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Nella vicenda di Michele Federico Sciacca l'itinerario di un filosofo a Dio

di Francesco Lamendola - 21/05/2008

Nato a Giarre, in provincia di Catania, nel 1908, morto a Genova nel 1975, Michele Federico Sciacca è stato uno degli esponenti di punta della corrente - se così vogliamo chiamarla, del resto impropriamente - dello spiritualismo cristiano contemporaneo.

Allievo di Antonio Aliotta (1881-1964) all'Università di Napoli, ove il filosofo  siciliano insegnò fra il 1919 e il 1951, Sciacca subì anche profondamente l'influsso dell'attualismo gentiliano, elaborando una concezione filosofica basata su un umanesimo assoluto. Da essa, poi, si orientò ulteriormente in senso religioso, maturando una vera e propria conversione e dedicandosi, da allora, ad approfondire lo spiritualismo cristiano, mediante l'elaborazione di una vera e propria "ontologia dell'uomo" , ciò che fece nel segno dei due grandi e durevoli interessi della sua vita speculativa: l'interesse per la realtà trascendente, per il divino, e quello per l'uomo in quanto soggetto di libertà e portatore di valori.

Professore di storia della filosofia, dal 1938, presso l'Università di Pavia; fondatore, nel 1946, e poi direttore del Giornale di metafisica; insegnante di filosofia teoretica, dal 1947, presso l'Università di Genova, svolse un magistero intenso e appassionato, contribuendo molto alla rinascita dell'interesse filosofico verso l'ambito della religione, in controtendenza rispetto alle correnti predominanti nelle università italiane (e in sinergia, anche se indiretta, con un altro importante filosofo cristiano di lui poco più anziano: il trevigiano Luigi Sefanini, del quale cui siamo occupati in un precedente lavoro,

(cfr. F. Lamendola, L'arte come "parola assoluta" della persona finita nel pensiero di Luigi Stefanini, pubblicato negli Atti del Convegno su L. Stefanini del novembre 2006, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).

Il corpus dei suoi scritti è imponente, comprendendo - provvisoriamente - più di una trentina di volumi. Fra le sue opere più importanti, sia di carattere storico che di carattere teoretico, possiamo ricordare almeno: Linee di uno spiritualismo critico (1936); Teoria e pratica della volontà (1938); L'interiorità oggettiva (edizione originale in lingua francese, 1951); L'uomo, questo squilibrato (1956); Morte e immortalità (1959); Filosofia e metafisica (sempre nel 1959); la libertà e il tempo (1965).

 

Il "caso" di Michele Federico Sciacca è, a nostro parere, altamente significativo per svolgere qualche riflessione sulla presunta antinomia di fede e ragione, antinomia (e, pertanto,  inconciliabilità) sulla quale si basa praticamente l'intero edificio della cultura moderna, e non solo italiana. Da sempre, infatti, ci è stato detto e inculcato che le due cose, fede e ragione, non possono coesistere; e che, di conseguenza, un filosofo che si rispetti non può in nessun caso essere anche un credente, perché ciò significherebbe una resa della sua facoltà razionale a una dimensione di carattere non razionale.

Che ciò corrisponda a una grossolana semplificazione dei veri termini della questione, emerge chiarissimamente dalle parole stesse del filosofo siciliano, il quale non visse affatto la propria conversione come una resa della ragione e come una rinuncia alla propria sfera di libera volizione, ma, al contrario, come la conferma di un esigente percorso razionale e come il riconoscimento di una sfera di realtà superiore alla ragione, ma non certo opposta ad essa.

Dopotutto, come insegna il buon vecchio Kierkegaard (cfr. il nostro recente saggio Kierkegaard, maestro del ritorno in noi stessi, è la guida per uscire dalla palude, sempre sul sito di Arianna Editrice), dobbiamo abituarci a convivere con l'idea che non possiamo avere la pretesa di comprendere ogni cosa, di trovare una risposta ad ogni domanda, almeno nella nostra presente condizione; e che dobbiamo, pertanto, avere il coraggio di fare un salto nella fede, spogliandoci della nostra saccente presunzione razionalistica.

 

Il filosofo siciliano si era già pubblicamente confessato una prima volta, nel 1944, con la pubblicazione del libro Il mio itinerario a Cristo (Torino, Società Editrice Internazionale), su sollecitazione di don Cojazzi. Quello che qui presentiamo - saltando alcune parti, a nostro avviso non indispensabili alla comprensione del tutto - è un testo molto più breve, contenuto in un volume a più voci, curato da don Giovanni Rossi, dedicato alla conversione e alla fede di alcune eminenti personalità del mondo della scienza, dell'arte e della cultura.

