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Le zone industriali di esportazione (EPZ): le nuove forme di schiavismo

di Manuel Zanarini - 06/05/2008

Map of the Philippines - Luzon, Visayas, Mindanao

 

 

 “Non date ascolto ai sovversivi e a chi tenta di creare problemi”

(cartello posto sopra all’ incrocio principale della EPZ di Cavite, Filippine)

 

 

 

Si fa un gran parlare di delocalizzazione della produzione, ma difficilmente ci si prende la briga di spiegare bene di cosa si tratta. Per la verità, qualche spiegazione viene fornita, ovviamente solo quella che fa comodo alle industrie.

Si dice che per sopravvivere alle fabbriche dei paesi emergenti, come Cina e India, le industrie “occidentali” sono costrette a spostare la produzione in paesi poveri o in via di sviluppo, al fine di contenere i costi ed avere un accesso privilegiato sui nuovi mercati.

Per chi invece volesse capire bene l’entità del problema, suggerisco la lettura del libro “No logo” di Naomi Klein.

La giornalista fornisce i dati di una sua ricerca su quelle che vengono chiamate “zone industriali di esportazione”, “export processing zones” (EPZ) in inglese. Si tratta di zone franche poste in paesi in via di sviluppo, prevalentemente asiatici, dove sorgono giganteschi agglomerati di fabbriche che lavorano come appaltatrici o sub-appaltatrici delle multinazionali.

La loro ideazione, si deve ad una risoluzione ONU del 1964, da parte del Consiglio Economico e Sociale, in cui grazie alle EPZ, si intendeva promuovere lo scambio commerciale tra paesi ricchi e quelli in via di sviluppo. In realtà, il loro inizio concreto risale agli anni ’80, quando il Governo indiano approvò delle norme che prevedevano agevolazioni fiscali per la durata di 5 anni alle multinazionali che aprivano fabbriche sul loro territorio, ovviamente godendo già di salari bassissimi.

Attualmente, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel mondo, vi sono 850 EPZ in cui lavorano circa 27 milioni di persone. Il record lo detiene la Cina con 124 zone e circa 18 milioni di “operai”, mentre le Filippine ne contano 52 per 459.000 lavoratori.

In particolare l’inchiesta si concentra sulla EPZ di Cavite, situata alla periferia della città filippina di Rosario, 90 miglia a sud di Manila. Si tratta di una zona recintata di 682 acri, comprendente 207 fabbriche che occupano circa 50.000 lavoratori, e vengono svolti lavori per grandi multinazionali: Nike, Gap, Old Navy,ecc.

Che l’obiettivo di produrre ricchezza nei paesi dove vengono stabilite le EPZ sia solo una copertura, lo si capisce subito dal fatto che nonostante la grande quantità di merce assemblata nelle fabbriche, la città di Rosario non riesce a fornire alla sua cittadinanza nemmeno i servizi sociali minimi (fogne, elettricità, scuole moderne,ecc.). Questo è dovuto ad alcuni fattori determinanti: le “agevolazioni” fiscali, la competenza dei controlli da parte delle autorità e la gestione della forza lavoro.

Ormai, le varie nazioni asiatiche si fanno la gara per strappare contratti alle grandi multinazionali, ovviamente in cambio di tangenti, quindi c’è una corsa a ribasso su affitti (a Cavite pagano 11 pesos per piede quadrato, meno di 1 centesimo di dollaro), salari, regole lavorative e pressione fiscale.

Il Governo filippino ha approvato delle norme che consentono alle fabbriche delle EPZ di non dover pagare tasse né sul reddito né sulla proprietà per 5 anni, nello Sri Lanka sono previsti addirittura per 10 anni.

 Quindi succede che arrivano enormi quantità di materiale dalle multinazionali straniere e non pagano tasse d’ingresso, vengono lavorate senza pagare oneri per i relativi guadagni, infine rispedite senza spese per l’uscita, senza contare che nemmeno per la proprietà dei capannoni vengono versati denari. Il risultato è che nonostante gli enormi guadagni per le multinazionali e le loro collaboratrici, niente viene versato nelle casse dell’erario dei comuni che le ospitano, col risultato che le città non traggono alcun profitto. Nemmeno il termine dei 5 anni serve, in quanto le ditte chiudono e riaprono con un altro nome ricominciando a godere delle agevolazioni fiscali.

