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Quando i filosofi sono troppo timidi, gli scienziati diventano arroganti

di Francesco Lamendola - 19/06/2008

 «Origine dell'uomo ora dimostrata. - Deve prosperare la metafisica.- Chi riuscisse a comprendere il babbuino farebbe per la metafisica più di Locke». Così annotava Charles Darwin nel suo diario, talmente inebriato dalla propria teoria, da saltare a pie' pari la linea di demarcazione tra scienza e filosofia e da trarre l'implicita conclusione che a quest'ultima non resta che recitare una parte secondaria nel progresso della conoscenza umana, se non addirittura risolversi nelle scienze biologiche (Charles Darwin's Notebook, 1836-1844: Geology, Transmutation of Species, Metaphysical Enquiries, a cura di P. H. Barrett e altri, Cornell University Press, Ithaca New York, 1987, p. 539, nota 84E).

Da quel momento, la timidezza dei filosofi sulle questioni relative all'uomo, alla natura e alle possibilità della conoscenza, al significato della sua vita e al suo ultimo destino, non ha fatto che crescere; e, proporzionalmente, è cresciuta l'invadenza degli scienziati, soprattutto dei biologi, molti dei quali hanno finito per impancarsi a filosofi e mettersi sentenziare con la massima disinvoltura su ciò che dovrebbe esulare dal loro ambito di competenza.

Ribadiamo, per scrupolo di chiarezza, di che cosa si occupa la scienza e di che cosa si occupa la filosofia.

La scienza svolge la sua ricerca nell'ambito della realtà fisica. Fino a qualche anno fa si sarebbe potuto dire: nell'ambito della materia. Oggi, però, i confini tra materia ed energia non sono più così chiari come lo sembravano un tempo; e, del resto, l'energia non è che una forza fisica, suscettibile di indagine quantitativa. La scienza, perciò, si occupa delle quantità: misura i fenomeni della natura in maniera sistematica e, ove possibile, sperimentale; vuole comprendere come essi accadono e non perché accadono, se con quest'ultima espressione si intende una ragione ultima che travalichi la sfera della realtà fisica.

La filosofia svolge la sua ricerca sulla realtà in quanto tale.

Alcuni filosofi (i materialisti) ritengono che non vi sia altra realtà  fuori di quella del mondo fisico; nemmeno loro, però, arrivano a confondere le proprie ricerche con quelle degli scienziati, perché il fine della filosofia non è descrivere i fenomeni, quanto interpretarli alla luce di una visione del reale che sia coerente e complessiva e che si spinga sino alle cause ultime di ciò che esiste, non per descriverle in senso quantitativo, ma per valutarne l'origine e il significato della realtà (o anche, se si preferisce, l'assenza di significato).

Altri filosofi non limitano la loro ricerca al mondo fisico, ma, per poter spiegare tutta una serie di fenomeni, ipotizzano che esista anche un altro piano di realtà, di natura non fisica ma spirituale. Per costoro, mano a mano che si allontanano dalla dimensione visibile della realtà, diviene necessario elaborare strumenti concettuali adeguati a un oggetto che, non essendo quantitativo, non può essere compreso soltanto con la ragione ordinaria. Ma non sono pochi quelli che, come Kant, a un certo punto si arrestano e dichiarano l'impossibilità, per la mente umana, di cogliere l'oggetto in sé, il noumeno, dunque l'impossibilità della metafisica.

È una posizione legittima, ma la sua inevitabile conseguenza è quella di restringere sempre più il campo della ricerca filosofica, fino alla posizione di Wittgenstein, secondo il quale tutto quello che resta da fare ai filosofi è di analizzare il linguaggio, per evitare che gli equivoci su di esso diano luogo a delle proposizioni insostenibili sul piano della pura logica.