Scrive, dunque, Michele Federico Sciacca in Uomini incontro a Cristo, a cura di don Giovanni Rossi (Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi, 1956, pp. 37-44):

 

Evidentemente la mia testimonianza è di un filosofo. È stata, la mia, conversione di un filosofo (che è uomo, malgrado l'opinione in contrario di molta gente benevola). Ed è la conversione continua del mio pensiero. Dunque mi limiterò in queste righe ad illustrare quali furono gli ostacoli principali che dovetti sormontare per cedere al dono della fede cristiano-cattolica e che sono gli ostacoli che quasi ogni filosofo incontra nel suo cammino intellettuale, specie quelli, come me, che hanno avuto una formazione laica e che provengono dallo studio del pensiero moderno. Praticamente significa tutti, e, da questo punto di vista, il mio breve discorso potrà essere di aiuto a qualche "vagante" di buona volontà desideroso di diventare "viator": da insipiens, sapiens che significa semplicemente "sapere quello che si dice", e questo lo sa solo chi crede in Dio, perché l'ateo, secondo l'antica Sapienza biblica, è "colui che non sa quello che dice".

Non c'è fede senza ragione: alla fede è essenziale il fondamento razionale. Ma è anche vero che la fede può essere un pericolo mortale per la ragione, soprattutto per il filosofo. In ogni momento, egli è sempre sul punti di commettere il "peccato della ragione", cioè di rifiutare quanto trascende i limiti della conoscenza naturale e razionale. È il peccato di superbia, il peccatum originalis, quello che è fonte di ogni altro. È negare Dio, il Soprannaturale, la Rivelazione: il Cristianesimo come tale. Questa tentazione sta in agguato sotto i paludamenti accademici di ogni filosofo (e si può dire che sonnecchi nella testa di ogni uomo). Essa viene mascherata da uno specioso preconcetto: ammettere Dio e una verità superrazionale è negare l'autonomia della ragione umana e la libertà della volontà. Anch'io prima della conversione la pensavo così come quanti si dicono spregiudicati, "spiriti forti", "liberi pensatori".

Forti in che cosa? Liberi da che? Queste domande m'invitarono a farmele, oltre il vangelo, anche Agostino, Pascal, e Rosmini. Una volte poste, non potevo esimermi dal dare una risposta. "Forti" non sono quegli spiriti, perché non è forte, per usare una espressione efficace di Pascal, "chi fa il bravo con Dio": non c'è uomo più debole di chi ripone tutta la sua forza nelle sue sole forze. Si ritira in e su se stesso, non per coraggio, ma per paura: l'ateo non crede in Dio, non perché sia convinto che Dio non esiste, ma perché teme di convincersi del contrario. "Liberi" non sono quei pensatori perché non è libero chi si fa schiavo di una libertà che è arbitrio e orgoglio, cioè di ciò che è la negazione della libertà stessa e di ogni libertà. E allora capii una cosa, questa: è atto razionale quello con cui la ragione riconosce (e come "riconoscimento" è atto morale) che vi è un sapere che la oltrepassa, di ordine diverso ma non contraddicente la ragione stessa. Sembra nulla, ma prima di rendersi conto di ciò bisogna domare il peccato della ragione e liberarsi dal preconcetto che ammettere Dio è pressocché negare l'uomo. È perfettamente il contrario: negare Dio è negare l'uomo, proprio quell'autonomia e quella libertà che stanno a cuore al razionalismo assoluto. Nella solitudine di se stessa la ragione finisce per perdere anche quella verità di cui è naturalmente capace. Dire che essa si autofonda, cioè che è il principio di e stessa, è come dire che il contingente è necessario. Infatti, l'autonomia della ragione atea è l'assolutizzazione che la ragione fa di se stessa. Ma una ragione che si assolutizza… non ragiona, "sragiona", esce fuori dal suo ordine, si fa disforme, "anormale". Dunque non è "irrazionale" l'affermazione che vi è una verità "superrazionale", ma è irrazionale negare questa verità ed è razionale ammetterla. Solo chi è ammalato di superbia psicologica può sostenere il contrario, cioè la ragione è assoluta; io sono un essere razionale; dunque il mio pensiero è assoluto. Sotto sotto, chi divinizza la ragione, divinizza se stesso e se ne compiace. E questo chiama difesa dell'autonomia della ragione e della libertà umana! Invece, la ragione è autonoma quando ubbidisce al suo ordine naturale, il quale le dice che proprio le verità che le son proprie, cioè quelle suo ordine esigono (dimostrano) che Dio esiste e non escludono (perché non la contraddicono) la Rivelazione, anzi la trovano perfettamente conveniente ala ragione stessa e richiesta (pur restando dono gratuito) dalla profonda dialettica della vita spirituale. La fede - e solo la fede - è liberatrice della libertà, perché richiede che la volontà voglia secondo la legge con la quale Dio illumina le menti delle creature. Quella che è considerata (oggi molto meno di venti anni fa) la conquista definitiva del pensiero moderno, «Dio è morto», secondo un'idiota espressione di Nietzsche mi si presentò, e mi si presenta ancora oggi, come la sua disfatta, perché significa la morte dell'uomo. E infatti chi la scrisse cancellò l'uomo e immaginò la dottrina del Superuomo.

