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L'agroalimentare tra poteri globali ed eccellenza locale

di Raffaele Ragni - 23/05/2008

 

L'agroalimentare tra poteri globali ed eccellenza locale



La recente polemica sulla mozzarella di bufala campana, sospettata di presentare livelli di diossina fuori dalla norma, può essere oggetto di varie interpretazioni, razionali o emotive: ingiustificato allarmismo prodotto dal risalto mediatico dato a controlli di ordinaria amministrazione, effetto collaterale dell’emergenza rifiuti, esempio ulteriore dell’incapacità delle istituzioni di tutelare la ricchezza dei territori, rigurgito di protezionismo nello scontro tra blocchi macroregionali, rappresaglia dei musi gialli alla vicenda dell’aviaria e dei giocattoli nocivi, attacco al sud da parte dell’industria casearia nordista d’intesa con gli euroburocrati.
Da qualunque angolazione guardiamo la vicenda, essa appare sintomatica di un conflitto tra due diverse visioni dell’economia. Da un lato le pressioni delle multinazionali, che considerano l’agricoltura un settore fornitore di materie prime alimentari - distinte in agricole, ittiche, sintetiche - e privilegiano le esigenze della trasformazione industriale uniformando i processi produttivi e i gusti dei consumatori a livello planetario. Dall’altro l’eccellenza di un prodotto, unico nel suo genere, che riesce a competere nell’economia globale valorizzando i sapori e le risorse locali. Visione, quest’ultima, che porta a considerare l’agroalimentare, non un coagulo di interessi corporativi più o meno forti, ma una roccaforte di valori nella battaglia contro l’oligarchia mondialista per la difesa delle identità locali.
In tale settore i processi di integrazione e la globalizzazione continuano a generare gravi squilibri distributivi. Benché la produzione complessiva sia sufficiente a nutrire l’intera umanità, oltre un quinto della popolazione mondiale soffre di malnutrizione cronica. Diverse innovazioni - attrezzature motorizzate, concimi chimici, antiparassitari, biotecnologie - hanno determinato un aumento di produttività in agricoltura e quindi una disponibilità crescente di derrate. Tuttavia, in molti Paesi del Terzo Mondo, si continua a soffrire la fame. Considerato che alcuni di essi figurano come grandi esportatori di materie prime agricole - sia di origine vegetale che animale - la spiegazione di questo paradosso risiede nella divisione internazionale del lavoro, sorta con l’imperialismo, che impone loro di esportare materie prime alimentari e importare generi alimentari.
Nel settore agroalimentare le multinazionali più integrate verticalmente gestiscono l’intero processo, dalla coltivazione della materia prima vegetale alla sua trasformazione in prodotto finito, compreso i trasporti e la distribuzione. Quelle che non possiedono le piantagioni, comprano da agricoltori o da esportatori locali, imponendo prezzi di acquisto poco remunerativi per i produttori. Alcune sono aziende di trasformazione, altre sono società commerciali che rivendono ad imprese agroalimentari di rilevanza nazionale. I conglomerati di appartenenza possono avere cointeressenze in settori collegati (es. prodotti agricoli, semi, fertilizzanti, antiparassitari) oppure in ambiti diversi (es. prodotti agricoli, detersivi, sigarette, valori mobiliari).
La specializzazione di immensi territori in monoculture per l’esportazione viene attuata con interventi diversi: riduzione del numero di terre a maggese, accorciamento dei tradizionali cicli del maggese, disboscamento ed aratura di terre prima destinate alla pastorizia. Tutto ciò contribuisce alla deforestazione ed alla desertificazione, che sono tra le cause dello sterminio per fame e dei cambiamenti climatici. Uomini e donne impoveriti migrano altrove. Quelli che restano a lavorare nelle piantagioni militarizzate delle multinazionali, sono ammassati in alloggi precari, ricevono paghe irrisorie, sono intossicati dai pesticidi.
La coltivazione di alcuni prodotti agricoli è quasi interamente controllata da multinazionali proprietarie delle piantagioni, come nel caso delle banane - dove dominano Chiquita, Dole, Del Monte - oppure del tè - dove primeggiano Cadbury-Schweppes, J.Finlay, Allied Lyons ed infine Unilever tramite le consociate Broobond e Lipton. In altri settori - come ad esempio il caffé - dove maggiore è il numero dei produttori locali, sul mercato mondiale intervengono grandi multinazionali in fase sia di trasformazione che di commercializzazione (es. Nestlè, Philip Morris, Sara Lee, Rothfos) o soltanto in fase di commercializzazione (es. Volkart, J.Aron, Acli International). Come esempi di compenetrazione tra industrie diverse, si consideri che la Unilever è un colosso del largo consumo in genere, la Philipp Morris è nata nel settore del tabacco, ma ha inglobato due colossi dell’alimentare, cioè la General Foods e la Jacobs Suchard. Infine la J.Aron commercializza caffé, ma appartiene alla finanziaria Goldman Sachs, mentre la Acli International fa parte della Cargill, che è integrata lungo tutta la catena alimentare. Riguardo all’iniqua ripartizione dei profitti, si consideri che, per le banane e il caffé, i profitti delle multinazionali sono stimati tra il 20% ed il 30% del prezzo di vendita al consumatore finale, mentre i salari si collocano tra il 3% ed il 4%.