Per evitare che le autorità locali possano indagare su ciò che succede all’interno, la EPZ sono poste sotto giurisdizione esclusiva del Dipartimento Federale del Commercio e dell’Industria delle Filippine.

Anche la gestione interna delle aziende è fuori da ogni senso dell’umanità. Intanto le assunzioni avvengono tramite “uffici del lavoro” posti all’interno della EPZ, le quali regolarmente raccolgono gli stipendi e prima di versarli ai lavoratori intascano una tangente.

 Le multinazionali hanno il coltello dalla parte del manico, proprio in virtù della corsa a ribasso di cui parlavamo, così impongono contratti strettissimi alle ditte appaltatrici, le quali a loro volta si rifanno sulla manodopera.

Chi lavora all’interno delle fabbriche sono quasi sempre ragazze che arrivano dalle campagne, a volte per il miraggio di un tenore di vita migliore a volte come in Cina perché il governo centrale “espropria” le loro terre per costruire dighe utili alle industrie.

I salari sono bassissimi, molto spesso al di sotto della soglia di sussistenza, col risultato che devono vivere in baraccopoli sorte appositamente nelle periferie della città, oppure in bunker costruiti all’interno delle EPZ, andando a deteriorare ulteriormente il tessuto sociale cittadino.

Teoricamente, le ditte sarebbero tenute ad attenersi alle leggi statali, ma di fatto è previsto che se ritengono i salari minimi troppo alti, possono chiedere l’autorizzazione ad abbassarli, cosa che accade con regolarità.

Gli orari di lavoro sono massacranti. Nelle Filippine la norma è di 12 ore al giorno (12 in Indonesia, 14 nello Sri Lanka e 16 in Cina) per 6-7 giorni alla settimana, ma in caso di ordini grossi o di scadenze imminenti si lavora ad oltranza, anche perché le multinazionali inseriscono penali altissime in caso di ritardi nelle consegne. La Philips, una ditta che esegui lavori in appalto per la Nike e la Reebok, prevede il licenziamento in caso gli operai si rifiutino di svolgere straordinari qualora venga loro richiesto. Addirittura in Cina vi sono stati casi di turni ininterrotti per 3 giorni consecutivi, ed in Honduras sono state somministrate anfetamine agli operai affinché lavorassero 48 ore consecutivamente.

Anche i minimi diritti sindacali sono negati nelle EPZ. L’organizzazione di sindacati è vietata o fortemente scoraggiata, attraverso minacce od uccisioni; spesso non vengono versati i contributi previdenziali; vengono fatte trattenute arbitrarie sui salari giustificandole con presunti regali; viene vietato di andare in bagno, tanto che a volte gli operai sono costretti ad urinare in sacchetti posti sotto i macchinari; vengono attuate politiche fortemente discriminatorie nei confronti di donne che potrebbero rimanere incinta: controllo degli assorbenti, obbligo ad assumere pillole contraccettive,

contratti della durata di 28 giorni in modo da poterle licenziare in caso di ritardi del ciclo,ecc.

Il fatto è che anche fabbriche che avevano “normali” impianti all’esterno, ora li hanno chiusi e riaperti a Cavite per poter approfittare di questo “regime speciale”, come la Marks & Spencer che vi ha trasferito la sua fabbrica che si trovava a nord di Manila.

 

In conclusione, si può affermare che la “delocalizzazione” è in realtà la forma di schiavismo del nuovo millennio, e se da un lato porta a crisi economica ed insicurezza nei paesi occidentali, dall’altro non serve certo a migliorare le condizioni di vita nei paesi poveri o in via di sviluppo, finendo con l’arricchire solo le multinazionali sfruttatrici.

 

Manuel Zanarini