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La Cina degli uiguri

di Michelangelo Cocco - 19/06/2008

 

 

 

Il palco allestito sotto la statua di Mao, le luminarie ai piedi e alle spalle del Grande timoniere e le lanterne rosse nell’antistante Piazza del popolo non sono bastati a rendere più vera la festa. Perché soltanto poche decine di persone - scrupolosamente selezionate - hanno potuto vedere dal vivo la «sacra torcia» passare ieri mattina per le strade velate di sabbia di Kashgar, la città-oasi del deserto del Taldamakan, all’estremità nord-occidentale della Cina. Tutti gli altri, come avevano deciso le autorità, ne hanno ammirato le immagini rimandate dai televisori di casa.

 

Uomini coi doppa, i copricapo tradizionali, e donne dai capelli avvolti in colorati yaglik hanno danzato per celebrare la «condivisione del sogno» olimpico tra il popolo uiguro e gli han, l’etnia maggioritaria in Cina che negli ultimi anni è immigrata in massa nello Xinjiang, regione autonoma a maggioranza musulmana dove ha esportato lo sviluppo «made in Pechino». Ma le vie transennate, le centinaia di agenti mobilitati, i negozi chiusi e le misure di sicurezza eccezionali hanno reso evidente che dopo quasi sessanta anni di convivenza sotto la bandiera rossa, nemmeno il conto alla rovescia verso lo 08/08/’08 - scaramantica ora X scelta per l’inizio della competizione - riesce a nascondere la tensione, palpabile, tra le due comunità. Nelle scorse settimane il governo ha annunciato di aver sventato una serie di «complotti contro l’evento sportivo» ed effettuato «arresti di terroristi». Le organizzazioni uigure in esilio accusano le autorità di portare avanti un progetto di «assimilazione culturale e segregazione economica» del loro popolo.

 

E il 21 maggio scorso su un sito internet jihadista è apparso un comunicato del Partito islamico del Turkestan che ha lanciato il «primo e ultimo avvertimento» ordinando agli «apostati cinesi occupanti» di «ritornare ai loro luoghi d’origine».

 

Secondo Dru Gladney, presidente del Pacific Basin presso il Pomona College (California) e tra i massimi esperti di studi uiguri, non c’è all’orizzonte alcuna una rivolta organizzata, come quella scoppiata nel marzo scorso in Tibet: «La Cina ha ragione a temere elementi radicali wahabiti, che tuttavia non rappresentano una forza organizzata, piuttosto singoli religiosi che provano a diffondere il loro credo estremista». Per il sinologo statunitense è «altamente improbabile» che sommosse separatiste come quelle divampate nello Xinjiang tra la metà e la fine degli anni’90 possano ripetersi a breve. «È mutato il contesto internazionale - spiega il docente -: la lotta al terrorismo è divenuta una priorità dei governi; il controllo militare sull’area si è fatto più rigido; l’immigrazione han è aumentata considerevolmente».

 

Pochi chilometri a est di Kashgar, all’ingresso del villaggio di Yekshembe, centinaia di giovani e anziani dissodano la terra da entrambi i lati della strada. Un piano statale di rimboschimento prevede che siano piantati decine di migliaia di pioppi bianchi, gli alberi alti e snelli che regalano ombra ai viali dell’Altisahar, le «sei città» del sud considerate la culla della cultura uigura. Poliziotti a piedi e in macchina pattugliano la via. Da anni le associazioni uigure denunciano la pratica del lavoro coatto, il prelievo di un membro per famiglia da utilizzare per la semina o la costruzione di infrastrutture.

 

Musulmani turcofoni di etnia altaica, fino al 1949 gli uiguri erano di fatto padroni dello Xinjiang, la «nuova frontiera» conquistata dalla dinastia Qing già nel 1768, ma su cui, fino all’ascesa al potere del Partito comunista nel 1949, il controllo di Pechino si esercitò soltanto in maniera indiretta.

