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Religione, politica, cultura come difesa paranoide dall'angoscia di morte, secondo Luigi De Marchi

di Francesco Lamendola - 18/06/2008

Luigi De Marchi è uno psicologo clinico e sociale e un politologo che, negli anni Settanta del secolo scorso, si è messo in luce nelle battaglie per i diritti civili. Nel 1971, fra l'altro, ha ottenuto dalla Corte Suprema la revoca dei divieti penali all'informazione  e all'assistenza anticoncezionale, contro l'allora presidente del Consiglio Emilio Colombo; e, da allora, ha contribuito alla crescita della rete di consultori sessuologici e familiari pubblici.

Segretario nazionale dell'AIEV negli anni Cinquanta, nei decenni successivi è stato presidente delle sezioni italiane delle tre maggiori scuole di psicoterapia: quella psico-corporea ispirata a Wilhelm Reich, quella bioenergetica di Alexander Lowen e quella umanistica di Carl Rogers. Se ne è poi allontanato, perché gli sembrava che nessuna di esse abbia compreso l'importanza dell'angoscia di morte nell'insorgenza dei comportamenti paranoici dell'uomo; e ha fondato, a Roma, l'Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale, che tuttora dirige.

De Marchi ha sempre sostenuto che la peggiore calamità del nostro tempo è l'esplosione demografica, perché da essa derivano molti dei mali da cui è afflitta l'umanità: fame, guerra, genocidio, disastro ambientale, crisi energetica, disoccupazione diffusa, migrazione disperata di masse sempre più numerose dal Sud al Nord della Terra.  Ultimamente ha accentuato il suo interesse per la politica e si è fatto promotore di una "rivoluzione liberale", coniugando valori umanistici e lotta alla burocrazia statale. Ha partecipato anche alla realizzazione di programmi televisivi, convinto che la TV sia un mezzo privilegiato per incidere in senso positivo sui mutamenti comportamentali.

Ha scritto: Sesso e civiltà (Laterza, 1960); Sociologia del sesso (Laterza, 1963); Repressione sessuale e oppressione sociale (Sugarco, 1964); Wilhelm Reich: biografia di un'idea (Sugarco, 1970); Sociopolitica (Sugarco, 1975); Scimmietta ti amo (Longanesi & C., 1984); Poesia del desiderio (La Nuova Italia, 1992); Perché la Lega (Mondadori, 1993); Il manifesto dei Liberisti. Le idee-forza del nuovo Umanesimo Liberale (Seam, 1995); O noi o loro! Produttori contro burocrati, ecco la vera lotta di classe della Rivoluzione Liberale (Bietti, 2002); Lo shock primario (Rai-Eri, 2002); Il solista. Autobiografia d'un italiano fuori dal coro (Edizioni Interculturali, 2003). Molti di queste opere sono state tradotte anche all'estero.

 

Nel suo libro Scimmietta ti amo (Longanesi & C., Milano, 1984) Luigi de Marchi formula la tesi dello shock primario, che segna il suo distacco dalle scuole di psicoterapia di Reich, Lowen e Rogers e che sarà oggetto di molte altre sue ricerche, ben conosciute anche all'estero e specialmente in  Germania.

Partendo da una visione rigorosamente naturalistica e biologica dell'uomo, egli sostiene che vi è un unico filo conduttore che lega le vicende della "scimmia umana", dalla sua emergenza biologica fino alle prospettive di apocalisse atomica che contrassegnano i nostri giorni. Convinto che le strutture psicologiche fondamentali rimangono invariate nel susseguirsi vorticoso di culture, ideologie e istituzioni, egli individua tale filo conduttore nello shock esistenziale dovuto al "trauma primario" con il quale la scimmia umana ha dovuto prendere coscienza del proprio destino di morte. Tale shock è stato, in lei, più sconvolgente che in qualunque altro essere vivente, proprio a causa delle sue particolari facoltà intellettive e affettive, che hanno moltiplicato l'eco di quella sconvolgente scoperta, davanti alla ineluttabilità della propria morte e al dolore per quella delle persone a lei care.

A partire da quel  momento, lungo l'intero arco della sua evoluzione storica, la scimmia umana non è mai più stata in grado di liberarsi, neanche per un istante, da quella angosciosa consapevolezza, che entra definitivamente a far parte della sua dimensione psichica e della sua vita sociale. Impossibilitata a sostenere il peso e la tensione dell'angoscia di morte, essa ha messo in opera la più antica delle rimozioni e ha elaborato l'intero edificio della cultura - religione e politica in primis, ma anche filosofia, psicologia, economia, arte - nel tentativo di reagire e di difendersi da una minaccia così totale e irreversibile.

