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Il gesuita che disegnò la Cina

di Federico Rampini - 18/06/2008

    
Prendendo spunto dalla mostra di cartografia Visioni del Celeste Impero, appena inaugurata a Pechino da Riccardo Scartezzini, Federico Rampini ricostruisce il ruolo di intermediari culturali fra Europa e Cina svolto dai gesuiti nel XVII e XVIII secolo.
I gesuiti svolsero un doppio compito: contribuirono a sfatare miti e leggende tradizionali sulla Cina permettendo agli Occidentali la conoscenza della realtà del paese; contemporaneamente, attraverso la cartografia, offrirono ai cinesi una visione oggettiva del resto del mondo. Nel ‘700 queste carte furono uno strumento fondamentale per la penetrazione economica e commerciale di inglesi, francesi e olandesi nell’Estremo Oriente e alimentarono il gusto per le cineserie tipico dell’arte rococò.


Nel 1584 il gesuita-scienziato Matteo Ricci, che già da due anni viveva in Cina, vi realizzò un planisfero disegnato secondo la tradizione cartografica europea: con il nostro continente al centro e il Celeste Impero relegato sul bordo orientale della mappa. L’opera fu accolta dal gelo. Già per i cinesi era un trauma dover accettare il ridimensionamento del loro impero, in un mondo improvvisamente affollato da altre terre vaste e lontane. Vedersi per di più confinati alla periferia era una mancanza di rispetto, una raffigurazione offensiva. Ricci capì di aver commesso un errore. Duttilità culturale e tatto diplomatico non gli mancavano. Nei sedici anni successivi si ingegnò a ridisegnare un planisfero, altrettanto accurato, ma basato su una prospettiva completamente diversa: con il Celeste Impero collocato sul meridiano centrale, l’Europa schiacciata sulla sinistra e l’America a destra. Intitolato Carta geografica completa dei monti e dei mari, il mappamondo del 1600 ebbe un successo straordinario, venne replicato in numerose edizioni, e fu adottato da potenti notabili locali come il governatore di Guizhou, il letterato Guo Qingluo.
Sono passati quattrocento anni ma i cinesi del XXI secolo non sono meno suscettibili, anzi. Se n’è accorto il sinologo Riccardo Scartezzini, che dirige il Centro studi Martino Martini di Trento. Lo studioso italiano ha portato in Cina una pregevole esposizione di carte antiche, intitolata Visioni del Celeste Impero. È riuscito a farla esporre, prima a Pechino e in questi giorni a Hangzhou, offrendo al pubblico cinese un’opportunità straordinaria: riscoprire l’immagine della Cina nella cartografia occidentale, un’immagine che dal Seicento in poi contribuì anche alla conoscenza che i cinesi hanno del proprio Paese. Ma questa mostra ha rischiato di non aprirsi mai. I fulmini della censura di Stato stavano per abbattersi sui pregevoli documenti storici. La ragione? In quelle magnifiche carte antiche c’è la prova inconfutabile che il Tibet e altre regioni della Repubblica popolare come il Xinjiang islamico furono a lungo indipendenti. [...] Anche se vecchie di secoli, gli hanno spiegato i suoi interlocutori locali, quelle rappresentazioni potevano «dare luogo a malintesi». Potevano cioè rivelare all’ignaro visitatore di Pechino e Hangzhou la mistificazione della storia ufficiale: nei manuali contemporanei infatti l’appartenenza del Tibet alla Cina viene fatta risalire molto più indietro, nientemeno che a Gengis Khan (XIII secolo). Per salvare l’esposizione Scartezzini ha dovuto fare ricorso alla stessa flessibilità di Matteo Ricci. Alcune carte “oscene” sono state rimosse. L’incidente politico è stato scongiurato. I curatori locali della mostra sono stati messi al riparo dalle sanzioni del regime.
Scartezzini ha avuto ragione a piegarsi. È importante che i cinesi possano vedere questa esposizione, sia pure senza le mappe-tabù. Anche dopo questo sacrificio di alcuni pezzi, Visioni del Celeste Impero rimane un’esposizione di straordinario valore. [...] Questi reperti rivelano l’eccezionale ruolo che svolsero i gesuiti - prima di essere a loro volta censurati dalla Chiesa romana - come mediatori culturali fra l’Occidente e la Terra di Mezzo. Furono quei missionari a farci conoscere per la prima volta una Cina reale, depurata dalle leggende dell’antichità greco-romana o dai racconti un po’ troppo favolosi di Marco Polo. E furono sempre loro, i gesuiti, a far conoscere ai cinesi una rappresentazione oggettiva del resto del mondo. La loro maestria consisteva nel fondere le metodologie scientifiche più avanzate dell’Europa, insieme con lo straordinario bagaglio di conoscenze che la Cina aveva sviluppato per conto suo. Massimo Quaini, geografo italiano dell’università di Genova, nell’introduzione al catalogo della mostra ricorda quale fu il vantaggio competitivo dei gesuiti, basato sulla loro capacità di dialogo con la cultura confuciana che gli aveva spalancato le porte dell’Impero celeste. «I gesuiti», scrive Quaini, «poterono beneficiare di circostanze eccezionali e del favore dell’imperatore Kangxi, che aprì ai missionari gli archivi di tutte le provincie e fece collaborare localmente i mandarini e i letterati».