La crescente timidezza dei filosofi (cfr. il nostro saggio Kant e l'autocastrazione del pensiero moderno, sul sito di Arianna Editrice), che li ha indotti a limitare sempre più il proprio campo d'indagine e ad essere sempre più incerti e pessimisti circa le possibilità di comprendere il reale in senso non quantitativo (cioè, appunto, filosofico), ha visto affermarsi una tendenza opposta da parte degli scienziati. Fedeli al vecchio assunto di Galileo secondo il quale, dal punto di vista intensive, la mente umana che procede in modo matematico può conoscere alcune cose con il medesimo grado di certezza di Dio (cfr. F. Lamendola, Ma è sempre la stessa arroganza la molla dello scientismo, sempre sul sito di Arianna), molti di loro si sono spinti assai oltre una descrizione e una spiegazione quantitativa dei fenomeni naturali.

Hanno incominciato a filosofare, ma senza averne né il retroterra culturale, né i metodi, né la mentalità; e nessuno ha gridato allo scandalo. Avrebbero gridato, e in parecchi, se si fosse verificato il movimento opposto: se, cioè, i filosofi avessero preteso di improvvisarsi scienziati, senza possederne alcuna competenza specifica. Ma tale è la prospettiva generale della cultura odierna: chiunque si sente in grado di dissertare di filosofia, mentre tutti devono limitarsi a tacere e ascoltare quando parlano gli scienziati. È, in fondo, uno degli aspetti della disistima in cui sono cadute le discipline cosiddette umanistiche: moltissimi studenti (per non parlare dei loro genitori) si sentono in diritto di trattare da pari a pari, nel suo campo specifico di lavoro, con un insegnante di lettere, cosa che non si sognerebbero mai di fare, nel suo campo specifico di lavoro, non diremo con un professore di fisica o di chimica, ma neanche con un elettricista chiamato per riparare il televisore o la lavatrice di casa.

È quasi inutile sottolineare che, per Platone e Aristotele, le nostre distinzioni fra sapere umanistico e sapere scientifico non avrebbero avuto senso, dato che il sapere è unitario. Ma, a partire dal momento in cui la scienza ha reso possibile un intervento sempre più efficace sulla realtà materiale, assicurando all'uomo un dominio pressoché completo sulla natura, le quotazioni degli scienziati sono cresciute vertiginosamente, mentre quelle dei cosiddetti umanisti sono precipitate. In una società che adora la forza e il dominio, le forme del sapere che possono fornire il massimo di forza e di dominio non possono che essere circondate di un rispetto e di un'autorità sconfinati. Le altre, quelle che non producono, o non sono suscettibili di produrre, né la forza né il dominio, scadono nella considerazione generale. Nel migliore dei casi, finiscono per essere viste come degli interessanti, ma oziosi passatempi, ai quali si può anche lasciare un certo spazio "ornamentale", dopo che siano state soddisfatte le esigenze veramente importanti della vita: produrre ricchezza materiale e dominio sulle cose.

Risultato: i filosofi hanno perso sempre più fiducia nella validità della propria disciplina, e non pochi di essi sono andati a mendicare un po' di prestigio sociale e di considerazione, proclamando la filosofia morta e sepolta, oppure arruolandosi come volontari nei battaglioni della riserva dell'agguerrito e sempre più ammirato esercito degli scienziati. Si sono dati, perciò, da fare per acquisire il linguaggio, i modi e le prospettive propri degli scienziati, in modo da liberarsi dall'antipatica etichetta di "umanisti", che li costringerebbe a una perpetua subalternità verso i loro più fortunati colleghi, gli scienziati. Viceversa, a ben pochi di questi ultimi è venuto in mente che, prima di pontificare nell'ambito della filosofia, forse sarebbe il caso di studiare almeno i primi rudimenti di questa disciplina.

 

Un buon esempio dell'arroganza speculativa a cui si sono spinti certi scienziati è offerto da Gerald M. Edelman, che è stato premio Nobel per la Medicina nel 1972, grazie ai suoi studi sul sistema immunitario.

Professore alla Rockefeller University, è autore, fra l'altro, di una teoria della selezione dei gruppi neuronali (TSGN), che intende spiegare sia la categorizzazione percettiva, sia alcuni aspetti della memoria e dell'apprendimento, con i tre fattori della struttura cerebrale, dello sviluppo e dell'evoluzione. In pratica, Edelman sostiene che le funzioni cerebrali superiori sono il risultato di una selezione che si esercita nel corso dello sviluppo e agisce sulle variazioni anatomiche e funzionali presenti in ogni singolo animale, uomo compreso.