La violenza intraspecifica, caratteristica della specie umana, acquista un nuovo significato se viene letta come una doppia risposta, ugualmente regressiva e paranoide, all'angoscia di morte: quella sadica e aggressiva e quella masochista ed espiatoria. Si tratta, in entrambi i casi, di un tentativo di esorcizzare e mascherare il "tabù originario", riversando in forme compulsive e violente l'insostenibilità dello shock esistenziale. I miti e i riti della sopraffazione, della guerra, dell'espiazione e dell'auto-punizione, non sono che le forme elaborate dall'uomo, guidato dai suoi istinti gregari, per fare fronte comune davanti alla suprema minaccia di annientamento che lo assedia da ogni parte.

Ma lì dove la scimmia umana ha toccato il vertice dell'alienazione, è nelle credenze religiose e politiche che gli hanno additato, volta a volta, un Paradiso in cielo o un Paradiso in terra, inducendolo a moltiplicare le sue capacità distruttive e, nello steso tempo, ad annullarsi in una passività docile e remissiva. Nella sua duplice valenza di tentativo di fuga e di illusione di salvezza, il millenarismo religioso e politico ha accompagnato la scimmia umana fino alla crisi epocale che caratterizza l'era atomica: crisi di tutte le certezze e di tutte le ideologie; ma, proprio per questo, suscettibile di innescare una inversione di tendenza. Per la prima volta nella storia, l'angoscia di morte ha avviato processi così distruttivi che, invece di allontanare - e sia pure in maniera illusoria - la minaccia, l'ha enormemente moltiplicata e avvicinata, sì che essa incombe come una concreta e imminente possibilità di distruzione totale per tutta la specie.

La stessa radicalità e vicinanza del pericolo, dunque, potrebbe innescare una sorta di mutazione della cultura umana, capace di indurre a un ripulsa delle morali coercitive e delle ideologie totalitarie e di sviluppare, al contrario, quell'incremento armonioso della vita, che trova la sua fonte nei bisogni emozionali più profondi: il desiderio e l'amore. E appunto come un tenero atto di amore verso la scimmia umana, fin dal titolo del libro, Luigi De Marchi imposta la sua analisi.

 

Dopo aver passato in rassegna le varie forme culturali dell'alienazione indotta dall'angoscia di morte, a conclusione della sua indagine e della sua proposta, egli così riassume i punti principali del suo ragionamento (Scimmietta ti amo, cit., pp. 189-194):

 

1.      L'intuizione improvvisa, e poi continuamente rinnovata e rimossa, del destino di morte riservato a lui stesso e a tutti i suoi simili più cari, provocò nell'uomo primordiale una reazione di terrore e di panico, da me definita di shock esistenziale, che sta alla base della nascita e di molti sviluppi della cultura umana, se per cultura s'intende non la semplice produzione di manufatti (che del resto è riscontrabile anche a livello animale) ma la produzione di idee, fantasie, miti, credenze, riti, costumi.

 

2.      Questo trauma esistenziale primario, infatti, produsse una rimozione totale e una negazione immediata della morte, che assunsero la forma di fantasie  (poi cristallizzate in credenze) di sopravvivenza dopo la morte. I documenti di queste antichissime fantasie e credenze di vita ultraterrena risalgono al paleolitico medio; appartengono a una razza umana (quella neanderthaliana) anteriore all'homo sapiens sapiens e per vari aspetti ancora quasi scimmiesca, sono la prima forma di cultura umana di cui si abbia traccia e anticipano di decine di migliaia di anni i successivi più antichi documenti culturali finora scoperti: i dipinti rupestri della Dordogna, risalenti a 30.000-23.000 anni fa e ancora molto rozzi, e quelli del periodo magdaleniano (17.000-13.000 anni a. C.), ormai policromi e relativamente sofisticati.

 

3.      Da questa primordiale negazione della morte è derivata una miriade di miti e riti sempre più complessi, ma tutti sempre finalizzati a difendere l'essere umano dallo shock esistenziale e dalla relativa angoscia di morte. Questi miti e riti sono il nucleo universale, il denominatore comune di tutte le religioni, talché si può dire che magia e religione sono nate e si sono sviluppate e tramandate in ogni parte del mondo essenzialmente come difese e rassicurazioni contro l'angoscia di morte.