[...] Il loro lavoro gli valse l’ammirazione di un filosofo non particolarmente tenero verso la Chiesa: Voltaire. Nella voce Geografia del suo Dizionario filosofico, Voltaire scrisse: «La Cina è il solo paese dell’Asia di cui si abbia una misura geografica, perché l’imperatore Kangxi impiegò i gesuiti astronomi per costruire delle carte esatte; ed è ciò che i gesuiti hanno saputo fare di meglio. Se si fossero limitati a misurare la Terra, non sarebbero stati proscritti sulla Terra». (L’avventura in Estremo Oriente dei gesuiti si concluse con una cocente sconfitta quando il Vaticano condannò la loro tolleranza per i «riti cinesi», una liturgia troppo liberamente adattata ai costumi del luogo). Quelle carte ebbero un ruolo cruciale in Europa. Divennero strumenti di lavoro indispensabili nelle grandi spedizioni marittime del Settecento. Aiutarono i mercanti inglesi, olandesi e francesi a orientarsi nelle terre che offrivano nuove opportunità di arricchimento. Contribuirono al dilagare di una vera e propria «sinomania», di cui sono rimaste tracce ben visibili nel gusto rococò per le cineserie. A partire dall’Illuminismo si diffuse nei nostri Paesi la convinzione che la Cina era una civiltà di grande valore. Voltaire la considerava superiore nell’arte del buongoverno, visto che l’Impero Celeste aveva creato la prima burocrazia statale selezionata con esami di Stato, secondo criteri meritrocratici.
I capolavori della cartografia non nascono per caso, sono il frutto di un metodo che contraddistingue i gesuiti dell’epoca. Consapevoli di avere a che fare con una società molto avanzata, e piuttosto refrattaria al proselitismo religioso, i missionari puntano a conquistarsi il rispetto della élite intellettuale che governa l’impero offrendo il meglio della cultura scientifica occidentale. Al tempo stesso fanno tesoro del patrimonio di conoscenze cinesi. Verso la cartografia infatti i Figli del Cielo hanno un grande rispetto. La considerano uno strumento essenziale per una buona amministrazione pubblica. Lo attesta il Documento sui riti della dinastia Zhou: «I direttori delle regioni sono incaricati delle carte dell’impero, sulla cui base sovrintendono alle terre dei diversi distretti. Il geografo reale ha la responsabilità delle carte dei circuiti provinciali. Quando l’imperatore compie un giro d’ispezione, il geografo cavalca accanto al veicolo imperiale per fornire spiegazioni sulle caratteristiche del Paese e sui suoi prodotti».
Il pioniere Matteo Ricci è il primo scienziato europeo a realizzare un planisfero del mondo con spiegazioni e didascalie in lingua cinese, una svolta storica che rappresenta un ponte fra le culture d’Occidente e d’Oriente. Dopo Ricci l’autore più importante per la nuova visione geo-cartografica del Celeste Impero è Martino Martini, gesuita di Trento che sbarca nella provincia dello Zhejiang nel 1643, in un’epoca di conflitto tra le dinastie Ming e Qing. Nel 1655 fa pubblicare ad Amsterdam il Novus Atlas Sinensis: 170 pagine di testo, 17 tavole, con le coordinate di 2.100 località cinesi. È un salto formidabile nella conoscenza della Terra di Mezzo. È Martini che corregge per la prima volta gli errori dei cartografi europei che collocavano la Grande Muraglia e Pechino sul 50° di latitudine nord, anziché al 39° 59’. Il Novus Atlas Sinensis calcola le distanze tra le città cinesi con una tale precisione, che in larga parte coincide con le mappe di oggi. L’opera di Martini confluisce poi nell’Atlas Maior, la più grande impresa editoriale del Seicento (dodici volumi, tremila pagine di testo e seicento tavole), strumento indispensabile per generazioni di mercanti e viaggiatori in Estremo Oriente. È uno choc per la coscienza europea: fa piazza pulita di tante leggende e mitologie che avevano condizionato l’approccio alla Cina.
Martini conclude il suo lavoro monumentale solo dopo avere perlustrato personalmente diverse regioni dell’Impero Celeste. [...] La modestia - e la prudenza diplomatica - gli consiglia di sorvolare sul fatto che la sua opera ha rivoluzionato la visione della realtà degli stessi cinesi. Tradizionalmente essi avevano raffigurato un mondo piatto sovrastato da un universo ricurvo. La superiorità della Terra di Mezzo (la loro) derivava proprio dal fatto che essa era fisicamente la più vicina alla convessità del cielo, ricavandone tutte le influenze benefiche, mentre i barbari delle periferie non avevano questo privilegio. L’epoca felice in cui i Figli del Cielo erano interessati al dialogo con i gesuiti è l’ultimo periodo di feconda apertura della Cina verso il mondo esterno. Poi verrà una lenta decadenza, alimentata da un senso di autosufficienza e di presuntuoso disinteresse verso i progressi dell’Occidente. [...]
Nel 1735 le ricerche dei gesuiti vengono incluse e aggiornate in un’altra opera grandiosa, la Description géographique de l’Empire de la Chine di Jean-Baptiste du Halde. Un’opera così voluminosa e costosa che in Europa a quei tempi ne vengono prodotte numerose edizioni-pirata. Viene citata nella Encyclopédie dell’Illuminismo. Servirà a guidare le missioni diplomatiche inglesi in Cina dell’ammiraglio Anson e dell’ambasciatore Macartney. Du Halde parla esplicitamente del «Regno del Tibet» come di un’entità ben distinta. In questo e in molti altri atlanti fino ai primi del Novecento appaiono come Stati indipendenti anche la Mongolia interna e il Turkestan orientale oggi ribattezzato Xinjiang: tutti ormai ridotti al rango di provincie della Repubblica popolare. I cui manuali di storia sono stati opportunamente riscritti per dimostrare la continuità della Cina nelle sue dimensioni “allargate” da tempi immemorabili. Quelle che furono autentiche civiltà, con storie e culture ben distinte, oggi devono accontentarsi dello statuto di minoranze etniche. [...]