Egli ha esposto tale teoria, con le relative implicazioni, in libri come Neural Darwinism del 1987, Topobiology del 1988 e The remembered present. A biological theory of consciousness (traduzione italiana di Libero Sosio: Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza, Rizzoli, Milano, 1989).

 

Citiamo da quest'ultima opera la pagina conclusiva (pp. 318-19), che ci sembra quanto mai interessante per illustrare l'idea che certi scienziati hanno maturato, oggi, dei rapporti fra le loro rispettive discipline (fisica, chimica, biologia, ecc.) e l'ambito della riflessione filosofica, cioè sul "perché" ultimo delle cose.

 

La filosofia (trascurando la filosofia professionale nel senso ristretto della parola) dovrebbe avere un'influenza sulla vita quotidiana e sul nostro senso della totalità dell'esperienza. Che cosa possiamo dire dalla visione del mondo che sembra derivare dal quadro delineato dalla presente analisi della coscienza [ossia, la teoria della selezione dei gruppi neuronali]? Una visione della coscienza con una base biologica modifica la nostra concezione dell'immortalità? O ha una qualche incidenza significativa sui nostri desideri, le nostre convinzioni e i nostri valori?

Io ho assunto la posizione che tutto ciò che segue da leggi fisiche è indipendente dalla coscienza e ho concluso che il fenomeno della coscienza è il risultato di un particolare ordine della materia animata sorto da un tempo relativamente breve nell'evoluzione. Esso è quindi il risultato di una storia del mondo molto particolare. Secondo questa concezione, una macchina con ordinamenti e funzioni simili avrebbe una coscienza primaria. Ma, anche secondo questa concezione, non sarebbe una macchina di Turing. ? [Una macchina di Turing è una macchina in uno stato finito, con un nastro infinito suddiviso in campi, che può scrivere un 1 o uno zero in ogni campo, e che può spostare un campo verso destra o verso sinistra; in pratica tutti i computer si possono definire delle macchine di Turing]. E, in ogni caso, se non avesse un linguaggio, non potrebbe avere una coscienza di ordine superiore.

La coscienza è un processo che si presenta separatamente in ciascun individuo; è un fenomeno storico, mutevole, parziale, ed è connessa alla percezione di oggetti. Non è perciò una proprietà di particelle di materia o neppure della maggior parte delle organizzazioni biologiche della materia. La materia è anteriore alla mente, e alla morte dell'individuo la sua mente è condannata all'estinzione, nel senso che i processi coscienti e i pensieri posseduti da quell'individuo cessano di essere possibili. Con la morte di ciascun individuo quella particolare memoria e coscienza va perduta: se l'identità personale dipende dal fatto che la morfologia  è soggetta a una particolare storia, non può persistere in uno stato disincarnato. Non esiste quindi alcuna immortalità individuale.

Nondimeno, anche se non siamo noi a fare il mondo, e anche se alla nostra morte dobbiamo sparire, mentre siamo in vita siamo in grado di modificare in modo causale con mezzi coscienti sia il mondo sia noi stessi. Data la natura storica della creazione, ne segue che quelle interazioni socialmente cooperative - fondate su uno scetticismo creativo - ma non sul dogma - che conducono a una cultura sempre più ricca sono l'eredità più preziosa che abbiamo. Benché la nostra coscienza sia fondata su un insieme di valori etologicamente determinato, l'acquisizione della coscienza di ordine superiore e le interazioni in una cultura ci permettono di conseguire nuovi valori. In una cultura, ogni persona può avere le libertà della grammatica, dell'immaginazione privata e di un'individualità soggettiva, e godere nondimeno delle armoniose costrizioni dell'arte e delle credenze comuni, oltre che della soddisfazione finale di godere di una visione scientifica del mondo condivisa. Tale visione ci permetterà un giorno di comprendere con sicurezza le origini della coscienza nei rapporti fra materia, evoluzione e sviluppo del cervello. Quando sarà infine sostanziata da mezzi scientifici, una tale visione permetterà a un individuo di vedere con maggior chiarezza il suo posto nel mondo: come sia derivato dal mondo, e come possa dare un contributo all'opera comune dei suoi simili mentre gode per un breve periodo di tempi il privilegio della coscienza e della comunicazione.