 

4.      Già in epoca antichissima la morte cominciò a essere percepita come punizione per un offesa dell'uomo alla Divinità. Questa colpa primaria dell'uomo è significativamente simboleggiata dalla brama di amare e di conoscere, nel mito dell'Eden: e di lì le infinite persecuzioni di cui furono oggetto la donna, il sesso e il pensiero indipendente attraverso i tempi. La presunta colpa delle origini è stata elaborata dalla mente umana sia in termini espiatori (e di lì la tragica disponibilità delle masse umane al masochismo, al conformismo, al gregarismo), sia in termini paranoicali (e di lì la proiezione della colpa e del Male sull'infedele e la catena infinita di odio e sangue che inchioda l'umanità da millenni). Tanto la declinazione paranoicale quanto quella espiatoria, col loro corte tragico di servilismi e sopraffazioni, di violenze inflitte e autoinflitte, sono due facce della stessa medaglia: la spinta ossessiva a propiziarsi il perdono o la "grazia" (come si disse significativamente anche dei condannati a morte) da parte della divinità e, con la grazia, l'immortalità.

 

5.      In tal modo l'angoscia di morte è divenuto un fattore tanto potente quanto patogeno della moralità individuale e sociale. Il comportamento dell'uomo, infatti, è stato regolato, più che dall'affetto e dalla solidarietà per i suoi simili, dalla paura della punizione e dall'esclusione da ogni salvezza ultraterrena. Questo danno è stato tuttavia attenuato dal fatto che, almeno per gli appartenenti alla stessa fede, sono stati inseriti tra gli obblighi morali di molte religioni.

 

6.      Dall'angoscia di morte (spesso rimossa) sono derivati innumerevoli altri atteggiamenti e comportamenti reattivo-difensivi nei campi più diversi: dai costumi sessuali alle dinamiche demografiche, dai processi economici ai movimenti politici, artistici, culturali e perfino psicologici e psichiatrici. La negazione o la rimozione dell'angoscia di morte è stata anche, significativamente, una delle principali preoccupazioni della psicologia e della psichiatria moderne.

 

7.      Probabilmente a partire dalla predicazione zoroastriana (VI secolo a.C.) non solo l'immortalità ma anche l'eterna beatitudine in un Paradiso di Delizie furono promesse (ed esclusivamente riservate) agli Eletti della Vera Fede predicata da questo o quel profeta. Tutti i seguaci e i profeti delle altre fedi furono visti come nemici da combattere e abbattere in quanto agenti del male. Ai combattenti di queste guerre sante fu garantito il paradiso. Ai nemici, l'inferno. Come rilevato al punto 4, si produsse una elaborazione paranoicale della difesa religiosa contro l'angoscia di morte, che sta alla base di innumerevoli orrori interni ed esterni alle culture dominate da queste religioni fanatiche e millenaristiche (la cristiana e l'islamica soprattutto).

 

8.      La difesa religiosa contro l'angoscia di morte è però entrata in crisi in Europa a partire dalla fine del Medioevo, prima per l'aumento sempre più incontrollabile della angoscia di dannazione delle stesse dottrine ecclesiastiche, e poi per il crollo delle certezze etiche e ultramondane prodotto dallo sviluppo del pensiero scientifico e filosofico. La crisi è diventata catastrofale a partire dalla fine del XVIII secolo. Essa aveva avuto vari precedenti in altre epoche e civiltà: per esempio, nella Grecia del V e IV secolo a. C. o nella Roma imperiale del I e II secolo d. C. Nella stessa Europa cristiana, come si è detto più sopra, la stessa difesa religiosa, sostanzialmente solida durante tutto l'alto Medioevo, aveva avuto una prima incrinatura per fattori interni (la sempre più schiacciante angoscia di dannazione)tra il XII e il XIV secolo e varie altre crisi minori, dal XV al XVIII secolo, che erano state sempre superate in qualche modo mediante forme di coesistenza, "doppia verità" e compromesso tra ortodossia religiosa e pensiero umanistico e scientifico.

 

9.      La crisi iniziata nel XVIII ed esplosa nel XIX e XX secolo si differenzia da tutte le precedenti perché appare molto più radicale e irreversibile: non si tratta più di un conflitto tra élite culturali, ma della silenziosa e generale dissoluzione dei dogmi e delle credenze religiose nella psiche dei popoli attraverso un processo pervasivo di laicizzazione della società, dell'informazione e del clima culturale in genere. E dall'Europa questa crisi si è estesa a tutto il mondo industrializzato e va ora estendendosi anche al Terzo Mondo.

