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Petrolio e tassa etica

di Raffaele Ragni - 18/06/2008

 

Petrolio e tassa etica



Tra le tante promesse non mantenute da Romano Prodi, figura la Tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziare inserita nel programma dell’Unione su iniziativa della sinistra radicale e mai introdotta in due anni di malgoverno. Sarebbe stata una tassa etica, che prelevava risorse agli speculatori del mercato della moneta per destinarle ad iniziative sociali. Dello stesso tenore è la cosiddetta Robin Hood tax, proposta dal nuovo ministro dell’economia Giulio Tremonti. Essa colpisce un’altra categoria di speculatori, quelli del settore petrolifero, per ridistribuire ricchezza, in termini di alleggerimento della pressione fiscale ed erogazione di servizi, a vantaggio delle fasce più deboli della popolazione. Augurandoci che il governo Berlusconi voglia davvero togliere ai ricchi per dare ai poveri, è opportuno accennare all’evoluzione ed alla struttura attuale del settore petrolifero per spiegare come potrebbe funzionare la nuova tassa etica.
Nonostante lo sviluppo di metano e nucleare, il petrolio rimane la principale fonte energetica del nostro tempo. E’ un combustibile liquido, di natura fossile, costituito da una miscela di idrocarburi. Considerato tal quale, il petrolio greggio non ha impieghi pratici. Bisogna raffinarlo. I prodotti del processo di raffinazione - definiti prodotti petroliferi - vengono utilizzati come oli combustibili nella produzione di energia, come carburanti nei trasporti, come materia prima nella petrolchimica. L’industria petrolifera comprende l’insieme delle operazioni relative al processo di raffinazione, esattamente: ricerca ed estrazione, trasporto del greggio dai pozzi alle raffinerie, trasformazione in prodotti petroliferi.
Noto in Mesopotamia fin dal terzo millennio a.C. il petrolio affiorato spontaneamente dal sottosuolo era usato nell’antichità come medicamento e combustibile. Frazioni più pesanti, come il bitume, erano impiegate nel calafatare imbarcazioni e nel costruire condotte d’acqua. I primi a rinvenirlo nel sottosuolo furono i cinesi - nel secondo secolo a.C. - in pozzi scavati per l’estrazione del sale. La rivoluzione industriale, con l’aumentata richiesta di oli lubrificanti ed illuminanti, diede impulso a studi e ricerche per sostituire le risorse allora utilizzate - olio di balena ed oli vegetali - con altre più abbondanti e meno costose - petrolio, carboni bituminosi, scisti bituminosi.
La trivellazione del primo pozzo avvenne in Pennsylvania nel 1859. Fino alla prima guerra mondiale l’industria petrolifera si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti. I Paesi europei si rifornivano prevalentemente in Romania e Russia, dove nel 1901 il chimico Alfred Nobel ed il finanziere Rothschild avevano avviato lo sfruttamento dei primi pozzi. Dopo i ritrovamenti degli anni trenta nel Golfo Persico e nell’Africa settentrionale, prese avvio il processo di internazionalizzazione del settore. Grazie anche alla crescente domanda di carburante per i trasporti, in pochi anni il petrolio ha sostituito il carbone fossile come principale fonte energetica del mondo contemporaneo.
Sul mercato petrolifero, dal lato dell’offerta, intervengono tre categorie di operatori. In primo luogo le grandi compagnie multinazionali che, partendo dall’estrazione e dalla raffinazione del greggio, realizzano sia prodotti petroliferi che petrolchimici. Le più famose sono le cosiddette sette sorelle di madrepatria anglo-americana. In secondo luogo intervengono i governi dei Paesi produttori che, mentre in passato si limitavano a concedere alle multinazionali straniere lo sfruttamento dei giacimenti in cambio di royalties, a partire dagli anni sessanta hanno cominciato a nazionalizzare le attività di produzione mineraria o hanno assunto partecipazioni maggioritarie in società estrattive. In terzo luogo le raffinerie locali, che comprano il greggio dalle holding private o dalle compagnie statali, e realizzano prodotti petroliferi.
La prima grande compagnia petrolifera fu la Standard Oil Company, fondata da John Davison Rockefeller nel 1870, investendo il denaro accumulato con gli appalti di derrate all’esercito nordista durante la guerra civile. In dieci anni essa giunse a controllare il 90% dell’industria di raffinazione americana e nel 1892, in base alla legge antitrust, fu scissa in 33 società formalmente indipendenti. Le più importanti restarono la Standard Oil of New York (dal 1966 denominata Mobil), la Standard Oil of New Jersey (dal 1972 Exxon) e la Standard Oil of California (dal 1984 Chevron). Sempre negli Stati Uniti, nel 1901 nacque la Gulf Oil (acquisita nel 1984 dalla Chevron) e nel 1902 la Texas Fuel Company (dal 1959 Texaco).
Passando all’Europa, dalla fusione di una società inglese ed una olandese, sorse nel 1907 la Royal Dutch Shell. Due anni dopo fu costituita l’Anglo Persian Oil Company (dal 1954 British Petroleum). Queste compagnie - Mobil, Exxon, Chevron, Gulf, Texaco, Shell, BP - sono le cosiddette sette sorelle. Nel 1928, insieme alla francese CFP, siglarono due accordi - uno ufficiale ad Ostenda ed uno segreto ad Achnacarry - per dividersi le quote di mercato. Nel secondo dopoguerra alcuni tentativi di rompere l’oligopolio finirono tragicamente. Nel 1951 il governo iraniano guidato da Mossadeq nazionalizzò la Anglo Iranian (ex Anglo Persian), ma due anni dopo fu abbattuto da un sanguinoso colpo di Stato manovrato dalla Cia. Riavuti i pieni poteri, lo scià annullò la nazionalizzazione. Nella stessa epoca Enrico Mattei cercò di rafforzare la posizione dell’ENI, l’azienda di Stato italiana per il petrolio, trattando direttamente con i governi mediterranei e del medio oriente. Nel 1962 morì nell’esplosione del suo aereo diretto a Palermo.