 

Uno sviluppo diseguale  La moschea Id Gah era sempre stata il cuore pulsante della Kashgar dell’antica Via della seta. Oggi il centro geografico è stato spostato in Piazza del Popolo e nel luogo di culto, come nelle strade principali della città, fervono lavori di ristrutturazione. Centinaia di case uigure di mattoni di fango vengono ricostruite con laterizi grazie a finanziamenti statali. 

 

Ma secondo l’ultimo rapporto di Human rights in China (Hric), la Strategia di sviluppo occidentale (Wds) varata contestualmente all’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) nel 2001 ha permesso di potenziare le infrastrutture regionali ma non ha contribuito a innalzare il livello di vita degli uiguri a causa «dell’estrazione di risorse dalla periferia per utilizzarle nelle aree urbane e costali del paese; della colonizzazione interna mediante l’afflusso di settlers in zone attualmente dominate dalla presenza delle minoranze; della militarizzazione dello Xinjiang».

 

I nuovi alberghi, i centri commerciali e le «città del computer» che stanno trasformando antichi centri uiguri in tante piccole Pechino sono accolti con entusiasmo dagli han. Ma a Nazarbah, Shamalbah, Doletbah e Saman - i quattro grandi villaggi uiguri attorno a Kashgar - la cultura e le tradizioni si mantengono intatte: gli scambi si concentrano nel mercato settimanale, la moschea resta il fulcro della vita religiosa e sociale, il lavoro nei campi - praticato con strumenti rudimentali - è la principale fonte di sussistenza.

 

Bingtuan uguale colonie

Dang Le, un funzionario governativo, è fiero delle politiche di Pechino: «Insegniamo agli uiguri le nuove tecniche di allevamento, irrigazione, semina. Il loro livello di partenza è molto basso, ma stanno migliorando». «Ma - spiega Le - il motore dell’agricoltura dello Xinjiang è rappresentato dai bingtuan: 14 distretti produttivi che occupano una superficie di 74.000 chilometri quadrati». La maggior parte di quelli che la burocrazia chiama «Production and construcion corps» sorge in aree vicine alle frontiere, è dotata di un proprio corpo militare e si avvale quasi esclusivamente di manodopera immigrata: 2,5 milioni su una popolazione han che, in totale, ammonta a oltre 7 milioni e minaccia di far diventare presto minoranza gli uiguri, circa 8 milioni.

 

Nel 2000 Chen Guangsheng ha lasciato la provincia dell’Hubei e si è trasferito nel bingtuan di Shihezi, due ore di autostrada da Urumqi, collegato al capoluogo regionale con autobus che partono ogni 20 minuti. «Sono emigrato perché non avevo terra da coltivare - racconta -. Qui ne ho ottenuti 4.500 metri quadrati. Ai privati posso vendere solo piccole parti del raccolto, il cotone sono obbligato cederlo allo stesso bingtuan, che lo commercializza». Il leader locale del partito comunista, Wang Leqan, ha annunciato all’agenzia Xinhua che per il 2008 si prevede un raccolto di 2,7 milioni di tonnellate di cotone, un incremento del 22,7% rispetto all’anno scorso.

 

«A tutte le armate coraggiose che hanno distrutto completamente i ribelli e costruito il socialismo», recitano gli ideogrammi di uno stendardo dei primi coloni custodito nel museo dei bingtuan a Shihezi. Wang Zhen, nel 1949, fu il primo generale ad arrivare nel Xinjiang e a promuoverne la colonizzazione fondando i bingtuan nel 1954. Prima di allora gli uiguri avevano dato vita a due repubbliche indipendenti nel Xinjiang: dal 1933 al 1934 e dal 1944 al 1949. «Turkestan orientale» era il nome della loro patria, con riferimento all’est di quella grande regione, turcofona e islamica, che sotto l’Urss era chiamata Turkestan. La sua posizione - ai confini con India, Pakistan, Afghanistan, Tagildstan, Kirgizistan, Kazakhstan e Russia - rende «lo sviluppo e la stabilità del Xinjiang importante per lo sviluppo e la stabilità dell’intera Cina» ha dichiarato durante un’ispezione nella regione a fine gennaio Zhou Yongkang, membro del comitato centrale del Partito comunista. Ad accrescerne il valore è arrivata la scoperta, negli ultimi anni, d’ingenti riserve di petrolio e minerali. Le statistiche mostrano che nel 2007 il Xinjiang ha prodotto 26.4 milioni di tonnellate di greggio e 21.2 miliardi di metri cubi ,di gas naturali: con un totale di 43.3 milioni di tonnellate è diventata la prima area produttrice della Cina per quanto riguarda petrolio e gas.

