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Ultime notizie dal mondo

di redazionale - 18/06/2008

 

a)   Eire. Sul Trattato di Lisbona il voto popolare sconfessa con il suo “no”, nel referendum del 12 giugno, i tre principali partiti irlandesi schierati per il “sì”. Dopo le bocciature nel referendum francese e olandese (2005) della Costituzione Europea, ora è la volta dell’Irlanda su una sostanziale riproposizione di quella Costituzione come Trattato di Lisbona. Le ragioni del “no” irlandese (13 e 14). Vedi anche Unione Europea 14.

 

b)   Libano. Dopo la conferenza inter-libanese di Doha (18 maggio), si sblocca la crisi (22 maggio): vittoria di fase della Resistenza. Chi è il nuovo presidente libanese Suleiman (26 maggio). Pare sbloccarsi anche la questione dello scambio prigionieri tra Hezbollah ed Israele (27 maggio e 2 giugno).

 

c)   USA / Iraq. La permanenza delle forze USA nel paese è in questo momento il vero punto di snodo della guerra irachena. Come Washington intende legalizzare l’occupazione con quella che chiama «alleanza strategica»: vedi il 7 e 12 giugno. Un’analisi dell’esperto di geopolitica, Anthony Cordesman, sul bilancio dell’amministrazione Bush in Medio Oriente (17 maggio). Crimini di guerra degli occupanti: la pratica detta “Drop Weapons” (11 giugno) nella denuncia di un documentario di Peacereporter. Gli effetti di chi le armi chimiche le ha usate e le usa davvero: a Fallujah alcuni anni dopo i bombardamenti USA al fosforo bianco e l’uso di munizioni all’uranio impoverito (14 giugno). Infine su al-Sadr (14 e 15 giugno).

 

Sparse ma significative:

 

· Israele / Palestina. Chi è l’attuale ministra israeliana degli Esteri, Tzipi Livni (2 giugno). Verso una tregua con Hamas? La dirigenza israeliana e l’esercito temono «un confronto militare duro e feroce» con la resistenza palestinese nella Striscia di Gaza (7, 11 e 15 giugno). Sull’ordinaria violenza colonica contro civili palestinesi, un video della BBC (9 giugno). Si riapre il dialogo al Fatah – Hamas? (cfr. 11 giugno). Il biglietto da visita del candidato democratico Barack Obama sulla questione palestinese (6 giugno).

 

· Iran. Stati Uniti e Israele stanno fabbricando un pretesto per cambiare regime a Teheran, proprio come hanno fatto a Baghdad. E colpiranno l’Iran senza prove. L’ONU sarà ancora una volta complice di questa spirale. A pensarla così è Scott Ritter, ex ispettore ONU in Iraq (dal 1991 al 1998). Vedi 15 giugno. La posizione di Mosca (1 giugno) e le spinte guerrafondaie di Israele (17 maggio e 8 giugno).

 

· India / Iran. «Correzione di rotta» della politica indiana nei confronti dell’Iran? (15 maggio)

 

· Afghanistan. Quali diritti umani a Baghram? Le corresponsabilità italiane (cfr. 18 maggio) e il suo servilismo (26 maggio e 11 giugno). Per restare in tema, un’occhiata anche a USA 10 e 14 giugno.

 

 

Tra l’altro:

 

Euskal Herria (16, 19 e 28 maggio).

Ecuador (22 maggio).

Gran Bretagna (12, 13, 14 giugno).

Germania (12 giugno).

Irlanda del Nord (24 maggio).

Serbia (29 maggio).

Kosovo (13, 15 giugno).

Russia / Georgia (7 giugno).

Russia / Ucraina (7 giugno).

Russia ( 7 giugno).

Sahara Occidentale (21 maggio).

Turchia (6 giugno).

Ucraina (6 giugno).

Afghanistan (15 giugno).

Francia / Libano (8 giugno).

Iraq (10 maggio).

Repubblica Ceca (10 giugno).

Libia / Francia (10 giugno).

Colombia (25 e 30 maggio, 6 giugno).

 

 

  • India / Iran. 15 maggio. «Correzione di rotta» della politica indiana nei confronti dell’Iran. Così scrive M.K. Bhadrakumar su The Hindu il 10 maggio scorso. La pur breve visita in India del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad «è stata determinante». Innanzitutto «segnala il desiderio dell’Iran di incentivare i propri legami con l’India e sottolinea la nostra decisione di porre fine ad un infelice interregno caratterizzato da una visione neoconservatrice dell’Iran filtrata attraverso il prisma della nostra “alleanza di valori” con gli Stati Uniti». «Lo stratagemma statunitense volto a isolare l’Iran si è dimostrato inefficace», scrive Bhadrakumar. «I regimi arabi “filoamericani” hanno cercato un accordo con l’Iran. La Turchia collabora con l’Iran sulle questioni della sicurezza regionale. L’Iran ha sventato i tentativi americani di provocare un cambio di regime a Teheran. Nel frattempo la posizione difficile degli Stati Uniti in Iraq ha aumentato l’influenza dell’Iran nella regione. Nuova Delhi ha dunque valutato bene la correlazione tra le forze nella regione». In secondo luogo la visita di Ahmadinejad ha sancito il riconoscimento di Nuova Delhi della “fattibilità” del progetto del gasdotto iraniano. E’ da ritenere che l’accordo LNG [per l’importazione di gas naturale liquefatto, ndr] con l’Iran, accordo che ha un ruolo cruciale nel dare slancio alla cooperazione indo-iraniana, sia ancora realizzabile e che incentiverà l’espansione della cooperazione economica bilaterale. Bhadrakumar è perentorio in tal senso: la cooperazione indo-iraniana si trova a un punto di svolta.


  • India / Iran. 15 maggio. Il progetto del gasdotto tra Iran, Pakistan e India (IPI) ha le potenzialità per essere uno strumento di costruzione della fiducia tra i tre paesi. Lo ha detto il ministro degli esteri indiano, Shiv Shankar Menon, al termine dei colloqui con Ahmadinejad. E c’è chi pensa, a Nuova Delhi, che l’India debba sfruttare il suo ruolo di paese di transito per l’energia e rivedere la propria politica per l’Asia Centrale non più come un’appendice della strategia per la “Grande Asia Centrale” degli Stati Uniti. La SCO (Shanghai Cooperation Organisation, organismo creato nel 2001 per offrire ai paesi della regione una sponda alternativa a quella americano-occidentale: al suo interno, anno dopo anno il ruolo cinese è andato crescendo in proporzione alla potenza economica di Pechino e alla sua capacità di investitore internazionale) ha guadagnato una notevole forza di attrazione. Ucraina, Bielorussia, Nepal, Sri Lanka, Australia e Nuova Zelanda, tra gli altri, fanno la fila per instaurare legami con la SCO. La Turchia mira a farne parte. L’Iran e il Pakistan, che hanno già lo status di “osservatori”, sono interessati a diventarne membri a tutti gli effetti. L’Afghanistan potrebbe diventare il fulcro dei collegamenti della SCO. Una ricaduta politica potrebbe essere un’iniziativa regionale sotto gli aspici della SCO per stabilizzare la situazione afghana. Bhadrakumar, nel su citato articolo, scrive al riguardo: «È spaventoso che gli Stati della regione abbiano lasciato che gli Stati Uniti trasformassero l’Afghanistan in un laboratorio per testare l’efficienza della NATO» e perora la necessità «che si abbandonino [a Nuova Delhi, ndr] le ossessioni “euro-atlantiste” e ci si concentri invece sulla regione nella quale viviamo».


