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Del senso delle cose e della magia

di Mario Tanga - 21/06/2008

Fin dalle prime pagine colpisce la ricchezza di contenuti, l’incisività e l’efficacia del linguaggio, la solidità e la coerenza dell’impianto: un’enciclopedia della natura, ma anche del metodo euristico, gnoseologico ed epistemico.

Sebbene all’interno di un orizzonte (un naturalismo ancora tutto sommato rinascimentale, sensismo, ilozoismo, magia naturale…) che non è suo esclusivo, Campanella argomenta in modo vivace e originale. Colpisce la straordinaria rete di nessi che connette non solo aspetti e oggetti della natura tra di loro, ma anche questi con la conoscenza di cui l’uomo ne fa oggetto. Conoscenza che viene riconosciuta nei suoi due aspetti (sempre nitidamente distinti e correlati) di processo psicologico soggettivo e struttura epistemica, oggettiva e storica.

Molti e differenti gli autori citati: quasi 200 nomi sparsi su un arco cronologico molto ampio e appartenenti agli ambiti più disparati. Ricorrono di più, significativamente, Agostino d’Ippona, Aristotele, Averroé, Avicenna, Della Porta, Ermete Trismegisto, Galeno, Gesù Cristo, Mosé, Platone, Plinio il Vecchio, Telesio, Tommaso d’Aquino.

Anche se il libro nasce da una disputa con Della Porta, il vero interlocutore pressoché di tutti gli argomenti è Aristotele. Mai aggressivamente polemico (nonostante non esiti a definire “stultizia” alcune sue affermazioni), Campanella procede allo “smontaggio” sistematico e minuzioso dell’aristotelismo, contribuendo al suo superamento che sfocerà nella rivoluzione scientifica di lì a poco: la redazione dell’opera è probabilmente del 1604. Molti punti delle teorie aristoteliche vengono esaminati e affrontati con spirito critico e appellandosi a quella stessa evidenza dei fatti tanto cara allo stesso Aristotele. In questo atteggiamento critico e analitico, più che nei contenuti, sta la modernità di questo scritto. Spirito critico ben espresso in un suo noto sonetto: “Io nacqui a debellar tre mali estremi./ Tirannide, sofismi, ipocrisia,/ ond’or m’accorgo con quanta armonia/ Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi” (Tommaso Campanella, sonetto 8: “Delle radici de’ gran mali del mondo”, UTET, Torino, 1977, p. 13)

Potenza, sapienza e amore, ovvero le tre primalità (metafisiche) dell’essere, modellate sulla Trinità e nominate di frequente.

E anche spirito osservativo e analitico, si diceva. In una lettera del 1607 a Monsignor Antonio Quarenghi, per prendere le distanze da Pico della Mirandola cui lo aveva paragonato, scrive: “Io imparo più dall’anatomia d’una formica o d’un erba […] che non da tutti i libri che sono stati scritti dal principio di secoli sino a mo, dopo che imparai a leggere il libro di Dio: al cui esemplare correggo i libri umani malamente copiati e a capriccio, e non secondo sta nell’universo, libro originale” (V. Spampanato -a cura di- Lettere, Laterza, Bari, 1927, pp. 133-134).

L’indagine osservativa naturalistica non si disgiunge dalla professione di un cristianesimo più autentico e profondo, ma non per questo adagiato su aristotelismo e tomismo, allora dominanti.

In quattro libri, per un totale di 79 capitoli, si snoda un excursus argomentativo ben sintetizzato nel lungo sottotitolo Parte mirabile d’occulta filosofia dove si mostra il mondo esser statua di Dio viva e bene conoscente, e tutte sue parti e particelle loro avere senso chi più chiaro, chi più oscuro quanto basta alla conservazione loro e del tutto in cui consentono e si scuoprono le ragioni di tutti li secreti de la natura. Senza mai vistose discontinuità, vengono trattate (lo diciamo sommariamente, ché nel dettaglio è impossibile) la sensibilità della materia, gli organi di senso, il rapporto della sensibilità con altre facoltà umane, come memoria, immaginazione e ragionamento (questo soprattutto nei primi due libri), la terra, gli elementi, il cielo (nel terzo libro) e la magia (nel quarto).

Alcuni punti meritano di essere sottolineati.