 

10.  Investite da questa frana delle certezze religiose, la psiche e la cultura occidentale hanno tentato di rimpiazzare i millenarismi religioso con due millenarismi «laici»: quello naturalista e quello storicista. Alla Provvidenza Divina, cioè, si è tentato di sostituire una Provvidenza storica e una Provvidenza naturale.  La salvezza umana fu vista in un ritorno e in una sottomissione, anziché alle leggi di Dio, alle leggi della Storia o della Natura, «correttamente» interpretate, come un tempo quelle divine, da nuovi profeti che tuttavia si dicevano e si credevano laici, materialisti, razionalisti o atei. Dei due nuovi millenarismi, quello di gran lunga più rovinoso fu comunque il millenarismo storicista, perché approdò (come rilevato al punto 12) al totalitarismo fascista, comunista e terzomondista.

 

11.  La difesa filosofica, che aveva svolto nei secoli funzione integrativa o suppletiva della difesa religiosa quando questa entrava in crisi, questa volta è entrata anch'essa, significativamente, in crisi: come osserva l'Enciclopedia Britannica, «dopo il 1925 vi sono state ben poche discussioni filosofiche sul tema della morte». Anche i filosofi più consapevoli, come gli esistenzialisti, finiscono per sottolineare soprattutto l'angoscia di «essere-nel-mondo», piuttosto che quella di… cessare di esserci. Sebbene questo fenomeno sia attribuito da un autore pur profondo come Jacques Corona un processo di «specializzazione della filosofia come disciplina autonoma», in realtà questo improvviso silenzio della filosofia sulla morte mi sembra testimoniare la gravità di un'impasse del pensiero umano che la simultanea esplosione dei miti millenaristici totalitari di destra e di sinistra ha tentato molto rozzamente di scavalcare.

 

12.  La civiltà europea, ove la crisi delle difese religiose si è verificata più precocemente e su scala più generalizzata, ha cercato di reagire al ritorno massiccio dell'angoscia esistenziale appunto con un nuovo tipo d millenarismo fanatico a carattere non più religioso ma sociale e politico: il totalitarismo fascista e comunista con i suoi programmi di universale felicità terrena. Il fatto che il millenarismo politico totalitario si sia diffuso dall'Europa ad altri continenti e dai paesi industrialmente avanzati a paesi estremamente sottosviluppati dal punto di vista economico oltre che diversissimi per tradizioni storiche, mi sembra dimostrare al tempo steso sia l'egemonia delle dinamiche psicologiche su ogni altro tipo di dinamica (economica, ideologica o istituzionale)sia il crescente processo di diffusione della crisi delle certezze religiose.

 

13.  Ai nuovi miti millenaristi di stampo politico totalitario sono stati particolarmente sensibili gli intellettuali, com'era forse inevitabile per un gruppo più precocemente e più duramente colpito dal crollo delle certezze religiose. La resa di tanti intellettuali alla mostruosa crudeltà e stupidità dei totalitarismi contemporanei, incomprensibile sul piano logico ed etico, appare spiegabilissima in un'ottica psico-esistenziale così come, in quest'ottica, appare subito risolvibile l'«oscuro enigma» della massiccia diserzione degli intellettuali dalla sinistra al potere o da quella riformista: anche se una recente inchiesta di Le Monde non sembra accorgersene neppure, la causa prima di tale diserzione sta nel fatto che, alla sinistra di governo come a quella riformista, viene a mancare l'alone millenarista.

 

14.  Anche i giovani, in quanto meno rassegnati e più difesi contro la morte, hanno ceduto e cedono più facilmente ai miti totalitari o, significativamente, alla droga; in altri termini, quando crollano i loro paradisi politici molti giovani si rifugiano nei paradisi chimici, pur di sottrarsi in qualsiasi modo all'impatto con la realtà angosciante dell'esistenza.

 

15.  Ma il millenarismo politico totalitario non può reggere a lungo perché è molto meno consolante e molto più smentibile del millenarismo religioso che ha tentato di sostituire.

 

16.  Oggi molti reduci delusi della militanza rivoluzionaria si orientano verso un ritorno ai miti religiosi (e qui sta una radice importante dell'enorme successo dei misticismi e dei guru orientali in questi anni) mentre altri ex militanti ultrà (come i "verdi" olandesi, tedeschi e italiani) scoprono il radicalismo ecologico. Questi fenomeni se da un lato confermano pienamente un assunto centrale delle analisi qui condotte - e cioè la sostanziale intercambiabilità dei millenarismi religiosi, politici e naturalistici - dall'altro hanno scarse prospettive dui successo proprio perché è l'ottica millenaristica che è entrata in crisi globale in seguito all'evoluzione intellettiva, cognitiva ed etica dell'uomo, cosicché la credibilità delle sue promesse risulta sempre più effimera.