  • USA / Asia centrale. 15 maggio. Preoccupazione a Washington per il controllo dell’energia in Asia. I paesi centro-asiatici produttori di gas –Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan– si sono accordati per passare ai prezzi europei nei loro contratti con la russa Gazprom. Di recente l’Iran ha chiesto formalmente di aderire alla Shanghai Cooperation Organisation (forum regionale che riunisce Russia, Cina e le ex-repubbliche sovietiche Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tagikistan e Uzbekistan) e ha inoltre preso l’iniziativa di creare un cartello di paesi produttori di gas sul modello dell’OPEC. Lo scenario peggiore per gli Stati Uniti è che l’Iran e la Russia finiscano con l’accordarsi per coordinare le proprie politiche energetiche e magari dividersi il mercato del gas, mettendo così fortemente in discussione il ruolo di leader transatlantico, nella regione, degli Stati Uniti.

 

  • Euskal Herria. 16 maggio. ETA ha rivendicato ieri la paternità degli ordigni fatti esplodere tre giorni fa nel cantiere per la costruzione della tratta della linea ferroviaria ad alta velocità che unirà le città basche di Bilbao, San Sebastian e Vitoria. L’attacco, effettuato nella città di Hernani, non ha causato alcun ferito.

 

  • Israele. 17 maggio. Settori israeliani premono per la guerra all’Iran prima della scadenza del mandato di Bush (gennaio 2009). Ieri è stata la volta del capo dei servizi segreti militari israeliani, Amos Yadlin. Intervistato dal quotidiano Haaretz, ha descritto gli «scenari apocalittici» che attenderebbero Israele se non si riuscirà a trasformare il Medio Oriente ora dominato dall’Iran e dai suoi alleati. Servono nuove guerre, ha detto, pochi giorni dopo che il presidente statunitense, George Bush,  ha riaffermato l’alleanza di ferro con Tel Aviv. Secondo Amos Yadlin, l’Iran diventerà una potenza nucleare forte già all’inizio del prossimo decennio, con missili a testata nucleare capaci di colpire l’Europa e anche oltre l’Oceano Atlantico. La Siria produce missili antiaerei, razzi anticarro e missili di lunga gittata. Hezbollah da esercito «terroristico» sta diventando un esercito convenzionale. Hamas sta organizzando a Gaza un esercito vero e proprio, capace di colpire in profondità le retrovie israeliane. E nell’elenco delle sciagure c’è pure l’Autorità Palestinese di Abu Mazen: il fallimento dei negoziati porterà alla terza Intifada. La soluzione per tutto ciò è la guerra all’Iran.

 

  • USA. 17 maggio. Il bilancio dell’amministrazione Bush in Medio Oriente? «Fallimentare». Lo sostiene l’esperto di geopolitica, Anthony Cordesman, esperto di Iraq presso il Center for Strategic and International Studies. Ne parla mentre l’uscente presidente statunitense è impegnato in una serie di incontri nell’area. Predominano i fattori negativi che hanno accresciuto la già diffusa ostilità delle popolazioni nei confronti degli Stati Uniti. Cordesman richiama la serie di fallimenti della diplomazia estera statunitense nella regione: la guerra in Libano nel 2006, la presa del controllo di Gaza da parte di Hamas, il rafforzamento del potere dell’Iran e l’impatto della guerra dell’Iraq. «Un’eredità che riceverà il prossimo presidente», aggiunge. I critici di Bush aggiungono l’allontanamento di una gran parte dei musulmani dalle tesi degli Stati Uniti, la perdita di influenza di Washington nell’area, un appoggio tardivo alle negoziazioni tra Israele e l’Autorità Palestinese, le conseguenze dell’atteggiamento ostile verso colloqui con Iran o Siria e gli scarsi progressi democratici che hanno realizzato sauditi ed egiziani, alleati degli Stati Uniti. Il consigliere di Bush alla sicurezza nazionale, Stephen Hadley, si è visto obbligato a smentire le accuse che la sicurezza dell’alleato israeliano sia la più fragile da alcuni anni a questa parte.

 

  • Libano. 18 maggio. Hezbollah afferma a Doha che il suo disarmo non è negoziabile. Un’accesa discussione sulle armi di Hezbollah ha minacciato di affondare sul nascere la Conferenza inter-libanese in Qatar. Il responsabile del gruppo parlamentare di Hezbollah, Mohamad Raad, è stato però perentorio, pur ribadendo l’atteggiamento di disponibilità al confronto su qualunque altro tema: le armi della resistenza non si toccano. L’argomento (il principale sul tappeto) è stato quindi accantonato per far proseguire il negoziato. Nella capitale qatariota da venerdì è in corso un tavolo di dialogo tra tutte le fazioni libanesi, tavolo voluto dalla Lega Araba, per arrivare ad un accordo sulla legge elettorale e sulla formazione di un governo di unità. Un fragile accordo ha recentemente posto fine al conflitto tra il gruppo sciita e il governo filo-USA di Siniora, che ha dovuto rimangiarsi la decisione di «spegnere» la rete di comunicazioni autonoma di Hezbollah che è stata decisiva nel respingere l’aggressione israeliana dell’agosto 2006.

 

  • Afghanistan. 18 maggio. Costerà circa 60 milioni di dollari la nuova prigione di massima sicurezza che verrà costruita nella base militare USA di Baghram (quaranta miglia a nord di Kabul). Lo ha rivelato ieri il New York Times e il Pentagono lo ha confermato tramite un suo portavoce, il tenente colonnello Mark Wright. Per ammissione delle stesse autorità nordamericane, a causa dell’esposizione ai metalli pesanti e all’amianto vi sarebbero seri rischi sanitari sia per i detenuti che per i militari statunitensi che lavorano a Bagram. Nei piani del Pentagono il supercarcere ospiterà 1100 prigionieri. Gli USA sono decisi a restare nel paese per anni e a mantenere le loro carceri all’estero. Baghram è una prigione inavvicinabile impossibile da fotografare anche da lontano. Nel gennaio 2008, sempre il New York Times rivelava che, nella primavera del 2007, una commissione internazionale della Croce Rossa aveva rivolto un esposto riservato all’amministrazione statunitense, denunciando le condizioni crudeli e l’isolamento in cui venivano tenuti i prigionieri in aperta violazione alle convenzioni di Ginevra. Parte di quei 60 milioni di dollari, come rivelato nel 2006 dal Financial Time, sono soldi dell’Unione Europea.

