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Polemiche. Si ritorna a parlare di gramscismo

di Carlo Gambescia - 18/06/2008


Con la stessa periodicità delle coliche neonatali, si ritorna a parlare, e in toni polemici, del “gramscismo di destra”. Ripartendo dal de Benoist, anni Settanta. Il quale teorizzava, reiventando e non arruolando Gramsci, l’importanza per la destra di puntare preventivamente sull’egemonia culturale : “La maggioranza ideologica è più importante della maggioranza parlamentare … la prima annuncia sempre la seconda, mentre la seconda, senza la prima, è destinata a sfaldarsi” ( Visto da destra, trad. it., p. 632).
Il copione è il solito. Qualcuno da destra, il Ministro Mariastella Gelmini, cita Gramsci, magari a sproposito. E subito da sinistra qualcun altro, Lucia Annunziata, grida “Al ladro! al ladro!”. Dopo di che inizia da destra il fuoco di fila processuale pro o contro l’arruolabilità di Gramsci. Come ad esempio sul Giornale di venerdì scorso.
Da un lato l’accusa: Gianni Baget Bozzo (“Un cattivo maestro”); Geminello Alvi (“Una fama usurpata”). Dall’altro la difesa o quasi: Giordano Bruno Guerri ( come Bottai, Gramsci “era impegnato a delineare una nuova figura di intellettuale, capace di superare le inadeguatezze del sistema politico liberale”). E in mezzo la “parte civile”, rappresentata da un “debenoistiano di origine controllata”: Marco Tarchi (“La destra politica… non capì. Non lesse, non meditò, diffidò, Gramsci era pur sempre un comunista... ).
E che dire, infine, dell’ amico Luciano Lanna? Che sabato scorso, sul Secolo d’Italia, pur di spezzare una lancia in favore del gramscismo (di destra) in salsa aennina, ha messo insieme tutto e il contrario di tutto: Gramsci, Del Noce, Sarkozy e l’An di Fini…
Certo, è vero, come scrive, che Del Noce, già trent’anni fa aveva parlato bene di Gramsci come continuatore di Gentile, ma, se ci si passa il paragone, alla stregua di quei medici che parlano bene dell’uso terapeutico della cannabis: nel senso che secondo Del Noce lo storicismo gramsciano, sottaciuto da Lanna, una volta convertitosi negli epigoni in relativismo sociologista, avrebbe favorito “terapeuticamente” il suicidio di ogni religione basata sull’Assoluto (trascendente o immanente), inclusa quella gentiliana prima, e rivoluzionario-comunista dopo. E così è stato. Quanto al gramscismo di Fini e Sarkozy, meglio lasciar perdere… Roba da Novella Duemila. Certo Lanna, a differenza di altri, ha letto Gramsci. E scrive di cose che conosce. Tuttavia, crediamo gli sia sfuggito il carattere sociologico del concetto di egemonia. Sociologico perché privilegia il momento della socializzazione su quello della politicizzazione. Ma ci spieghiamo meglio.
Che cosa scrive Gramsci? “La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione morale e intellettuale’. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende ‘a liquidare’ o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche ‘dirigente’ “ (Quaderni del carcere, p. 2010-2011, Einaudi, Torino 1975).
E’ qui rivenibile l’influenza, sicuramente ambientale, di due grandi sociologi, pur criticati da Gramsci, come Gaetano Mosca (padre del concetto di “formula politica” come forma di legittimazione culturale ) e Vilfredo Pareto ( studioso delle “derivazioni”, come giustificazioni ideologiche del potere).
In un punto però Gramsci si distanzia da Mosca e Pareto. Il pensatore comunista, a differenza degli uomini di destra, non accetta il carattere eterno della divisione della società in governanti e governati: crede nella socializzazione del potere, come “bene” che va distribuito equamente fra tutti i cittadini. Di conseguenza, l’egemonia culturale, proprio perché ha una valenza sociologica, deve condurre al riassorbimento della politica nella società. Nel senso, scrive Gramsci, “che si tratta, è vero, di lavorare alla elaborazione di una élite, ma questo lavoro non può essere staccato dal lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono in realtà una sola attività ed è appunto ciò che rende difficile il problema” (Quaderni , cit., p. 892).
La vera questione, almeno per il Gramsci “sociologo” suo malgrado (nella misura di un pensiero che riconduce sempre ogni problema al “sociale”), resta come creare una élite, con un’anima sociale e generosa, che al tempo stesso non la faccia sentire élite. Rendendola perciò capace di annullare, e per sempre, le distanze “sociali” tra governanti e governati.
Per farla breve, la differenza tra il gramscismo sociologico e quello di certa destra culturale aennina, che vuole arruolare per forza Gramsci, è nel fatto che per il pensatore comunista l’egemonia culturale rimane finalizzata alla “socializzazione”: e dunque ha un’anima. Mentre per la destra di cui sopra, l’egemonia culturale viene ancorata alla “politicizzazione”. Che consiste nell’assemblaggio di valori politici, anche i più diversi, ma di volta in volta capaci di essere funzionali solo alla conquista e conservazione del potere. Insomma niente anima… Neppure nei termini di quell’ “educazione delle masse”, secondo valori stabili e definiti, attuata dallo Stato, teorizzata da Gramsci e Bottai, giustamente ricordata da Guerri…
Pertanto nell’universo aennino l’uso strumentale del concetto di egemonia, non può che accrescere al tempo stesso la “disanimazione” culturale e la sudditanza a interessi politici contingenti. Dal momento che viene usato come una scatolone vuoto, dove in nome dell’ ”immaginario” (altra parola magica…), si può mettere dentro di tutto: dalla chitarra di Carla Bruni alle pinne subacquee di Gianfranco Fini.
Povero Gramsci.