 

17.  Pochi altri, infine, col terrorismo hanno tentato un rilancio del mito e del rigorismo rivoluzionario, tanto più cruento e fanatico quanto più forte era la loro paura d'un crollo generalizzato delle certezze ideologiche. (Del resto, anche le chiese e le sette religiose avevano reagito col terrorismo fanatico agli scricchiolii delle loro certezze).  Ma anche questa "soluzione" è in via di estinzione.

 

18.  Particolarmente paradossale e significativa è stata la rimozione dell'angoscia primaria di morte in psicologia e psichiatria, dato che in queste scienze lo studio dell'angoscia e della rimozione è ormai da un secolo un vero e proprio leitmotiv. Ciò ha spesso portato a dilatare artificiosamente il ruolo della sessualità rimossa nella produzione dell'angoscia e della nevrosi.

 

Insomma, siamo una specie che ha reagito e insiste a reagire con meccanismi obsoleti di difesa alle nuove minacce di collasso psichico prodotte dal suo stesso sviluppo mentale.

L'uomo si comporta cioè come una talpa, che, per salvarsi, insiste a interrarsi anche quando una ruspa potente (in questo caso la forza dell'evoluzione etica e cognitiva umana) soleva e ribalta la zolla in cui essa s'interra.

A quanto pare non ci rendiamo conto che quella odierna è la più terribile crisi della nostra specie dai tempi in cui l'uomo esiste come uomo, cioè come animale consapevole: e lo è non solo per i motivi militari, economici, demografici e ecologici solitamente indicati, ma per motivi esistenziali che incidono sulle radici stesse dello psichismo umano.

Questa crisi segna l'agonia della cultura umana quale s'era concretata dalle sue origini nel paleolitico medio e superiore: una serie, cioè, di formazioni compulsive di topo difensivo, depressivo o paranoicale (e di natura via via magico-religiosa, filosofica, demografica, poluitia, artistica) all'angoscia di morte e ala sua rimozione.

Ora queste estreme difese stanno crollando. Resta da vedere se l'essere umano riuscirà a sopravvivere senza di esse, se sarà costretto a regredire a livelli coscienziali e intellettivi che ne consentano la ricostruzione, o infine se riuscirà a elaborare una nuova cultura non più millenaristica e salvazionistica ma finalmente risanata dai funesti deliri espiatorie paranoicali di tutta la sua storia, e quindi aperta all'amore autentico tra gli uomini, alla loro solidale alleanza contro il comune destino.

 

Dicevamo che tutta l'argomentazione di Luigi De marchi muove da una visione materialistica ed evoluzionistica dell'uomo, che egli dà per scontata, tanto da parlare di "scimmia umana" e da non vedere nella cultura se non una continua variazione sul tema dello shock esistenziale: la scoperta della ineluttabilità della morte e la conseguente angoscia, mascherata sotto infiniti travestimenti ideologici.

In un certo senso, la sua diagnosi circa la condizione umana e la sua proposta, favorire la presa di coscienza che l'uomo deve imparare a vivere e a morire senza attendersi improbabili paradisi in cielo o in terra, ricorda per più aspetti quella del filosofo Salvatore Natoli, della quale ci siamo appena occupati (cfr. F. Lamendola, Etica del finito come neopaganesimo nella proposta di Salvatore Natoli, sul sito di Arianna Editrice). Entrambi, con diverse sfumature, propongono di costruire un'etica del finito che rompa per sempre con la tradizione culturale, spirituale e religiosa da cui proveniamo.

Ma vi sono anche due aspetti che lo legano all'ontologia di Emanuele Severino (cfr. F. Lamendola, Gli immutabili, il niente, il caso nella filosofia di Emanuele Severino (anch'esso sul sito di Arianna Editrice).

Il primo aspetto è quello relativo al giudizio totalmente negativo che viene espresso sull'intera storia della cultura: per Severino della cultura occidentale, per De Marchi della cultura umana in quanto tale; e che, con sbrigativa semplificazione, affastella e accomuna praticamente tutte le manifestazioni del pensiero religioso e politico, da Cristo a Marx, da Mussolini alla Conferenza di Bandung.