  • Afghanistan. 18 maggio. La nuova «Guantanamo afghana» serve a scaricare «rogne» e responsabilità su Kabul. Di fronte all’indignazione del mondo per le torture dei militari USA ai prigionieri di Guantanamo, Baghram, Abu Ghraib e altri centri di detenzione, Washington sta cercando, dove possibile, di consegnare formalmente i prigionieri alle “autorità” nazionali per isolarli da occhi indiscreti più di quanto già adesso avviene. Così, quando verranno alla luce altre prove di torture, saranno queste a risponderne. Allo stesso tempo i prigionieri continuano ad essere in mani statunitensi. Il servilismo bipartisan dell’Italia è quindi ancora più grave. Nella ripartizione dei compiti per garantire la «sicurezza interna» dell’Afghanistan sono stati individuati cinque «pilastri prioritari» attribuiti ad altrettante «nazioni guida»: l’esercito è affidato agli USA, la polizia alla Germania, l’anti-narcotici alla Gran Bretagna, il disarmo delle milizie parallele al Giappone, la giustizia all’Italia (che già avalla la condanna a morte di giornalisti accusati di apostasia). Già nel 2003, sotto il governo Berlusconi, venne costituito «l’Ufficio italiano giustizia» per il «ripristino di un’efficace amministrazione giudiziaria», attraverso la «costruzione o riabilitazione di infrastrutture: tribunali, uffici, prigioni». Rientra in tale quadro la costruzione di altre carceri «per migliorare le condizioni di vita dei detenuti». L’impegno al «programma giustizia» è stato confermato dal governo Prodi, come anche da conferenza intergovernativa di Roma del 2007, «fornendo (parole dell’allora sottosegretario agli esteri Gianni Vernetti, ndr) un contributo concreto non solo in termini di uffici del ministero, ma anche di tribunali, procure e carceri; a questo si aggiunga la formazione di 2.000 operatori della giustizia: giudici, procuratori, avvocati, operatori penitenziari». Resta da vedere quanto questi «operatori di giustizia» operino per la giustizia. E quale sistema di giustizia possa essere costruito da chi, dopo aver occupato il paese, gli detta le norme di diritto che esso deve seguire. Una cosa è certa: la costruzione di nuove carceri, finanziata finora anche dall’Italia, è servita e serve. Soprattutto agli Stati Uniti.

 

  • Afghanistan. 18 maggio. Una ricerca condotta, nel marzo scorso, dalla ong Oxfam per conto di Acbar (Agency Coordinating Body for Afghan Relief), l’Agenzia di coordinamento degli aiuti allo sviluppo in Afghanistan che riunisce 94 agenzie umanitarie operanti su quel territorio, aveva rivelato la «farsa degli aiuti umanitari alla ricostruzione» in Afghanistan. I soldi destinati alla ricostruzione –aveva rivelato la ricerca– anziché a risolvere i problemi basilari della popolazione, servono al conflitto e agli obiettivi militari. Dalla fine del 2001, da quando il regime dei talebani fu rovesciato dalla coalizione a guida USA, i fondi per la ricostruzione sono solo una «frazione» delle spese militari, ben più consistenti: 25 i miliardi di dollari destinati a rafforzare la sicurezza. E da allora, la spesa dei militari USA in Afghanistan è di circa 100 milioni di dollari al giorno.

 

  • Euskal Herria. 19 maggio. Un’intervista di El Pais all’ultra ottantenne Andres Casiniello collega ieri all’oggi. Casiniello è accreditato come «il capo dei GAL (Gruppi Antiterroristi di Liberazione, ndr)», anche se lui dice al giornalista che gliene chiede conferma: «Se lei lo sapesse davvero, la sua vita non varrebbe due pesetas». I GAL erano commando di mercenari controllati dalla Guardia Civil e pagati con i fondi neri del ministero dell’interno. Almeno sette anni di omicidi (1982-89) nelle provincie basche contro militanti nazionalisti di Herri Batasuna, rifugiati, militanti di ETA. Oggi la guerra sucia, la guerra sporca, contro il nazionalismo patriottico radicale e di sinistra è portata avanti con lo strumento giuridico-politico. Lo dicono importanti testimonianze di parlamentari, europarlamentari, giornalisti e soprattutto avvocati stranieri che monitorano la situazione dei diritti umani nei Paesi Baschi. Il governo centrale, al secondo mandato di Zapatero, ha scelto la linea dura, incassando l’appoggio della destra di Mariano Rajoy. Casiniello conosce la melma storica degli accordi e delle violenze di Stato e così risponde al giornalista sul futuro dei negoziati fra governo ed ETA: «Sospetto che sempre ci sia un segreto che non si deve raccontare. Sempre si è parlato con ETA, e mi sembrerebbe assurdo che non lo si facesse. E’ un obbligo. La pace è da ricercare sempre, non a qualunque costo, ma si deve cercarla». E aggiunge: «C’era un foglietto, da qualche parte, molto curioso delle guerre carliste, dove si diceva che avevano provato di tutto [con i baschi, ndr]: a incarcerarli, amnistiarli, mantenere il loro grado militare. Ma nonostante tutto il conflitto proseguiva. Questo diceva il foglietto. Bisogna continuare a provare».

 

  • Sahara Occidentale. 21 maggio. Iniziate ieri le celebrazioni del 35° anniversario dell’inizio della lotta armata del Fronte Polisario con un sfilata militare a Tifariti. Circa 300 rappresentanti di Spagna, Cuba, Venezuela, Algeria, Italia, Svizzera, Francia, Russia, Africa e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina hanno assistito alla cerimonia. La sfilata è stata aperta da unità di militari su cammelli, alcuni dei quali partecipanti ai combattimenti degli anni Settanta. Poi una brigata di circa 2mila uomini che inalberavano la bandiera saharawi e scandivano frasi sulla fedeltà alla patria e la loro disposizione a morire per l’indipendenza. Quindi hanno sfilato unità formate da donne. «Il Marocco deve arrendersi all’evidenza e comprendere che l’unica soluzione è l’autodeterminazione», ha detto il primo ministro della RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica), Abdelkader Taleb Omar.