La scienza è la massima conquista culturale comune ed è fra in risultati più alti raggiunti dalla coscienza umana. Si deve dire nondimeno che, per quanto grande, la concezione scientifica devia da altri ingredienti culturali e non li impone. La scienza è solo un'esperienza parziale della coscienza che, una volta nata e sviluppata nella cultura umana, conosce un progresso impetuoso  potenzialmente infinito nell'esperienza personale soggettiva, nell'arte e nella creazione di miti.  Ciò che deriva dalla coscienza, dal linguaggio e dalla cultura è necessariamente ricco di novità. Da questo punto di vista, qualsiasi cosa noi stabiliamo scientificamente come vera, nella nostra esperienza c'è parecchio che è opera nostra e molto di ciò è la parte più preziosa della nostra vita. Non si dovrebbe però permettere a questo fatto di oscurare la nostra conoscenza delle condizioni strutturali dell'essere del mondo, e del nostro essere, e di come le conosciamo, tutte cose che possono provenirci attendibilmente solo dall'investigazione scientifica.

 

L'Autore definisce la sua posizione speculativa "realismo limitato" e, in apparenza, sembra dispostissimo ad ammettere che «la scienza è solo un'esperienza parziale della coscienza» e che «la parte più preziosa della nostra vita» possa anche essere opera nostra, nel senso di creata liberamente, e non solo determinata dai meccanismi neuronali del cervello. Ma subito dopo precisa che «solo dall'investigazione scientifica» possiamo attenderci delle risposte circa «la nostra conoscenza delle condizioni strutturali dell'essere del mondo, e del nostro essere, e di come le conosciamo». Come dire che quello che la scienza concede alla nostra autonomia con una mano, subito se lo riprende con l'altra; il meglio della nostra vita si trova, forse, al di fuori di ciò che la scienza può spiegare, ma solo la scienza può spiegarci chi siamo, cos'è il mondo e in che modo noi ne facciamo l'esperienza.

Non è tanto su questo aspetto, tuttavia, che vogliamo fermare la nostra attenzione, tanto più che si tratta di affermazioni piuttosto scontate, dopo che Edelman aveva premesso - senza ulteriori argomentazioni o ragionamenti - che «la scienza è la massima conquista culturale comune» degli esseri umani.

Quello che più colpisce, in questa pagina di un premio Nobel per la Medicina, è la sicurezza e l'assoluta mancanza di argomentazioni con cui entra in un campo che non è di sua competenza, e afferma che:

 

«La materia è anteriore alla mente, e alla morte dell'individuo la sua mente è condannata all'estinzione, nel senso che i processi coscienti e i pensieri posseduti da quell'individuo cessano di essere possibili. Con la morte di ciascun individuo quella particolare memoria e coscienza va perduta: se l'identità personale dipende dal fatto che la morfologia  è soggetta a una particolare storia, non può persistere in uno stato disincarnato. Non esiste quindi alcuna immortalità individuale».

 

Certo, esiste una logica in questa serie di affermazioni (che, in verità, non posiamo chiamare "ragionamento").

Se il mondo delle cose visibili è tutto ciò che esiste, allora è ragionevole affermare che la materia è anteriore alla mente; e, se questo è vero, allora la coscienza del singolo individuo cessa di esistere con la morte. E, se è vero che l'identità personale dipende esclusivamente dalla sua storia evolutiva, allora essa non può persistere in uno stato disincarnato, quindi l'immortalità individuale è impossibile.

Tutto, però, si regge su un assunto che non è stato nemmeno discusso: che la realtà fisica esaurisca l'intera sfera del reale. Ed è qui che si può misurare tutta l'ingenua arroganza di certi scienziati: dato che essi lavorano sul mondo fisico, finiscono per dare per scontato che non vi si altra realtà fuori di esso. È una pretesa curiosa, anche se psicologicamente spiegabile e, in determinate circostanze,  quasi naturale. Sarebbe un poco come se, per il marinaio, non esistesse altro che il mare; o, per l'alpinista, altro che le montagne.