Il  secondo aspetto è quello relativo al senso di angoscia che dominerebbe l'uomo (rispettivamente, l'uomo occidentale o l'uomo tout-court), e che lo spingerebbe a elaborare risposte illusorie e paranoiche. Per Severino si tratterebbe di una angoscia del divenire dovuta all'oblio dell'essere e al senso di minaccia da parte del nulla; secondo De Marchi sarebbe, invece, una angoscia di morte che deriva dallo shock esistenziale originario. Per entrambi, il mancato riconoscimento della vera origine dell'angoscia, avrebbe spinto gli uomini a inseguire delle risposte totalitarie, regressive e autodistruttive, che, dalla religione alla politica, non hanno fatto altro che disseminare di errori ed orrori la storia dell'Europa e del mondo.

 

Come si vede, non vi è alcuna particolare sensibilità per le sfumature; il quadro è monocorde, insistito, tetro, un tantino ossessivo; privo di mezze misure, squadrato con l'accetta. La religione non è che una reazione paranoica all'angoscia di morte; e, quando le sue basi filosofiche sono state messe in crisi dal progresso del pensiero e della scienza, altre religioni, laiche ma non meno fanatiche e pericolose, ne hanno preso il posto: i totalitarismi politici, la cui ultima, sanguinosa eco è stato il terrorismo degli anni Settanta e Ottanta. Lo spettacolo della storia umana è quello di un'unica, monotona alienazione che assume le forme della violenza eterodiretta (sadismo) o autodiretta (masochismo). Sempre e ovunque l'uomo, davanti all'incapacità di dominare l'angoscia di morte, pare non abbia saputo far di meglio che infliggere al suo prossimo o a se stesso le forme più variegate di violenza, fisica o psicologica, realizzando con le sue stesse mani una specie di inferno terreno.

Fatto significativo, fra le minacce totalitarie prodotte dall'angoscia di morte De Marchi non sembra far rientrare quella della scienza e della tecnica odierne: il che, del resto, è in linea con la sua visione evoluzionistica e razionalistica, basata sull'idea di progresso. Al contrario, egli colloca esplicitamente l'ambientalismo contemporaneo tra le forme degli esecrati totalitarismi millenaristici, accanto al fascismo e al comunismo. Il pericolo per il nostro futuro, insomma - stando a questa interpretazione - viene più dagli ambientalisti che lottano contro l'irreparabile distruzione della natura, che non da una scienza senza coscienza e da una tecnica mercenaria che realizzano materialmente, al servizio di un Logos strumentale e calcolante, tale distruzione.

A dispetto della sua radicale avversione per ogni forma di millenarismo e di totalitarismo, la conclusione di De Marchi ricalca, inconsapevolmente, la tanto aborrita prospettiva salvazionistica: gli uomini devono finalmente prendere coscienza della loro condizione finita e mortale (come per Natoli), unirsi in solidale alleanza contro il dolore e la morte (come per Leopardi), riscoprire la bellezza del mondo nella sua radicale immanenza (come per Severino).

A un certo punto (Scimmietta ti amo, cit., p. 194) De Marchi confessa che il suo schema interpretativo della psicologia e della storia umana è stato, per lui, doloroso da concepire e da accettare (una ammissione che richiama una famosa pagina del Diario del padre dell'evoluzionismo,  Charles Darwin), ma che ne è rimasto "affascinato" perché è l'unico che «consente di inquadrare in una visione unitaria, coerente e persuasiva di tipo psicologico-esistenziale l'intero processo dell'evoluzione culturale umana, dalle sue origini paleolitiche agli odierni, apocalittici scenari » e, al tempo stesso, di rendere ragione delle molteplici motivazioni religiose, sociali, demografiche, politiche e filosofiche  che hanno caratterizzato l'evoluzione umana.

Insomma, si tratta del vecchio richiamo della filosofia della storia, intesa come tentativo di fornire uno schema interpretativo unitario di tutti i fatti umani: come per Spengler, come per Toynbee, vi è qui una dichiarata esigenza di ridurre il molteplice all'unità, di delineare il senso della vicenda umana e di predirne, se possibile, gli esiti futuri. Ma, a differenza di Spengler e di Toynbee, De Marchi non si accontenta di una interpretazione unitaria dei fatti storici, egli cerca anche la moderna pietra filosofale che gli permetta una interpretazione unitaria di tutti i principali fatti psichici, spirituali e culturali: dalle pitture rupestri dei neanderthaliani alle più recenti avanguardie artistiche, dai riti sciamanici degli uomini del paleolitico alle moderne idolatrie della storia elaborate da Hegel Marx, Lenin e Hitler.