 

  • Libano. 22 maggio. Si sblocca la crisi libanese. Hezbollah e i suoi alleati otterranno undici ministeri (16 dicasteri andranno all’attuale maggioranza, tre verranno assegnati dal capo dello Stato). La legge elettorale sarà inoltre emendata e quindi riequilibrata, soprattutto nelle dimensioni delle circoscrizioni, proprio come chiedeva l’opposizione. Particolarmente si avrà una nuova modifica delle tre circoscrizioni di Beirut. Hezbollah da molto tempo denuncia una discriminazione elettorale. I 19 seggi (su un totale di 128) che si eleggono nella capitale sono cruciali per ottenere la maggioranza in Parlamento. Le parti hanno per ora concordato di far ricorso alla legge elettorale del 1960, con alcune variazioni, per le legislative in programma nella primavera del 2009. Come contropartita, tutte le parti si impegnano a non rassegnare le dimissioni. Si sblocca anche l’elezione del presidente della repubblica. Il generale (considerato «amico» di Hezbollah) Michel Suleiman, 59 anni, attuale comandante dell’esercito, che non è certo noto come un antisiriano e un anti-iraniano, sarà eletto domenica dal Parlamento. Candidato di consenso nazionale ma più gradito all’opposizione, il capo delle Forze Armate ha avuto il pregio di riuscire a conservare l’unità delle truppe e tenerle lontano dalle lotte di potere e dagli scontri armati tra le fazioni. «Coinvolgere l’esercito nei disordini interni servirebbe soltanto agli interessi d’Israele», ha sostenuto Suleiman divenuto molto popolare dopo i combattimenti contro il gruppo qaedista Fatah al-Islam dello scorso anno. L’opposizione guidata da Hezbollah avrà un potere di veto su sicurezza e politica estera. Se per la resistenza libanese è una vittoria seppure incompleta, a risultare sconfitti –certamente in questo passaggio– sono il primo ministro Siniora e Washington. Ieri nel centro di Beirut, tra manifestazioni spontanee di giubilo, gli attivisti dell’opposizione hanno smontato il campo di 600 tende che tenevano dal primo dicembre 2006 per chiedere le dimissioni del governo Siniora. Una protesta –contro l’illegittimità e l’illegalità del governo Siniora– che, seppur oscurata, silenziata, dalla grancassa massmediatica internazionale dominante, alla fine ha vinto. Siniora lascia dopo averlo evitato sino all’ultimo sotto le pressioni del suo sponsor politico, Saad Hariri, leader sunnita del partito di maggioranza Mustaqbal, a sua volta condizionato fortemente dal leader druso Walid Jumblatt divenuto in questi ultimi anni il più convinto alleato degli USA.

 

  • Ecuador. 22 maggio. Il ministro per la sicurezza ecuadoriano, Gustavo Larrea, non esclude la possibilità che gli USA abbiano avuto un ruolo diretto nell’attacco militare colombiano ad una base delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), in territorio ecuadoriano, il 1° marzo scorso. Allora rimase ucciso, fra gli altri, il n.2 delle FARC, Raul Reyes. Larrea lo ha dichiarato ieri. L’ipotesi di un coinvolgimento dei militari statunitensi di stanza, in Ecuador, nella base statunitense di Manta era stata avanzata già alcune settimane fa.

  • Irlanda del Nord. 24 maggio. Omaggio, oggi, a Brian Keenan, dirigente storico dell’IRA. L’omaggio repubblicano a colui che fu dirigente dell’IRA, morto martedì per cancro, si concluderà in giornata a Belfast. Oggi, il presidente del Sinn Féin, Gerry Adams, gli ha reso omaggio a Belfast Ovest. Presenti la moglie, i suoi sei figli e nipoti. Alla cerimonia i membri del movimento repubblicano hanno indossato una camicia bianca, e cravatta e pantaloni neri per evidenziare la solennità del commiato da un uomo che il governo britannico definì «la più grande minaccia per lo Stato britannico». L’omaggio a Brian Keenan può essere paragonato solo a quello organizzato per altre figure storiche repubblicane, come i dieci scioperanti della fame e, più recentemente, Joe Cahill. L’ex dirigente dell’organizzazione armata repubblicana fu uno dei principali strateghi dell’IRA durante le tre decadi del conflitto. Durante la sua lunga infermità, Keenan fu una delle figure chiave, nell’ombra, del processo di pace, da lui sostenuto e al quale ha partecipato come mediatore tra IRA e Commissione di Messa Fuori Uso delle Armi.

 

  • Colombia. 25 maggio. Le FARC confermano la morte di Marulanda, con un comunicato diffuso attraverso Telesur. Il loro massimo dirigente, Manuel Marulanda Tirofijo, scrivono, è stato stroncato il 26 marzo da un infarto. La scomparsa di Marulanda costituisce un grave colpo per le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), già messe in crisi da una serie di perdite: la morte di altri due membri della direzione, Raúl Reyes e Iván Ríos, e la resa, il 18 maggio, della comandante Karina. La formazione guerrigliera ha già designato il successore: è Alfonso Cano (il suo vero nome è Guillermo León Sáenz Vargas), considerato molto vicino a Marulanda, ma privo, secondo alcuni, della sua capacità organizzativa. Il governo ha intanto messo in campo una nuova strategia verso gli oppositori politici. Dopo essersi sbarazzato –spedendoli negli Stati Uniti– dei compromettenti capi paramilitari, che rischiavano di coinvolgerlo nello scandalo della parapolitica, Uribe ha lanciato quella che è già stata definita “farcpolitica”. Il procuratore generale Mario Iguarán ha annunciato l’altroieri un’inchiesta su parlamentari, giornalisti e attivisti sociali colombiani e stranieri, accusati di legami con le FARC. Tra gli indagati: la senatrice dell’opposizione Piedad Córdoba, mediatrice per la liberazione degli ostaggi; il giornalista di Telesur William Parra; i parlamentari del Polo Democrático Wilson Borja e Gloria Inés; gli ecuadoriani Iván Marcelo Larrea, fratello del ministro della Sicurezza di Quito Gustavo Larrea, e María Augusta Calle, membro dell’Assemblea Costituente.

 

  • Italia. 26 maggio. Servilismo bipartisan dell’Italia agli USA. Dopo il governo Prodi, anche quello Berlusconi è prone a Washington e annuncia maggiore flessibilità nei teatri di guerra. In Afghanistan saranno ridotti in maniera significativa i tempi di risposta a richieste della NATO/USA di impiego dei militari italiani al di fuori della regione di Kabul e di quella occidentale. Lo hanno detto oggi a Bruxelles i ministri degli Esteri e della Difesa, Franco Frattini e Ignazio La Russa. Attualmente i militari italiani possono uscire dalla regione di Kabul e da quella occidentale solo su richiesta degli alleati in casi di emergenza, sui quali il governo ha 72 ore di tempo per pronunciarsi. Il governo Berlusconi vorrebbe ora portarle a 6. E’ quel che da mesi chiedevano USA e NATO. Passare da 72 a 6 ore per una risposta potrebbe significare una maggiore operatività in teatri di guerra veri e propri, come il sud del Paese. L’Italia ha circa 2.700 militari in Afghanistan inquadrati nella missione ISAF della NATO. Dodici militari italiani sono morti nel paese dal 2004, ma il maggior numero di perdite lo hanno subìto i contingenti impegnati nel sud-est del paese –statunitense, britannico, canadese, olandese– dove è più forte la guerriglia degli insorti talebani.