La biologia è, di tutte le scienze, la più esposta al pericolo di cadere nella hybris, nel peccato della dismisura e della tracotanza. Poiché essa studia il cervello, e poiché è possibile descrivere le funzioni della mente in termini di circuiti e processi neuronali, non è facile, per un biologo, avvertire quando sta travalicando dalla sua legittima sfera di competenza. L'entusiasmo della sua ricerca e il senso di orgoglio che gli viene da tanti spettacolari successi conseguiti dalla ricerca scientifica - in questo come in altri campi -: tutto, per così dire, lo spinge ad andare oltre, e a ritenere che la mente e i processi neuronali siano una stessa e medesima cosa; e che nessuna funzione sensoriale, intellettiva o affettiva esista al di fuori del cervello.

Nonostante i molti indizi sull'esistenza di una mente non localizzata, dei quali abbiamo ampiamente parlato in tutta una serie di articoli, vi sono ancora degli scienziati i quali identificano la mente col cervello, solo perché il cervello fornisce alla mente una base d'appoggio e un organo visibile, misurabile e quantificabile. Ma se la mente coincide col cervello, come va che essa riesce a vedere, osservare, ascoltare, anche quando il cervello è in coma, come è stato osservato nel casi di parecchi pazienti in fin di vita?  E se l'unica realtà esistente è quella fisica, come si spiega che alcune persone riescano a vedere ciò che accade altrove, lontano nello spazio e nel tempo; a vedere, cioè (o udire, o toccare, gustare, odorare) senza che il loro cervello abbia potuto ricevere alcun impulso dagli organi di senso preposti a tali funzioni?

 

Per uno studioso che non possieda un minimo di attitudine filosofica, pur essendo, magari, preparatissimo in altri campi - come è, sovente, il caso degli scienziati - si tratta, in verità, di saper fare una distinzione un po' troppo sottile. Le funzioni psichiche sono riferibili al cervello; ma ciò non prova che esse esistano solo nel cervello; né, tanto meno, che cesseranno di esistere quando il cervello sarà soggetto, con tutto il corpo, alla disgregazione conseguente alla morte.

Uno scienziati può - anzi, secondo noi, dovrebbe - fermarsi su questa soglia, e sospendere il giudizio su tutto quanto afferisce alla possibilità di una permanenza della mente dopo la morte. Potrebbe, e dovrebbe, osservare che non è compito suo esprimere valutazioni in materia, dato che egli studia, o dovrebbe studiare, i fenomeni fisici della natura, e null'altro.

Perciò, quando Edelman afferma, con la massima nonchalance e a conclusione di un libro di 400 pagine in cui ha esposto una teoria scientifica della coscienza,  che «la materia è anteriore alla mente, e alla morte dell'individuo la sua mente è condannata all'estinzione», e che «l'identità personale (…) non può persistere in uno stato disincarnato. Non esiste quindi alcuna immortalità individuale», dimostra di essere un cattivo scienziato, perché fa della filosofia a buon mercato, sulla base di premesse arbitrarie, e senza averne la competenza specifica.

 

Qualche scienziato potrebbe obiettare, a questo punto, che quella cui stiamo assistendo è una classica nemesi storica: in passato erano i filosofi a "invadere" l'ambito delle scienze; ora le parti si sono rovesciate, ed è venuto il loro momento.

Ma si tratterebbe di un'argomentazione impropria: quando i filosofi discutono di scienza in senso generale (epistemologia), essi esercitano un loro sacrosanto diritto, dato che la filosofia, come abbiamo precisato all'inizio, si prefigge quale obiettivo quello di indagare la realtà in quanto tale, a trecentossessanta gradi. Mentre l'obiettivo della scienza è più limitato: essa si propone di indagare la sfera della realtà fisica.

Non le compete, pertanto, decidere se non vi siano altre sfere di realtà, oltre quella fisica; e non è  compito degli scienziati, anche se sono dei premi Nobel, dire quale sia il destino dell'uomo dopo la morte; se non - appunto - in senso strettamente biologico.