infelice: anzi, è la sua ricchezza. Egli scopre la vita mentre la vive, scorge la bellezza mentre la ammira; in lui, "salute" e "malattia" non sono due forze contrastanti, ma i due poli di un "io" unitario e coeso. E questo miracolo si realizza perché Vladek - a differenza dei pesonaggi di Proust, Joyce, Musil e tutti gli altri - sa alzare gli occhi al cielo e smarrirsi nella gioia dello splendore siderale.

L'«amante dell'Orsa Maggiore», dunque, si apre alla trascendenza: ed è, a suo modo, un homo religiosus. Questa è la sua salvezza, che lo sorregge nei momenti di sconforto e nei turbamenti della vita e gli dà la forza, sempre rinnovata, di rimettersi in cammino. Simile al "viandante" o al "partigiano" dei boschi di cui parla Ernst Jünger (il Waldgänger), ma con una marcia  in più: non è il titano che sfida, romanticamente, il mondo, e neppure l'anarca che si dà alla macchia per resistere alla pressione di una società disumana. È, molto più semplicemente (e molto più saggiamente), un uomo che sa alzare gli occhi al Cielo; che sa riconoscere la propria piccolezza e finitezza; che sa commuoversi, fino alle lacrime, al meraviglioso spettacolo della vita.

Vladek, pertanto, è l'eroe positivo di un'epoca di dubbi, incertezze e paure, quale quella che stiamo penosamente attraversando; le grandi foreste di Volinia e di Polessia, popolate di orsi e di branchi di lupi, sono le foreste dei nostri smarrimenti, delle nostre viltà e delle nostre rinunce; le ombre della notte in cui si muove, talvolta incespicando ma, poi, riuscendo sempre a rialzarsi, sono le ombre minacciose e sgomente della modernità.

Mediante il grato, estasiato riconoscimento dell'Orsa maggiore, Vladek sa di non potersi perdere mai del tutto e accetta la difficile sfida dell'esistenza; non come un eroe superomistico e più o meno dannunziano (ultimo, goffo rampollo del titanismo byroniano), ma come un uomo fragile e insieme  coraggioso, che cerca nella forza cosmica che pervade il mondo un aiuto, un sostegno e un costante punto di riferimento.

Vladek è un moderno "pastore errante dell'Asia" che però, a differenza del suo omologo leopardiano, nel colloquio silenzioso con gli astri brillanti nel vasto cielo notturno, non trova ragioni di desolante pessimismo ma, al contrario, emozioni ed energie che rafforzano in lui la fede nella vita, nell'amore, nel domani.