 

«Finiremo come i Maya»  A Urumqi Memet, 25enne laureato all’università dei Xinjiang, immagina il futuro del suo popolo «come quello dei Maya: saremo cancellati dallo sviluppo della Cina». Seduto in un tipico ristorante uiguro dagli arredi kitsch, Memet chiede che non sia citato il suo vero nome. E a conoscenza delle attività di Rebiya Kadeer, «voce degli uiguri» da Washington e presidente del World uyghur congress recentemente applaudita dal Parlamento europeo, dove ha spiegato le ragioni del suo popolo.

 

Molti uiguri del Xinjiang non vedono di buon occhio la propaganda degli esiliati. «Le loro campagne all’estero hanno una ripercussione immediata su di noi, con l’aumento della repressione poliziesca» sostiene Memet. A fame le spese sono stati anche due figli della Kadeer, detenuti con l’accusa di «partecipazione e istigazione ad attività separatistiche».

 

Oltre alla massiccia immigrazione han a cui - lamenta Memet - «viene riservata la maggior parte dei posti di lavoro qualificati» secondo il ragazzo sono due i fattori che «stanno cancellando il mio popolo». Gli at- tivisti puntano l’indice contro la progressiva scomparsa della lingua uigura. «Inoltre - spiega il giovane - ci sono le proibizioni nei confronti della pratica religiosa: imam scelti dallo stato, divieto per i minorenni di accedere alle moschee, niente muezzin che richiamano alla preghiera, proibito il velo nei posti di lavoro». 

 

Massima allerta a Gulja 

Gulja, come Urumgi, è separata dall’Altisahar dal deserto e dal massiccio del Tianshan, che percorre, da est a ovest, tutta la regione, dividendola in due parti. Nella città teatro nel 1997 di una rivolta domata nel sangue sono forti le minoranze kazaka e kirgiza il livello di allerta pre-olimpico è alto. Poliziotti a piedi con bastoni simili a mazze da baseball, reparti anti-sommossa a bordo di jeep, camion pieni di agenti pattugliano l’area uigura della città, quella oltre Sidalin donglu.

 

Secondo Nicholas Bequelin si tratta della campagna «anti-separatista» in corso anche in questi giorni. «Operazioni - denuncia il ricercatore del programma Asia di Hutan rights watch - che non distinguono tra violenti e chi tenta legittimamente di affermare la propria identità culturale e religiosa e, invece di accrescere la lealtà verso lo stato, hanno l’effetto di aumentare l’alienazione e il risentimento nei suoi confronti».

 

«Se mi va bene, a fine giornata riesco a guadagnare 30 quai (3 euro)» dice Dilxat, un 19enne che vende frutta nella parte più povera del mercato, quella dove decine di lustrascarpe bambini aspettano i clienti tra un andirivieni caotico di risciò, autobus e carretti montati su motociclette cinesi.

 

Tutte le mattine Dilxat si sveglia alle 5 per sistemare il suo banchetto. Poi, alle 3 del pomeriggio, come tanti suoi coetanei, corre verso una scuola privata dove studia inglese e russo. Sogna a occhi aperti di commerciare con le repubbliche centroasiatiche o di andare a studiare all’estero. Spera che le lingue siano il suo lasciapassare per fuggire da Gulja.