Superato questo preconcetto fondamentale, ne restavano altri, e restano per i vagantes non più o non ancora clerici. Questo, per esempio, che è legato a quello di sopra: la filosofia cattolica non può non essere dommatica; dunque la filosofia cattolica, come tale, non è filosofia. Questo sillogismo invade e devasta la testa e il cuore di tanti che fan professione di filosofi e invase un tempo anche la mia. L'ho sentito recentemente formular da un Collega professore di filosofia in una Università dell'Italia del Nord e con pieno convincimento. Ma che cosa c'è di più dommatico di quel sillogismo? La critica assolutizzata diventa il peggiore dommatismo, in quanto crea il dommatismo della critica, che distrugge la critica come tale. Quel ragionamento, in verità, è da don Ferrante, e sinceramente tempo molto che l'egregio uomo abbia a morire imprecando alle stelle come un eroe di Metastasio. Una critica che muore in finale da melodramma rovina proprio la reputazione di un filosofo "critico". Ma rassegnamoci ad affidarlo alle mani di Dio, giacché la Provvidenza, per metterci a più dura prova, ci ha privati della Santa Romana Inquisizione, e proseguiamo il nostro breve discorso.

Che significa "filosofia critica" e che "pensiero dommatico"? critica significa, per Kant, "giudizio" e giudicare vuol dire definire e anche segnare i limiti. Porre dunque criticamente il problema "filosofia" e i problemi della filosofia significa definire l'oggetto proprio e indicare i limiti della validità  conoscitiva della ricerca razionale, cioè non accettare a priori o dommaticamente un sapere che non sia stato controllato dalla ragione, né la ragione stessa come potere onnipotente e infallibile. Ma se è così, quale filosofo cattolico non è stato "critico"?  E se non è arrivato alle stesse conclusioni di Kant è perché è stato davvero critico e non dommatico come Kant e altri filosofi cosiddetti critici. Infatti, se critica vuol significare che la ragione  esclude a priori una verità rivelata (e dunque dommatica), perché la verità è solo umana e razionale, allora non si è più critici, ma si contro l'essenza stessa della critica., la quale ammonisce che nulla debba essere ammesso o escluso a priori o dommaticamente. Questo è un "pregiudizio" e non un "giudizio", ma la critica è "giudizio", dunque quel "pregiudizio" è la negazione della critica stessa. Sì, il pensiero cattolico parla di verità dommatica, ma: 1) non se ne serve per fondare su di essa la dimostrazione di verità razionali o filosofiche; 2) la riconosce perché non contraddice alla ragione. Dunque l'ammette perché (oltre a crederla per fede) la ragione "giudica" (e perciò è "critica") che le è conveniente e non le ripugna. Il cosiddetto filosofo critico, invece, non giudica, "pregiudica" (e perciò è "acritico") col negarla in partenza, cioè muove da un presupposto dommatico che nessuna critica della ragione ha autorizzato. Il pensiero moderno anticristiano (empirismo e razionalismo, criticismo, idealismo trascendentale loro derivati) non è tale per legittimo uso della critica ma per suo uso spurio, non per critica ma per difetto di critica, perché ha perduto il senso della profondità dell'uomo, dell'interiorità autentica (che è, agostinianamente, presenza di verità oggettiva); perché di fronte alle profondità metafisiche dell'ente umano è superficiale, anche s,e per altri motivi, alcuni suoi rappresentanti siano grandi filosofi.