 

  • Libano. 26 maggio. Suleiman chiede «unità» dopo aver giurato come presidente del Libano. Michel Suleiman ha sottolineato la necessità di «riattivare le istituzioni del paese per il bene della patria» e assicurato che si attiverà per una nuova legge elettorale come chiede da tempo Hezbollah. Nel suo discorso di investitura ha auspicato «il rafforzamento delle relazioni fraterne tra Libano e Siria, basate sul mutuo rispetto della sovranità e delle frontiere di ciascun paese». Ha promesso di difendere la Costituzione, la sovranità e l’indipendenza. Ha aggiunto che le armi devono essere impiegate solo contro i «nemici» del Libano. Dopo aver salutato il ruolo della resistenza, con allusione ad Hezbollah, nella lotta contro Israele, ha invitato questa forza politico/militare a «non utilizzare il reddito dei suoi successi in conflitti interni». Ha quindi rimarcato la necessità di stabilire una strategia di difesa per far fronte alle violazioni del territorio da parte di Israele e liberare le Fattorie di Shebaa. Ha dichiarato che l’atteggiamento israeliano «ci obbliga ad adottare una strategia per proteggere la patria».

 

  • Libano. 26 maggio. L’elezione di Suleiman è stata preceduta da un convulso scenario politico, in particolare, da uno sciopero generale e dalla presa del controllo di gran parte di Beirut da parte di Hezbollah, che era arrivata a bloccare gli accessi all’aeroporto internazionale. Hezbollah esigeva dal governo di Fouad Siniora che ritirasse le misure varate contro il suo sistema di telecomunicazioni risultato decisivo nella resistenza all’aggressione israeliana dell’agosto 2006. Il provvedimento rifletteva i desiderata di Israele e USA. L’Esercito libanese si mantenne di fatto fuori dagli scontri.

 

  • Libano. 27 maggio. Israele ed Hezbollah si accordano per uno scambio di prigionieri da concludere nell’arco di un mese. In virtù di questo accordo, secondo la radio militare israeliana, la milizia libanese consegnerà Ehud Goldwasser e Eldad Regev, i due soldatti catturati il 12 luglio 2006, in cambio della liberazione di quattro membri di Hezbollah e di Samir Kuntar, del Fronte di Liberazione della Palestina (FLP), condannato nel 1980 a 542 anni di carcere da Israele. Il massimo dirigente di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha annunciato ieri, nel corso di una manifestazione a Beirut, la possibilità di questo scambio di prigionieri. «Samir Kuntar [il prigioniero libanese da più tempo nelle carceri israeliane, ndr] ed i suoi fratelli saranno presto tra noi», ha detto. L’ultimo scambio di prigionieri ebbe luogo nell’ottobre 2007. Hezbollah ha spesso catturato militari israeliani per ottenere la liberazione di combattenti della resistenza o anche di civili sequestrati dagli israeliani.

 

  • Euskal Herria. 28 maggio. Il governo autonomo del Paese Basco vuol tenere ad ottobre un referendum sulla fine della violenza e sul «diritto a decidere» dei baschi. Il capo dell’esecutivo basco, Juan José Ibarretxe, ha detto che la sua compagine ha approvato oggi il progetto, che sarà sottoposto al voto del Parlamento basco alla fine di giugno. Il premier socialista spagnolo, Jose Luis Rodriguez Zapatero, contesta l’iniziativa. La sinistra patriottica basca ha criticato l’atteggiamento di PNV e PSOE di «ingannare le ansie maggioritarie in questo popolo di un cambio politico con una semplice riforma statutaria» e assicurato l’impegno ad illustrare la sua Proposta di Quadro Democratico «in tutti gli angoli di Euskal Herria». Secondo i rappresentanti abertzale, «la situazione di divisione, negazione e sottomissione che vive Euskal Herria» potrà essere superata solo «superando i limiti che ci impone la Costituzione e l’attuale quadro che ci divide e che ci fa essere sottomessi allo Stato spagnolo». Per questo, sostiene la sinistra patriottica, «Euskal Herria deve godere del diritto di autodeterminazione e potersi articolare come soggetto decisorio». Rinnovato l’invito ai due partiti (PNV e PSOE) «a muoversi verso questo quadro democratico in maniera consensuale per la possibile risoluzione definitiva del conflitto, dando risposta ai due nodi: la territorialità ed il diritto a decidere». Finora PNV e PSOE hanno risposto negativamente a tutte le proposte della sinistra abertzale. Il PSOE punta ad un nuovo accordo di riforma statutaria. L’obiettivo finale del progetto abertzale è invece costruire «uno Stato basco indipendente per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo di Euskal Herria, per materializzare i diritti dei cittadini baschi e per mettere in atto il modello sociale che questo popolo decida».

 

  • Serbia. 29 maggio. A Belgrado prove generali per nuovi scenari politici. Il Partito Democratico di Serbia (DSS) del primo ministro uscente Vojislav Kostunica, il Partito Socialista di Serbia (SPS), del defunto Slobodan Milosevic, ed il Partito Radicale (SRS) di Vojislav Seselj, presidente onorifico del partito che attualmente è giudicato a L’Aja per crimini di guerra, hanno sottoscritto un accordo per governare congiuntamente il municipio di Belgrado. Hanno i numeri, in termini di seggi ottenuti, per poterlo fare. Il patto potrebbe precorrere un accordo simile per l’esecutivo centrale, dopo le elezioni locali e legislative dello scorso 11 maggio, in cui la lista più votata è stata quella del Partito Democratico del presidente Boris Tadic, che però non ha raggiunto la maggioranza sufficiente per governare in solitario. Il segretario generale del SRS, Aleksandar Vucic, sarà il nuovo sindaco di Belgrado. Per Dragoljub Micunovic, alto responsabile del DS, questo patto «non durerà molto tempo perché tutto dipende dall’accordo per formare il governo a livello della Repubblica».

 

  • Colombia. 30 maggio. Karina (FARC) si consegnò dopo essere stata minacciata dell’assassinio della figlia. La guerriglia dell’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale) ha denunciato che la comandante guerrigliera Karina, icona del fronte 47 delle FARC, «fu indotta ad arrendersi con la minaccia che, se non si fosse consegnata, il DAS avrebbe eliminato sua figlia». I servizi segreti colombiani (DAS) mantengono sotto il proprio controllo la figlia. L’informazione è stata pubblicata su Insurrezione e raccolta dal sito Rebelión. L’ELN ricorda che nella decade scorsa l’apparato oligarchico colombiano si è servito dei familiari dei dirigenti rivoluzionari per esercitare su di questi pressioni. L’informazione include tra i «minacciati, sequestrati, assassinati e scomparsi» familiari dei dirigenti delle FARC quali Alfonso Cano –che ha sostituito alla direzione Manuel Marulanda–, Iván Márquez e Pablo Catacumbo.