Le popolazioni, espulse dalle multinazionali che impongono le monoculture, lasciano terre fertili e si rifugiano in zone aride e semiaride. Nutrono il bestiame con le sterpaglie e, per procurarsi legna da ardere, abbattono i pochi alberi che trovano. In modo più sistematico, le aziende trasformatrici di legname o produttrici di coke, distruggono le foreste tropicali. Così agenti diversi contribuiscono alla deforestazione ed alla desertificazione del pianeta, che procede ad un ritmo tale da ridurre ogni anno del 2% la superficie boschiva mondiale. Ne derivano: erosione dei terreni, mancata ossigenazione ed umidificazione dell’atmosfera, aumento della concentrazione di anidride carbonica negli strati bassi dell’atmosfera per il ridotto processo di fotosintesi clorofilliana, conseguente innalzamento della temperatura del pianeta. E’ il cosiddetto effetto serra.
Ma non solo. Laddove viene a mancare il manto forestale, l’acqua piovana evapora e dilava in blocco trascinando detriti, senza avere più la gradualità consentita dai vari strati di penombra e senza essere più risucchiata dalle radici. Ciò determina, non solo inondazioni, ma un aumento della salinità del terreno non più diluita da acque pure. La desertificazione avanza e le terre fertili diminuiscono. Si rende dunque necessario mettere a coltura terre semiaride che, per consentire gli stessi margini di profitto di quelle più fertili, richiedono un impiego massiccio di fertilizzanti chimici e manodopera a basso costo. Così il ciclo dello sfruttamento si perpetua.
A questa organizzazione dei rapporti di produzione, funzionale ai profitti delle multinazionali, si contrappone una visione diversa del settore agroalimentare, che privilegia le risorse del territorio. Ci riferiamo, in primo luogo, a prodotti genuini che completano localmente il loro ciclo di vita, non solo di produzione ma anche di consumo. E’ il caso delle aziende agricole bavaresi, riunite dal marchio di qualità denominato Unser Land, che significa Terra Nostra. Esso certifica che ogni prodotto è realizzato con materie prime locali, da imprenditori e lavoratori locali, nel pieno rispetto dell’ambiente e della tradizione locale. Ma soprattutto, può essere acquistato e consumato solo nella regione di produzione.
Infine consideriamo i generi alimentari tipici d’alcune zone, tutelati da marchi di qualità e provenienza - come la Denominazione d’Origine Protetta (DOP), controllata (DOC), controllata e garantita (DOCG) - e prodotti da aziende consorziate che, sviluppando sinergie di distretto e di filiera, riescono a vincere la concorrenza di prodotti succedanei offerti sul mercato dalle multinazionali. E’ il caso della mozzarella di bufala prodotta in Campania, basso Lazio ed alto Foggiano. Parliamo di un’industria che impiega 120.000 lavoratori - tra allevamenti e caseifici - ed è formata in prevalenza da aziende familiari, da 4 a 6 addetti, in massima parte consorziate.
Eccezionalmente s’incontrano unità produttive che impiegano da 40 ad 80 addetti.
In genere, le offensive contro i produttori di mozzarella campana DOP, traggono occasione da emergenze sanitarie, reali o presunte. Qualche anno fa, col pretesto della brucellosi, il ministro delle politiche agricole Paolo De Castro propose di sostituire le nostre bufale con bestiame romeno, geneticamente inferiore, in deroga alla legge 3/2003 che tutela il patrimonio zootecnico campano. Nel caso dell’emergenza diossina, pare che, in uno dei tanti tavoli allargati, qualcuno abbia proposto di autorizzare, nel disciplinare di produzione, anche l’utilizzo di latte in polvere, tipico prodotto globale offerto da grandi multinazionali (es. Nestlé, Plada, Humana, Milupa, Nutricia, Heinz, Milte). La strategia appare chiara: snaturare il marchio DOP, fino a far venir meno la tutela comunitaria, per industrializzare e globalizzare il comparto. Oggi è il caso della mozzarella.
Domani l’offensiva dei poteri globali potrebbe colpire altri prodotti agroalimentari ad elevato contenuto identitario.