 

Il minimo che si possa obiettare a questo tipo di filosofia è che, se la storia del pensiero umano non è stata che una serie di errori, di alienazioni, di reazioni inconsulte a un paranoico terrore della morte, per quale mai ragione si dovrebbe accordare maggior fiducia all'ennesimo annuncio di salvezza, all'ennesima ricetta per il paradiso in terra? Certo, De Marchi non parla di paradisi, anzi protesta contro ogni nevrosi paradisiaca; ma che altro è, in realtà, la sua proposta di costruire un mondo ove  gli uomini siano finalmente solidali tra loro, vengano banditi l'odio e la violenza, e il progresso sia posto interamente al servizio della felicità umana?

Non solo: per realizzare un simile obiettivo, De Marchi propone di fare piazza pulita di ogni idea o progetto "totalitario", sia trascendente che immanente, intendendo con tale espressione ogni pretesa di risposta salvifica totale al disagio della condizione umana. Ebbene, si potrebbe mai immaginare una proposta più totalitaria di questa? Si tratta, infatti, di una proposta che getta fra i rifiuti della storia più o meno tutto quello che l'uomo ha pensato, sentito e realizzato negli ultimi trentamila anni della sua vicenda, bandendo come sogni patetici e funeste illusioni tutte quelle cose che gli hanno dato coraggio, fede, speranza e amore - insieme, è vero, a manifestazioni d'intolleranza e prevaricazione

Come per Natoli, l'obiettivo finale di De Marchi è una gigantesca mutazione antropologica, la costruzione di una umanità radicalmente rinnovata sia nella sfera affettiva che in quella intellettiva; una umanità che riparta da zero, facendo tabula rasa di valori, codici e pratiche fino a qui considerati buoni e giusti, se non addirittura sacri. Traspare una nietzschiana volontà d'inversione di tutti i valori:  un atto di audacia suprema che trasformi il "buono" in "cattivo", e viceversa. Buone sono state, sino ad ora, la rinuncia, la rassegnazione, l'espiazione; e, al tempo stesso, l'intolleranza, l'aggressività, la violenza ideologica (ma possono essere vere entrambe le cose, contemporaneamente?). Ora tutto ciò deve diventare cattivo, e occorre sostituirlo con la lucida accettazione della condizione mortale, con la collaborazione reciproca, con la solidarietà, il desiderio e l'amore nei confronti dei propri simili.

In fondo, è la vecchia filosofia dei Lumi che fa capolino dalle riflessioni di De Marchi: il vecchio mito di una Ragione che rischiarerà per sempre le tenebre in cui l'uomo è vissuto finora, e in cui stregoni e preti malvagi, dittatori e crudeli incantatori di folle, l'hanno relegata, mettendola in ceppi e vanificando la sua aspirazione alla libertà dalla paura, dal bisogno e dal dolore. E, alla fine di questo "rischiaramento" di kantiana memoria, l'umanità bambina diverrà finalmente adulta, e potrà incamminarsi verso le magnifiche sorti e progressive.

 

Vale comunque la pena di riprendere il testo di De Marchi e di esaminarlo brevemente, per evidenziarne gli aspetti che, a nostro parere, risultano poco convincenti. Poiché i punti sono ben diciotto, non li esamineremo tutti ma ci fermeremo al sesto. Diversamente, finiremmo per ripeterci e per annoiare il lettore; rimandiamo perciò, per una valutazione complessiva di tutti i diciotto punti, a quanto già detto sopra.

 

1.      L'intuizione improvvisa, e poi continuamente rinnovata e rimossa, del destino di morte riservato a lui stesso e a tutti i suoi simili più cari, provocò nell'uomo primordiale una reazione di terrore e di panico, da me definita di shock esistenziale, che sta alla base della nascita e di molti sviluppi della cultura umana, se per cultura s'intende non la semplice produzione di manufatti (che del resto è riscontrabile anche a livello animale) ma la produzione di idee, fantasie, miti, credenze, riti, costumi.

 

Ma chi è questo "uomo primordiale" di cui parla De Marchi? Non è un uomo storicamente definibile, quanto piuttosto un'astrazione del pensiero. Non esiste la minima prova che questo essere primordiale, questa "scimmia" umana, abbia subito lo shock esistenziale in questione. Ancora più ipotetica è l'affermazione che l'intera cultura umana sia un prodotto derivato da un tale shock.