 

  • Russia / Iran. 1 giugno. Per Putin non ci sono nemmeno indizi che l’Iran intenda dotarsi di un’arma nucleare. Il primo ministro russo, Vladimir Putin, ha dichiarato che «nulla indica» che l’Iran stia cercando di dotarsi di armi nucleari e che, al momento, questo paese non ha violato alcunché «sul piano giuridico». Gli iraniani sono «un popolo orgoglioso, che vuole godere della sua indipendenza ed utilizzare il suo diritto legittimo» all’energia nucleare civile, ha detto Putin. Fonti del governo iraniano hanno ieri assicurato che l’ultimo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) dice chiaramente che l’Iran ha sviluppato le sue attività nucleari con fini pacifici sotto la totale supervisione di questo organismo.

 

  • Libano / Israele. 2 giugno. Israele libera un prigioniero di Hezbollah in cambio di soldati morti nel 2006. Una settimana fa il massimo dirigente di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva annunciato l’imminente liberazione di prigionieri libanesi come parte di negoziazioni segrete di scambio con Israele. Ieri la prima scarcerazione, quella di Nassim Nissir, prigioniero dal 2002 per «spionaggio» e «collaborazione» con la resistenza nazionale di Hezbollah. Quest’ultima ha, da parte sua, consegnato al Comitato Internazionale della Croce Rossa una bara con i resti di soldati israeliani morti in Libano nella guerra del 2006. Per il responsabile della diplomazia tedesca, Frank Walter Steinmeier, il cui paese ha mediato nelle negoziazioni, si tratta di un passo positivo per un ulteriore scambio di prigionieri. Non è la prima volta che la Germania funge da paese mediatore tra Israele ed Hezbollah. Nel gennaio 2004 si ottenne la messa in libertà di 400 prigionieri libanesi ed arabi come contropartita alla consegna di resti di tre soldati isareliani e di un israeliano tacciato di «spia» da Hezbollah.

 

  • Libano / Israele. 2 giugno. Ieri, alla manifestazione indetta da Hezbollah, in moltissimi hanno accolto Nissir, nato in Libano che abbandonò nel 1982 per rifugiarsi con la madre, di nazionalità isareliana, vicino Tel Aviv. Suo fratello Mohammed ha detto che, prima della sua scarcerazione, è stato trasferito in una cella d’isolamento per «indurlo ad abbandonare la sua volontà di tornare in Libano con le figlie, di nazionalità israeliana». Abbracciato da sua madre, Nissir ha espresso il suo ringraziamento a Nasrallah e a «tutto il Libano». A nome di Hezbollah, Nabil Kawouk ha assicurato che, nonostante la «situazione interna [del paese, ndr], Hezbollah non dimentica la questione dei prigionieri. Non ci sarà sovranità, libertà e dignità totale per il Libano finché ci sarà un solo libanese nelle carceri israeliane».

 

  • Israele. 2 giugno. Da agente segreta del Mossad a ministra degli Esteri. Il quotidiano britannico The Sunday Times svela chi sia l’attuale ministra israeliana degli Esteri, favorita per succedere ad Olmert come primo ministro. Tzipi Livni lavorò negli anni Ottanta per il Mossad. Dalla sua destinazione a Parigi si mosse in lungo e in largo per l’Europa in caccia degli attivisti dell’OLP. Suoi antichi compagni dei servizi assicurano che era in servizio attivo quando nel 1983 il Mossad assassinò Mamoun Meraish ad Atene. «Non era una ragazza d’ufficio. Era intelligente, con un coefficiente intellettuale di 150. Si muoveva molto bene per le capitali europee lavorando con agenti maschi, la maggior parte dei quali esperti membri di commando, per assassinare “terroristi arabi”», afferma un ex compagno di Livni, che presentò le sue dimissioni poco dopo l’uccisione di Meraish. La sua attuale capo di gabinetto, Mira Gal, ha sottolineato che «se saltasse fuori che ha commesso qualche errore, il risultato sarebbero l’arresto e conseguenze politiche catastrofiche per Israele. Il rischio è palpabile».

 

  • Turchia. 6 giugno. Dopo il velo, ora tocca all’Akp. Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha convocato oggi i vertici del suo partito per una riunione straordinaria dopo che la corte costituzionale ha bocciato la legge che eliminava il divieto di indossare il velo nelle università. Nel difendere le sue decisioni il premier turco ha sempre sostenuto che l’eliminazione del veto sul turban (il velo in turco) rappresenta in realtà una conquista di libertà e riconosce il diritto di centinaia di donne che in questi anni non hanno potuto frequentare l’univeristà proprio per il divieto imposto sul velo. La stessa moglie del presidente della repubblica turco Gul aveva portato fino alla corte europea per i diritti dell’uomo il suo caso di donna velata alla quale era stato impedito di studiare in Turchia. La Corte costituzionale turca ha annullato due giorni fa la legge, varata lo scorso febbraio con un emendamento alla costituzione voluto dal governo Erdogan, che permetteva alle ragazze di portare il velo nelle università. Secondo la Corte, che si è pronunciata sul ricorso presentato dal partito dell’opposizione Chp (Partito repubblicano del popolo, laico), la legge viola i principi laici della costituzione.

 

  • Turchia. 6 giugno. Incombe anche la chiusura dell’Akp, su cui la stessa corte costituzionale dovrà pronunciarsi a breve. L’accusa che ha dato il via al procedimento contro il partito di governo è proprio quella di essere contrario ai principi laici ispiratori dello Stato e di volere addirittura il rovesciamento dell’ordine secolare della repubblica. Tra le diciassette accuse sollevate il 14 marzo scorso contro il partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) dal procuratore generale della Corte di Cassazione vi è anche la permissività sul velo nelle università. Il procuratore chiede alla Corte costituzionale la chiusura del partito islamico e l’allontanamento dalla politica, per cinque anni, di 71 suoi esponenti, tra cui lo stesso Recep Tayyip Erdogan e il presidente della repubblica Abdullah Gul. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo trae origine dall’islam politico anche se proprio per non incorrere in accuse di anti-laicità preferisce definirsi aconfessionale. Un nuovo Akp sarebbe già pronto. Forse ieri, alla riunione straordinaria convocata da Erdogan, i vertici del partito hanno anche discusso dell’eventualità (al momento complicata) di elezioni anticipate o di un anticipo delle amministrative del prossimo anno. Un successo elettorale potrebbe condizionare l’esito del processo sulla chiusura del suo partito. Erdogan è forte dello straordinario successo ottenuto alle politiche dello scorso anno e la sua popolarità non è certo diminuita.

