La tradizione occitana scala l’Hit parade? Sì, è possibile quando si riesce a coniugare la memoria del passato con la voglia di futuro senza cadere nella trappola del nostalgismo fine a se stesso. C’era già riuscito, sin dalla seconda metà degli anni Settanta, Alain Stivell – con un clamoroso successo internazionale – contaminando le atmosfere celtiche con l’attualità e rilanciando l’identità bretone a colpi d’arpa. Altrettanto ha fatto Sergio Berardo, classe ’58, con i suoi Lou Dalfin, il gruppo musicale che ha restituito l’Occitania all’immaginario collettivo. La band nata nel ’82 – il cui nome richiama l’animale simbolo dell’antico Delfinato – è sempre più punto di riferimento per l’intera area di lingua d’oc: dalle Alpi del Torinese, del Cuneese e del Monregalese sino al Midi francese e alla Val d’Aran, enclave occitana in Catalogna. Qualcosa che va al di là dei risultati strettamente commerciali – una decina di dischi e oltre mille concerti negli ultimi vent’anni – per farsi fenomeno di costume, capace di contagiare anche chi non si era mai appassionato alla musica tradizionale. Come? Affiancando la chitarra elettrica alla ghironda e la batteria alla viola. Coinvolgendo i giovani delle vallate proprio quando – nei primi anni Novanta – il declino della musica popolare sembrava irreversibile. Una svolta imprevedibile che ha fatto sì che sul territorio nascessero e si sviluppassero, per emulazione, numerose formazione musicali intente a riscoprire lingua e cultura locali per “esportarle” ben oltre i confini abituali. Un’analoga funzione di stimolo l’ha svolta Luis de Jyaryot, il più famoso cantautore valdostano, un vero e proprio mito vivente. Testi rigorosamente in patois, prima lingua delle vallate laterali. Ballate con influssi mediterranei, francesi e celtici, sapientemente mescolati con suggestioni jazz.
«Una sorta di rivoluzione copernicana nell’immagine della musica occitana, che ormai era vista come qualcosa di senescente». Così la descrive Augusto Grandi (nella foto piccola a destra) nel suo ultimo libro, da pochi giorni in libreria, Lassù i primi, la montagna che vince (Daniela Piazza Editore, pp. 182, € 14,00). Grandi, da oltre venti anni giornalista del Sole 24 Ore, non a caso ha lavorato a lungo in Valle d’Aosta e, tra l’altro, ha seguito come fotografo diversi cantanti valdostani, tra cui lo stesso Luis de Jyaryot e Maura Susanna. Esperienze che tracciano il filo conduttore delle sue pubblicazioni: l’amore per la montagna e, soprattutto, la convinzione nelle potenzialità ancora inespresse di quelle che lui chiama “Terre Alte”. Un mondo che a parere di alcuni è destinato alla scomparsa per consunzione. Di tutt’altro avviso Grandi, che crede nelle «prospettive di rilancio economico, culturale e politico» della zona. Turismo, certamente, ma non solo. Formazione e nuova imprenditoria. Necessità di realizzare nuove infrastrutture senza trascurare la difesa dell’ambiente e di conciliare valori antichi, stili di vita “naturali” e opportunità di lavoro, disponibilità al sacrificio e voglia di divertirsi, sogno e realtà.
Perché se «il mito della lingua d’oc, il sogno di un’Europa che non è stata, di un’Europa mancata sicuramente più affascinante di quella dei burocrati con cui ci si deve confrontare nella realtà, un’Europa dei trovatori, dell’amore cortese, delle autonomie contro gli stati nazionali, della festa contro lo sfruttamento, della libertà contro ogni imposizione» resiste nell’immaginario delle vallate alpine, c’è bisogno anche di salutari immersioni nella realtà. Una battaglia comune che deve vedere tutti impegnati, dagli imprenditori ai musicisti, nella consapevolezza che solo con la “coralità” degli sforzi potranno prodursi risultati concreti. Nessuna tentazione autonomista, anche se in molti sono passati per l’impegno politico. Lo stesso Jyaryot (primo a sinistra nella foto) ricorda un grande fermento politico già dal ’75: «Era l’epoca del movimento arpitanista, dei duri e puri. E la mia musica serviva anche a diffondere le idee».
Sergio Berardo, «occitano di Caraglio, quindi di confine» e libertario irriducibile, ha un passato da militante del partito nazionalista occitano mentre ora il suo impegno è quello di rivitalizzare la musica tradizionale: «Era l’emblema del “mondo dei vinti” – spiega – e noi abbiamo contribuito a trasformarla in qualcosa di vivo. Abbiamo puntato sui ragazzi per immettere forza creativa, ironia, energia. I giovani sono estranei al mondo della musica tradizionale, ma nel cuore hanno ancora certi suoni sebbene non ne siano coscienti. Noi li raggiungiamo presentando questa musica in modo nuovo e dissacrante». E infatti le sue canzoni sono coinvolgenti: allegre o, al più, arrabbiate. Mai rassegnate. Innovative, tanto da poter affermare che abbiano dato vita a un genere nuovo e originale, quello della “danza canzone”. Dopo Gaber e il suo teatro canzone, è la volta dei Lou Dalfin: “Chanta ta danca, bala ta chancon”. Canta la tua danza, balla la tua canzone.
«I Lou Delfin – scrive Grandi – rappresentano anche una finestra culturale che mette in comunicazione la montagna con la pianura, Torino con Marsiglia. Hanno un pubblico eterogeneo, dai centri sociali ai giovani leghisti e di destra (un gruppo musicale come
I Lou Dalfin, inoltre, hanno affiancato alla musica un centro di attività didattica, realizzato l’atlante sonoro degli strumenti occitani e un progetto per la ricostruzione di una cornamusa sulla base di un affresco in una Chiesa in Val Maira sta per concludersi: la dimostrazione che la musica può divenire una professione anche in montagna. E che può essere il motore per una serie di iniziative culturali nelle valli e per le valli. Dal museo per le arti popolari al marketing del territorio. Gli ex allievi di Berardo si sono trasformati a loro volta in insegnanti che vanno in giro a far conoscere lingua, tradizioni e territorio dell’Occitania. Un mondo vivo, che può permettersi di impiantare una sala di registrazione a
Intendiamoci, non mancano le eccellenze e imprenditori “illuminati” capaci di realizzare il grande business senza dimenticare il territorio – e nel libro Grandi si sofferma a descrivere diverse esperienze positive – ma troppe restano le resistenze culturali. A cominciare dalla cattiva abitudine di nascondere la provenienza dei prodotti di qualità, «come se ci si vergognasse di essere bravi». Mentre in Birmania si produce e vende l’acqua “Alpi” con scritta in latino e disegnino che ricorda le nostre montagne a evocare nell’immaginario collettivo le Alpi come simbolo di purezza e freschezza – si lamenta Grandi – da noi un’azienda di abbigliamento aveva ottenuto un successo internazionale non con un marchio valdostano ma con un marchio in lingua finlandese e bandiera norvegese: Napapijri. Così come torinese e non scandinavo è il marchio degli italianissimi capi in pile della Polar Cruise.
Notizie sull'autore del libro recensito: Augusto Grandi è laureato in Lettere con indirizzo storico contemporaneo e da 20 anni è corrispondente del Sole 24 Ore per Piemonte e Valle d’Aosta. Ha pubblicato i seguenti libri: Un Galeone tra i monti (Musumeci), Sistema Torino (Musso editore), Sistema Piemonte (Integraphica), Baci e Bastonate (Angolo Manzoni). Lassù i primi (Daniela Piazza Editore) è la sua ultima prova.