Questo è un punto psicologicamente importante, un nodo artificioso da sciogliere. Non c'è opposizione tra pensiero critico e Verità rivelata o dommatica, né il credere nella Rivelazione impedisce l'uso del pensiero più critico, in quanto la critica, la più intransigente e sviluppata, non può non arrivare all'esistenza di Dio e all'apertura della ragione naturale e alla Rivelazione. Forse S. Agostino e i Padri, S. Tommaso e i Dottori non sono filosofi? E neppure filosofi Campanella e Pascal agli inizi el pensiero moderno? Vico e Rosmini dentro la problematica più matura di esso e il Blondel nel cuore stesso del pensiero contemporaneo? Tanti son filosofi, pur essendo cattolici (vorrei dire, proprio perché cattolici), che la critica laicale ha fatto ogni sforzo per dimostrare che in fondo non sono cattolici e che, per quanto vi è in loro di cattolicesimo, non sono filosofi! Ma sradicarli dal cattolicesimo è cavar loro la mente e il cuore, negare l'«anima di verità» della loro filosofia.

Quanto stiamo dicendo fa cadere un altro pregiudizio: essere cattolici, se filosofi, significa rinnegare il pensiero moderno. Proprio l'opposto: vuol dire penetrarne profondamente le esigenze, assumerlo "criticamente" e risolvere i problemi che esso pone (e che è incapace di spingere fino in fondo) dentro le verità fondamentali della metafisica nella duplice (ma non contrastante) corrente platonico-agostiniana e artistotelico-tomistica.

Per questo motivo io assegno a Rosmini una immensa importanza nello sviluppo del pensiero filosofico umano: egli prese di petto il pensiero moderno e soprattutto la "critica" kantiana e dalle sue esigenze fece scaturire l'oggettività e il realismo della verità. Per questo io debbo al Rosmini la  liberazione da Kant e dall'idealismo trascendentale , pur continuando a pensare da moderno, anzi da modernissimo. Il problema è qui: la verità è "sviluppo" o è "scoperta"? è "posta" o "creata" dall'uomo o è presente interiormente all'uomo? Son noti i paralogismi dell'idealismo immanentista: «il pensiero umano è esigenza di assoluto, dunque è assoluto; il pensiero è percettivo della verità, dunque è costitutivo di essa». No: 1) proprio perché il pensiero è esigenza di assoluto non è assoluto, ma contiene tanta forza naturale da dimostrare l'esistenza dell'Assoluto stesso, che lo trascende e lo fonda; 2) proprio perché il pensiero è "percettivo" della verità non è "costitutivo" di essa: è la verità che lo fa pensiero e non viceversa. Dunque la verità è data al pensiero, affinché sia pensiero. Ed è questa la critica, quella che scopre la dignità dell'uomo nel fatto che egli è partecipe di verità e che ne è partecipe per dono naturale di Dio e perché Dio ha voluto elevare su ogni altra la creatura spirituale. E così per altra via siamo tornati a confermare il punto di partenza di queste nostre pagine: la Rivelazione non nega l'autonomia della ragione e la libertà della volontà. Ma per arrivare a questa conclusione è necessario vincere la superbia, non commettere il peccato della ragione o della filosofia, della scientia che "gonfia". Questa è la vittoria della ragione, dell'uomo spirituale su quello passionale.

Qualcuno potrebbe osservare che io qui della mia conversione, come della conversione in generale e del Cristianesimo, stia facendo una questione tutta intellettuale. Ripeto che la mia testimonianza è di un filosofo per filosofi di buona volontà. E aggiungo: i preconcetti qui accennati sono incagli psicologici molto diffusi anche tra i non filosofi e agiscono inconsapevolmente nella gran maggioranza dei non credenti. Basti pensare, ad esempio, che per i marxisti (e il marxismo è una dottrina di massa) la religione è alienazione a Dio di ciò che spetta all'uomo. Se ben si considera, a questa affermazione sottostanno gli stessi preconcetti sopra discussi, anche se il marxismo abbia suoi scopi particolari. Dico ancora che solo apparentemente io abbia fatto della conversione e del Cristianesimo una questione umana, perché la filosofia è vita dello spirito e lo spirito è l'essenza dell'uomo. E poi, sotto questa veste intellettuale, c'è il problema centrale del significato radicale e ultimo della umanità dell'uomo. Qui si vuol dire che tale significato si coglie nel dinamismo interno dello spirito umano, il quale contiene elementi che lo portano a Dio. Solo se approda a questo porto, l'uomo si chiarifica a se stesso, e hanno un senso il dolore e la morte, i problemi più umani e più nostri, nella soluzione dei quali gravita tutta la nostra vita…

 

Una testimonianza, quella di Michele Federico Sciacca, lucida e onesta, che affronta senza giri di parole i nodi centrali della questione e sfata, con semplicità e chiarezza, il mito illuminista e scientista, secondo il quale la fede non si addice all'esercizio della ragione, e l'una delle due cose esclude fatalmente l'altra.