Nel 1960 è stata creata la Organization of Petroleum Exporting Countries (OPEC), che raggruppa i principali Paesi produttori ed esportatori di petrolio estranei alla Triade, ed esattamente: Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ecuador, Indonesia, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Venezuela, Gabon. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, essa tenne a scacco l’occidente, quadruplicando il prezzo del petrolio come ritorsione per l’appoggio dato ad Israele in guerra contro i Paesi arabi confinanti. L’aumento della bolletta energetica e della conflittualità sociale determinarono un’inflazione da costi, che produsse un sensibile calo dei profitti e spinse le imprese europee a globalizzare la produzione.
Attualmente il mercato mondiale del petrolio è suddiviso, in base al tipo di contrattazione, in mercato ufficiale, mercato spot, mercato a termine. Le principali forme di mercato a termine sono il forward ed il futures. La quotazione viene fissata in base alla qualità o alla provenienza di alcune tipologie di riferimento definite markers. Fino al 1973, il prezzo di vendita del greggio sul mercato ufficiale era fissato dal governo del Paese produttore d’intesa con le sette sorelle. Dal 1974 venne fissato per la prima volta dall’OPEC. Contestualmente divenne operativo il mercato spot, che è basato sulla legge della domanda e dell’offerta. La piazza dove prese l’avvio fu Rotterdam, mentre attualmente i centri più importanti sono New York, Houston, Singapore, Tokio. Il suo funzionamento si avvicina a quello di una borsa merci, nel senso che i prezzi aumentano quando la domanda eccede l’offerta, e viceversa diminuiscono quando l’offerta eccede la domanda. La consegna avviene non oltre le 2-3 settimane dalla negoziazione. Gli scambi sul mercato spot aumentano nei momenti di incertezza. La speculazione gioca, su tutti i mercati, sulle oscillazioni di prezzo e sulle aspettative di rialzo o ribasso.
Il ministro Giulio Tremonti, nella lucidità analitica che lo caratterizza, ha più volte affermato la necessità di affrontare le crisi derivate da eventi speculativi, non solo nella loro dinamica globale, ma soprattutto nei riflessi locali. Ciò sembrerebbe delineare un nuovo ordine di priorità nella gestione dei problemi causati dalla speculazione: prima di pensare a come ristabilire i precari equilibri dell’economia globale, bisogna preoccuparsi di affrontare il deficit sociale prodotto dai suoi continui squilibri. In questa prospettiva le ragioni dei territori - Europa, Italia, regioni - dovrebbero prevalere sull’attuazione, non necessariamente condivisa, del progetto mondialista.
Considerate le recenti tensioni derivanti dall’aumento del prezzo del petrolio, che è legato dall’andamento del dollaro, giustamente si è deciso di colpire una speculazione bicefala, che lucra su un’industria a struttura oligopolistica e sui movimenti valutari che influenzano i prezzi di mercato e, di conseguenza, i profitti. Il dibattito sui contenuti della Robin Hood tax è ancora aperto. L’obiettivo è drenare risorse da un’oligarchia, quella dei petrolieri, allo Stato, e quindi al popolo, italiano. Alcuni propongono di intervenire nel segmento upstream, aumentando le royalties pagate dalle compagnie petrolifere che hanno stabilimenti produttivi in Italia. Sarebbe come imporre un diritto di estrazione, in aggiunta all’attuale 7% pagato come diritto di produzione, aliquota tra le più basse a livello mondiale. Altri sostengono la necessità di non trascurare anche il segmento downstream, cioè la raffinazione e la distribuzione.
La produzione italiana di petrolio è di circa 5 milioni di tonnellate annue che, ai valori attuali, è pari a 2,5 miliardi di Euro. Il 7% equivale ad appena 175 milioni annui. Affinché la tassa etica abbia efficacia, dovrebbe prevedere un’aliquota molto più alta di quella attuale, oppure bisognerebbe aumentare la produzione italiana puntando su potenzialità inutilizzate, come quelle dell’Adriatico. La seconda soluzione ci sembra la meno praticabile, sia per ragioni di impatto ambientale, sia perché – è bene rendersene conto – prima o poi il sistema economico dovrà fare a meno del petrolio come fonte energetica e puntare, non solo sul nucleare, ma anche su altre fonti rinnovabili: energia solare, energia eolica, riciclaggio dei rifiuti.
In questa prospettiva, oltre a tassare senza pietà i petrolieri, è ragionevole continuare a ridurre l’intensità petrolifera, che è il rapporto tra consumi di petrolio e prodotto interno lordo. Essa è effettivamente in calo per i Paesi OCSE fin dal 1978, mentre tende ad aumentare per i PVS. I Paesi industrialmente avanzati restano i maggiori utilizzatori di petrolio, assorbendo circa il 70% dei consumi mondiali, ma stanno accentuando il ricorso ad altre fonti energetiche. Questa politica viene perseguita sia per ridurre la dipendenza dal petrolio importato dal medio oriente, giacché ad ogni crisi internazionale si verifica un vuoto di offerta che ne fa aumentare il prezzo, sia per ridurre l’inquinamento ambientale. Infatti, almeno per quanto riguarda l’Europa, si ritiene che dal traffico stradale, che utilizza prodotti petroliferi come carburante per gli autoveicoli, provenga oltre la metà delle emissioni di ossidi di azoto e circa il 35% dei composti organici volatili.
Un impatto disastroso, anche per i cambiamenti climatici imputabili all’effetto serra.