 

  • Ucraina. 6 giugno. La perdita della maggioranza accelera la crisi della coalizione pro-occidentale ucraina. Guidata dalla prima ministra, Yulia Timoshenko, oggi, in Parlamento, ha visto la defezione di due deputati. La coalizione, formata dal blocco Timoshenko e dal partito del presidente, Viktor Yushenko, contava finora su 227 deputati su un totale di 450. Con il venir meno di un deputato per ciascuno dei due alleati si trova ora in minoranza di fronte al Partito delle Regioni di Viktor Yanukovich. Le relazioni tra Timoshenko e Yushenko sono tese da mesi. La stampa ucraina dà per certa la rottura; diverge solo sul quando. Queste defezioni possono ora accelerare il processo. Volodimir Fessenko, direttore del centro di studi politici Penta, augura che il presidente sciolga il governo nel quadro di un piano per mettere fuori gioco Timoshenko e rieditare un patto con il Partito delle Regioni.

 

  • USA. 6 giugno. Barack Obama fa dietrofront sullo status di Gerusalemme. Il candidato democratico ingrana la marcia indietro parlando, ieri sera, alla Cnn. Mercoledì aveva affermato che la Città santa sarebbe rimasta «unita» sotto la sovranità d’Israele, inclusa la zona araba (Est) occupata dallo Stato ebraico nel 1967 e rivendicata dai palestinesi. Lo aveva fatto di fronte all’influente organizzazione dell’«American Israel Public Affairs Committee» (Aipac), l’influente organizzazione statunitense che sostiene lo Stato ebraico. Poi, ieri, la frenata: «Spetterà alle parti coinvolte negoziare una serie di questioni e Gerusalemme sarà parte di queste trattative». Ad obbligare il candidato democratico a rivedere, almeno in parte, le sue posizioni filo-israeliane è stata l’ondata di sdegno che ha attraversato l’intero mondo arabo e, naturalmente, i Territori occupati palestinesi. Lo stesso mansueto presidente palestinese Abu Mazen aveva reagito («Le dichiarazioni di Obama sono da respingere totalmente») sottolineando che «il mondo intero sa che Gerusalemme (Est, ndr) è stata occupata nel 1967 e che noi non accetteremo uno Stato senza avere Gerusalemme (Est, ndr) come capitale».

 

  • Colombia. 6 giugno. L’ELN invita le FARC all’unità per far fronte ad Uribe. La seconda guerriglia di Colombia, l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), ha lanciato un appello a Alfonso Cano, nuovo massimo dirigente delle FARC, per l’unità tra i due movimenti. In un comunicato diffuso oggi su internet ed inviato alla direzione delle Forze Armate di Liberazione di Colombia (FARC), il comando centrale dell’ELN insiste sull’urgenza di rafforzare l’unità guerrigliera. «La crisi profonda e l’illegittimità» del governo del presidente Álvaro Uribe impone alle guerriglie «uno scambio di idee». Allo stesso tempo l’ELN ha inviato le sue condoglianze per la morte, il 26 marzo, dello storico dirigente delle FARC, Manuel Marulanda, Tirofijo. L’ELN avviò conversazioni di pace con il governo colombiano nel 2005 sotto l’egida di Cuba. Agli inizi di dicembre si ritirò dalle negoziazioni dopo aver denunciato l’atteggiamento dell’esecutivo di Bogotà.

 

  • Israele. 7 giugno. La dirigenza israeliana e l’esercito temono «un confronto militare duro e feroce» con la resistenza palestinese nella Striscia di Gaza, e per questo «cercano alternative per prevenirlo». A riportare le parole del primo ministro israeliano, Ehud Olmert, di ritorno da una visita negli USA, è stata la radio israeliana. Olmert ha però aggiunto che «il corso degli eventi indica che siamo più vicini a un’operazione militare» con la resistenza palestinese, che a qualsiasi tipo di accordo. Ieri, la tv israeliana Canale 2 riportava le dichiarazioni del ministro della guerra, Ehud Barak, che dava per imminente «una grande offensiva militare contro la Striscia di Gaza». Al corrispondente militare di Canale 2, Ronnie Danile, Barak aveva detto che la dirigenza militare israeliana ritiene la «pacificazione con i palestinesi impossibile» e che considera possibile l’avvio di queste operazioni entro una o due settimane al massimo, dopo il fallimento del tentativo egiziano di promuovere una tregua tra le parti.

 

  • Russia / Georgia. 7 giugno. Medvedev avverte Georgia e Ucraina sulle loro ansie atlantiste. Il nuovo inquilino del Cremlino, Dimitri Medvedev, ha approfittato ieri del vertice delle Comunità degli Stati Indipendenti (che riunisce dodici ex repubbliche sovietiche) per avvertire Ucraina e Georgia contro i loro piani di integrazione nella NATO. Al suo omologo georgiano, Mikheil Saakašvili, dopo averlo messo in guardia da un’eventuale adesione alla NATO, ha proposto di dare soluzione, senza mediazione occidentale, al contenzioso bilaterale sull’Abkhazia. L’ingresso della Georgia nell’Alleanza Atlantica «provocherebbe una spirale di confrontazioni» in questo territorio, indipendente di fatto e alleato di Mosca, ha dichiarato il capo della diplomazia russa, Sergei Lavrov. Medvedev ha quindi posto altre due condizioni a Saakašvili: firma di un patto di non aggressione in Abkhazia e ritiro delle truppe georgiane dalla gola di Kodori, alla frontiera con questo territorio irredento.

 

  • Russia / Ucraina. 7 giugno. Il vertice ha, allo stesso tempo, permesso al nuovo presidente russo di aggiustare i conti con il suo omologo ucraino, Viktor Yushenko, le cui ambizioni atlantiste esasperano anche Mosca. Parlando a nome di Medvedev di fronte alla stampa, Lavrov ha denunciato le «misure unilaterali» prese dal governo di Kiev, con riferimento al recente decreto di Yushenko per preparare «la cessazione nel 2017 degli accordi internazionali» per cui Sebastopoli (Ucraina) continui ad essere utilizzata come porto di attracco per la Marina russa nel Mar Nero. Il Cremlino ha annunciato, dopo questo incontro, che il prezzo per il gas che paga attualmente l’Ucraina (179,5 dollari per 1.000 metri cubi) si raddoppierà praticamente a partire dal 2009. La questione ha condotto a varie crisi tra entrambi i paesi e a perturbazioni nella fornitura di gas russo ai paesi dell’Europa occidentale.