In fondo, quasi tutti gli esponenti della cultura moderna "laica" son rimasti fermi alla vecchia (e assai rozza) formula di Bakunin: Se esiste Dio, l'uomo è uno schiavo. Ma l'uomo è libero, dunque Dio non esiste. Anche se rivestono i loro preconcetti di ragionamenti indubbiamente più sofisticati, basta grattare un poco la vernice per vedere che sono rimasti ancora lì, al più vieto materialismo e al positivismo più tronfio e grossolano.

E si respira, la loro aria di sufficienza nei confronti dei pochi intellettuali di ispirazione religiosa (e non solo cristiana): la si respira quasi tangibilmente, come una nube che avvolge le università, i licei, le case editrici, la stampa, i salotti televisivi. Si respira il loro atteggiamento di ironica superiorità, di mal dissimulata prevenzione. Essi si sentono i portatori del "nuovo" e del "vero" (i due concetti, per loro, sono pressoché sinonimi), e guardano dall'alto in basso gli attardati rappresentanti di una specie in via di estinzione, quasi delle rarità antropologiche. Non solo: essi non li considerano dei colleghi alla pari, degli intellettuali da prendersi realmente sul serio, ma quasi delle curiosità folkloristiche.

Un pensatore cristiano, ad esempio, parlerà senza imbarazzo di "anima". Ma, per un filosofo laicista, una simile espressione è già qualche cosa di scorretto, se non proprio di eretico: non solo essa tenta di esprimere un concetto indimostrabile, ma tradisce, nell'uso stesso del vocabolario, o ignoranza o rifiuto della terminologia scientista, che adopera solo ed esclusivamente espressioni come "psiche", "mente", "coscienza", "io", "inconscio", e così via.

I filosofi di tendenza ateistica si credono "moderni", ma esprimono una mentalità vecchissima, addirittura arcaica (e  non nel senso positivo della parola). Nell'India antica, ad esempio, il maestro Kesakambalin (di cui si parla in un celebre passo del Samannaphalasutta del Dighanikaya, XIII, 14, si sforzava di dimostrare, invero con procedimento alquanto rozzo, la natura materiale di tutto ciò che esiste e, per conseguenza, l'inesistenza di un'anima spirituale e, addirittura, l'inesistenza di un mondo ultraterreno di premi o di castighi (cit. in Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza, 1977, vol. 1, p. 88):

 

Immagina, o Kassapa, che qui (alcuni) uomini, avendo afferrato  un ladro che ha commesso peccato me lo presentino: «Eccoti, o signore, un ladro che ha commesso peccato; a costui infliggi quella punizione che desideri». Così io direi: «Allora, o signori, dopo aver gettato quest'uomo vivo in un otre, dopo avere a questo chiuso la bocca, dopo averlo coperto con pelle fresca, dopo aver fatto (sopra a lui) una spessa cementatura con umida creta, dopo averlo collocato in un forno, ponete fuoco». E quelli, dopo aver acconsentito (dicendo) «va bene» (c. s.), pongano fuoco. Quando noi conosciamo che quest'uomo è morto, allora, dopo aver tirato giù quell'orcio, dopo averlo liberato dall'involucro e dopo avergli aperto la bocca, celermente guardiamo pensando: «Forse noi possiamo vedere la sua anima (jiva) mentre che esce». Ma noi non vediamo anima che esce. Questo appunto, o Kassapa, è la prova per la quale io penso: «Anche così non c'è un altro mondo, non ci sono esseri opapatika, non c'è frutto e maturazione delle azioni buone o cattive».

 

Può sembrare incredibile, ma il pregiudizio della filosofia materialistica si regge tuttora su basi non molto più solide di quelle elaborate da Kesakambalin: come se il fatto di non poter sperimentare mediante i sensi una realtà ultrasensibile, di per sé provasse  l'inesistenza di quest'ultima.

Eppure, sulla base di un tale pregiudizio, la cultura accademica oggi dominante continua a veicolare una visione distorta e volutamente ingannevole del fatto religioso, come se si trattasse di un sapere di seconda o terza scelta che, prima o poi, verrà spazzato via dai "lumi" della Ragione!