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Dino Risi e il “risismo”

di Carlo Gambescia - 17/06/2008


Chi di noi non si è divertito vedendo film come Il sorpasso, Una vita difficile, I mostri, In nome del popolo italiano. Si usciva però dal cinema, con l’amaro in bocca. Perché?
Dino Risi, in fondo, non amava gli italiani in carne e ossa, con i loro pregi e difetti. In quei film, ma anche in altri suoi lavori, il regista ci dipingeva esclusivamente come imbroglioni, opportunisti, affamati di sesso e denaro. In una parola “mostri”. Non che non ce ne fossero, anche allora. Ma Risi non ammetteva sentenze di appello. E neppure vie d’uscita. Come se lui poi, vivesse su Marte e fosse immune da certi peccati.
Ma si sa all’intellettuale, soprattutto se radicaloide, si perdona tutto. E così, grazie a quei film, Risi a poco a poco è diventato, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, una specie di icona di certa sinistra giacobina, che da sempre ama contrapporre l’Italia dei buoni (laica, civile e progressista) a quella dei mascalzoni, fascisti per Dna, come il Bruno Cortona, del Sorpasso. Oppure come il costruttore truffaldino, di In nome del popolo italiano. Personaggi entrambi interpretati da un grandissimo Vittorio Gassman.
Chiunque ritenga che stiamo esagerando, si vada e leggere i coccodrilli “sociologici”, usciti ieri sul Corriere, Repubblica, Stampa, Manifesto, eccetera. Dove si celebra la “sociologia” di Risi: come grande capacità di fustigare quel lazzarone dell’italiano medio. Del regista, insomma, si apprezza il manicheismo: quel gusto tutto cinematografico di dissacrare un italiano, certo “medio”, ma che, in realtà, nello stesso anno in cui Risi girava Il Sorpasso, il 1962, si spaccava la schiena per costruirsi, dopo una guerra disastrosa, un futuro migliore. Certo borghese, ma che c’era di male? Forse il fatto che il progresso economico fosse targato Democrazia Cristiana? Nessuno è perfetto.
Ora qui non si discute l’ ”arte” di Risi, ma la sua visione totalmente negativa dell’italiano piccolo piccolo. Perché delle due l’una: o i “mostri” descritti nei suoi film hanno caratteristiche universali. E quindi il suo è un “discorso” filosofico, sulla corrotta natura umana, eccetera… Il che può anche essere accettabile. Oppure quei “mostri” sono dentro ogni italiano, soprattutto se di estrazione, come si diceva un tempo, “popolare”. Scelta invece non accettabile, perché si rischia di sconfinare in una specie di razzismo intellettuale di derivazione giacobina. Lo stesso che ha distinto fascisti e antifascisti: tutti tesi a “fare” per forza “l’italiano nuovo”, a calci nel sedere… E qui avevano ragione Giacomo Noventa, e poi Augusto Del Noce. I quali ritenevano che l’antifascismo avesse conservato la stessa mentalità autoritaria del fascismo.
Ovviamente, Risi, uomo dotato di grandissima autoironia, non incoraggiava certe interpretazioni giacobine dei suoi film. Ma ormai il danno era fatto…
E qui vale la pena ricordare che in Nome del popolo italiano, film del 1974, il “gaglioffo” costruttore-Gassman, per una volta innocente, viene ugualmente perseguito dallo “scrupolosissimo” Giudice-Tognazzi. Il quale pur di condannarlo e toglierlo di mezzo, non esita a nascondere le prove della sua innocenza. Precorrendo così certe scorciatoie giustizialiste a noi vicine, poco rispettose delle regole dello stato di diritto.
In realtà quando ci si lascia andare intellettualmente verso derive antropologiche, quasi lombrosiane, di condanna di un intero popolo, il rischio è quello di fare di ogni erba un fascio. E così favorire ideologicamente l’uso di qualsiasi strumento pur sradicare, come ogni tanto si legge, la malapianta dell’italiano.
In fondo, il “risismo” , e non tanto (o non solo) Risi, è una malattia infantile del radicalismo intellettuale italiano. Incapace di andare oltre certo giacobinismo in bianco e nero. Proprio come certi film di Risi.