 

  • Russia. 7 giugno. Un patto di sicurezza europeo ed uno spazio euroatlantico unito, «da Vladivostok a Vancouver», in Canada. Lo ha proposto giovedì a Berlino, nella sua prima visita ufficiale, il nuovo inquilino del Cremlino, Dimitri Medvedev, che cerca così di recuperare una vecchia idea della diplomazia russa in un contesto, sostengono non pochi esperti, molto più favorevole agli interessi di Mosca. Il tutto, aggiungono, in un continuum con il suo predecessore (e attuale primo ministro) Vladimir Putin.

 

  • USA. 7 giugno. La Blackwater ha il suo primo caccia militare. Per i mercenari dal grilletto facile arriva il primo jet da guerra. Si tratta di un aereo 314-B1 “Super tucano”, equipaggiato con due mitragliatrici da 200 proiettili ciascuna (alle quali possono esserne aggiunte altre) e ha la possibilità di montare –in cinque punti del velivolo– fino a 1.500 chilogrammi di bombe. Nulla di paragonabile ai più potenti bombardieri statunitensi, ma comunque un grosso passo avanti per la ditta fondata dall’ex navy seal Erik Prince (un fondamentalista cristiano grande sostenitore del presidente USA Bush) che aveva finora solo elicotteri e nessun aereo d’attacco. Lo scorso aprile, il dipartimento di stato USA ha rinnovato il contratto per la fornitura di servizi in Iraq alla Blackwater, nonostante il Federal Bureau of Investigaton (FBI) l’abbia messa sotto inchiesta. Con migliaia d’impiegati in Mesopotamia (dove i contractor sono oltre 100mila), la Blackwater è stata definita negli USA «l’esercito ombra», perché gli appalti che le vengono concessi, i suoi membri uccisi in combattimento nonché le sue vittime sfuggono spesso alla contabilità ufficiale della guerra.

 

  • USA / Iraq. 7 giugno. Ora la cosa è ufficiale anche presso il Senato USA: Bush mentì sulle prove per attaccare l’Iraq. Ben 170 le pagine di accuse ai repubblicani e al presidente degli Stati Uniti George W. Bush. La commissione sull’intelligence del Senato USA lo accusa di aver mentito sulle prove ottenute dagli 007 pur di iniziare il conflitto e spiega come. Si tratta del rapporto «finora più completo», come il New York Times ha ieri definito il lavoro della commissione senatoriale, «per stabilire che i decisori politici hanno sistematicamente dipinto un’immagine sull’Iraq molto più nera di quanto era giustificabile dall’intelligence disponibile». Il rapporto è stato avallato non solo dagli otto membri democratici della commissione, ma anche da due esponenti repubblicani: la senatrice Olympia Snowe del Maine e Chuck Hagel del Nebraska.

 

  • USA / Iraq. 7 giugno. Washington sta facendo forti pressioni con Baghdad. Per avere mano libera nel Paese negli anni a venire, vuole che sottoscriva un patto chiamato «alleanza strategica». Lo scrive Patrick Cockburn sul quotidiano britannico The Independent e riferisce anche delle forti contrarietà locali. Come quella di un politico iracheno che a Cockburn dice: «È una terribile breccia nella nostra sovranità», aggiungendo che il patto delegittima ulteriormente il governo di Baghdad, che verrà continuamente definito una pedina degli Stati Uniti. Secondo la ricostruzione dell’Independent, l’ufficio del vice presidente Dick Cheney sta premendo –tramite l’ambasciatore USA in Iraq, Ryan Crocker– affinché l’«alleanza strategica» sia firmata entro luglio. L’ex presidente iraniano, Akbar Hashemi Rafsanjani, ha definito il patto la legalizzazione di «un’occupazione permanente». Il primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, sarebbe contrario alla firma, ma allo stesso tempo sa che il governo non potrebbe rimanere al potere senza l’appoggio degli USA. Washington, inoltre, ricatterebbe Baghdad congelando 50 miliardi di dollari iracheni alla Federal Reserve Bank di New York. Cockburn scrive che i soldi sono «tenuti in ostaggio»: per riscattarli, il governo iracheno deve accettare il patto. Al momento le riserve irachene sarebbero «protette dai pignoramenti giudiziari grazie ad un ordine presidenziale». Se gli USA non fossero soddisfatti dalle scelte irachene, l’ordine sarebbe rimosso. Questo farebbe perdere a Baghdad il 40% delle sue riserve all’estero.

 

  • Francia / Libano. 8 giugno. Sarkozy, a Beirut, in parte si smarca dall’allineamento all’Amministrazione USA. Visita lampo del presidente francese, ieri, con al seguito ministri e leader dei partiti dell’opposizione. Vicinanza all’attuale maggioranza libanese antisiriana, ma nessuna chiusura all’opposizione guidata da Hezbollah e che include anche il partito dei Liberi Patrioti del leader cristiano maronita Michel Aoun. Intervistato venerdì dai principali quotidiani di Beirut, ha detto di voler riprendere il dialogo con la Siria e ha espresso un forte sostegno al neoeletto presidente Michel Suleiman, meritevole, ha detto, del successo dell’accordo del 21 maggio a Doha. Questo accordo ha posto fine alla grave crisi politica in Libano (dopo giorni di tensioni e scontri sanguinosi) accogliendo importanti richieste di Hezbollah e dei suoi alleati. Allo stesso tempo ha espresso sostegno al Tribunale Internazionale, che sarà chiamato a giudicare i presunti responsabili dell’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri e che l’opposizione considera un «processo politico», ma ha aperto alla Siria –che gli USA vogliono sul banco degli imputati– assecondando la volontà di dialogo manifestata dal presidente Bashar Assad. Due inviati di Sarkozy sono in partenza per Damasco dove prepareranno l’incontro ufficiale che Assad e Sarkozy avranno il 13 luglio a margine del vertice per l’Unione Mediterranea.

 

  • Israele / Iran. 8 giugno. Il ministero della difesa sconfessa il vice premier ed ex Capo di Stato Maggiore Mofaz che ieri, al giornale Yediot Ahronot, aveva dichiarato: «Se l’Iran prosegue il suo programma di sviluppo di armi nucleari, lo attaccheremo.Le sanzioni non sono efficaci. Non ci sarà alternativa ad un attacco all’Iran». E Mofaz aveva precisato che in quel caso Israele avrebbe cura di ottenere un almeno tacito sostegno degli USA. Oggi la smentita del ministero della difesa. Ne dà notizia stamani la radio pubblica israeliana. Un alto funzionario, che ha richiesto l’anonimato, ha definito «irresponsabile» quell’affermazione e «non rappresentativa della posizione del governo». Più diplomaticamente sfumata la rettifica mirante a drammatizzare a livello presuntivamente mondiale la questione: «Il programma nucleare iraniano riguarda l’intera comunità internazionale e non solo Israele», ha sottolineato. Mofaz, israeliano di origine iraniana, si è candidato a prendere il posto del premier Olmert sotto inchiesta.