 

2.      Questo trauma esistenziale primario, infatti, produsse una rimozione totale e una negazione immediata della morte, che assunsero la forma di fantasie  (poi cristallizzate in credenze) di sopravvivenza dopo la morte. I documenti di queste antichissime fantasie e credenze di vita ultraterrena risalgono al paleolitico medio; appartengono a una razza umana (quella neanderthaliana) anteriore all'homo sapiens sapiens e per vari aspetti ancora quasi scimmiesca, sono la prima forma di cultura umana di cui si abbia traccia e anticipano di decine di migliaia di anni i successivi più antichi documenti culturali finora scoperti: i dipinti rupestri della Dordogna, risalenti a 30.000-23.000 anni fa e ancora molto rozzi, e quelli del periodo magdaleniano (17.000-13.000 anni a. C.), ormai policromi e relativamente sofisticati.

 

Le pitture, i graffiti e le testimonianze dell'uomo preistorico non indicano affatto, come sembra credere De Marchi, che l'uomo preistorico si abbandonò a fantasie, poi cristallizzate in credenze, sulla vita dopo la morte. Indicano che egli credeva, o almeno sperava, in una tale sopravvivenza. Che fossero "fantasie", questo è un giudizio di valore che l'autore non si prende affatto la briga di documentare: semplicemente lo pone, lo dà per auto-evidente. Per cui, più che a una interpretazione storica o a una tesi filosofica, qui ci troviamo di fronte a un'asserzione apodittica.

 

3.      Da questa primordiale negazione della morte è derivata una miriade di miti e riti sempre più complessi, ma tutti sempre finalizzati a difendere l'essere umano dallo shock esistenziale e dalla relativa angoscia di morte. Questi miti e riti sono il nucleo universale, il denominatore comune di tutte le religioni, talché si può dire che magia e religione sono nate e si sono sviluppate e tramandate in ogni parte del mondo essenzialmente come difese e rassicurazioni contro l'angoscia di morte.

 

Come già detto, qui De Marchi non argomenta e non teorizza: asserisce. Anche la tesi che magia e religione nascano da una medesima radice è una tesi discutibile e, comunque, molto vecchia. Risale, quantomeno, a Il ramo d'oro di James George Frazer, che fu scritto un secolo fa, in pieno clima positivista. Inoltre, diffidiamo istintivamente di tutte le teorie che pretendono di essere onnicomprensive di un'intera classe di fenomeni, anche assai diversi tra loro; che pretendono di dire l'ultima parola sull'origine comune di tutte le manifestazioni spirituali, come possono esserlo le religioni.

 

4.      Già in epoca antichissima la morte cominciò a essere percepita come punizione per un offesa dell'uomo alla Divinità. Questa colpa primaria dell'uomo è significativamente simboleggiata dalla brama di amare e di conoscere, nel mito dell'Eden: e di lì le infinite persecuzioni di cui furono oggetto la donna, il sesso e il pensiero indipendente attraverso i tempi. La presunta colpa delle origini è stata elaborata dalla mente umana sia in termini espiatori (e di lì la tragica disponibilità delle masse umane al masochismo, al conformismo, al gregarismo), sia in termini paranoicali (e di lì la proiezione della colpa e del Male sull'infedele e la catena infinita di odio e sangue che inchioda l'umanità da millenni). Tanto la declinazione paranoicale quanto quella espiatoria, col loro corte tragico di servilismi e sopraffazioni, di violenze inflitte e autoinflitte, sono due facce della stessa medaglia: la spinta ossessiva a propiziarsi il perdono o la "grazia" (come si disse significativamente anche dei condannati a morte) da parte della divinità e, con la grazia, l'immortalità.

 

Anche qui, troviamo espresse due tesi molto datate: che la religione nasca unicamente dall'ansia dell'uomo di propiziarsi il perdono della divinità, onde essere riscattato dalla morte incombente; e che la donna, il sesso e il libero pensiero siano sempre stati il bersaglio designato della repressione religiosa.

Si noti che tutto quanto non rientra in questo schema preconfezionato o contrasta irrimediabilmente con esso, ad esempio i culti orgiastici nelle religioni dei misteri o la posizione relativamente emancipata della donna in una società profondamente religiosa, come quella egiziana, viene puramente e semplicemente ignorato. La stessa storia del cristianesimo medioevale sembra che si riduca, in questo rigido schema, a una versione caricaturale e tendenziosa, come quella che emerge dal (discutibile) romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa: come se non avesse prodotto altro che monaci laidi, frustrati e ignoranti, e non uno straordinario rigoglio di civiltà, di cui le cattedrali gotiche sono solo una delle superbe manifestazioni.

Così, con il vecchio metodo di scegliersi, volta a volta, un avversario di comodo per sostenere indisturbato le proprie tesi, l'Autore può andarsene diritto per la sua strada, senza lasciarsi mai sfiorare da dubbi né incertezze.