Nella visione dinamica della natura, dei processi conoscitivi, delle facoltà umane che ne sono alla base, viene sottratto spazio alla visione essenzialistica (di matrice aristotelica, ma non solo) per prediligerne una più aderente alle “funzioni” e alla “funzionalità”.

Viene rotta la linearità Dio-Uomo-Natura, per istaurare una circolarità in cui ciascuno di questi tre elementi è un polo, con una sua specificità, ma senza posizione gerarchica, fatta salva la “divinità di Dio”, ovviamente. Tutto è natura, una natura ilozoistica, vitalistica, teofanica, creata – o meglio “architettata”– ma non emanata: “…se l’opere di Dio son perfette (come dice Moisé), avrà Dio largito ad ogni cosa quelle virtù che bastano alla conservazione loro…” (p. 14). L’uomo è il dominio di intersezione tra Dio e natura, partecipando di entrambi questi mondi, capace ad un tempo di risalire (come leggendo una segnatura di rinascimentale memoria) dal mondo a Dio e di rivolgere lo sguardo al mondo forte dell’illuminazione che gli viene dalla fede. Naturalismo e teologia convergono e sono indissolubilmente intrecciati in un unico sistema.

Nell’ambivalenza tra unità e pluralità della natura, non c’è reductio ad unum (vengono valorizzate le differenze di qualità e di grado) e non c’è la dispersione pluralistica che il sensismo spinto di Campanella sembrerebbe avallare: “Or l’animale ha diverse parti sottili, liquide, molli, grosse, dure, bianche, rosse, tutte col proprio abito e temperamento, talché è impossibile d’una forma informarlo […] Dunque tutto l’animale è uno perché ha uno spirito, e molte composte parti in un consenso e ordine e forma integrata di molte, come la nave e la casa” (p. 74). L’unità-uniformità è del mondo della natura e del mondo tout-court, dato che anche tra artificiale e naturale ci sono corrispondenze estese e profonde: “Quinci si può notare come non solo le cose della natura hanno il consenso a quel fine per cui sono fatte, ma anco dell’arte, perché la medesima anima del mondo guida l’una e l’altra, onde sono similissime…” (p. 162). E, a legare tutto, c’è quell’anima mundi, “commune”, come spesso viene ribadito, in cui riconosciamo un’ascendenza neoplatonica.

Unità e pluralità sono quindi, più che intrinsecamente nelle cose, nella conoscenza che delle cose si ha. Metafisica e logica non sono conquiste conseguenti (cronologicamente e epistemologicamente) alle sensazioni, garantendo alla conoscenza il passaggio ad uno statuto di maggior validità perché di maggior generalità e astrazione. La verifica sensoriale rimane necessaria, a priori come a posteriori, a garanzia, oltre che del massimo grado di certezza della verità, anche del massimo dettaglio: “Ma il senso è certo e non vuol prova, ché egli è prova; ma la ragione è conoscenza incerta, però vuol prova…” (p. 108).

La natura vive e vive juxta propria principia. Dio è l’artefice sommo della natura ma nella sua opera creativa l’ha dotata di principii suoi propri, che non abbia bisogno del suo intervento continuo. L’ilozoismo campanelliano esclude ogni antropomorfismo e serve a cacciare le forze occulte, personificate se non personali, così come il meccanicismo servirà a cacciare le azioni a distanza. La storia del pensiero occidentale sulla natura è una storia di tentativi di affrancamento della natura stessa da principi ad essa estranei, per spiegarla juxta propria principia. La separazione cartesiana della res extensa e della res cogitans (cfr. Discours de la Methode, Ian Maire, Leyda, 1637) va vista proprio nell’ottica di dare a ciascuno dei due ambiti fattori causativi suoi propri. E Campanella compie uno dei passi su questo cammino, sebbene in una direzione diversa.

La passività, il patire, cioè il subire gli effetti di cause esterne è segno di sensibilità, non di supina e amorfa incapacità di agire, anzi… È testimonianza di capacità recettive, ed è quindi condizione di comunicazione con il mondo, di esserne parte. Campanella ricusa una concezione informativa e passiva della sensibilità: il soggetto senziente non è una tabula rasa che riceve l’impronta dell’oggetto, ma mantiene autonomia, identità e distinzione da questo: “Non potersi far senso per informazion, percettiva solo, come Aristotile disse, né ci esser senso agente, né il senso pura potenza incorporea, ma ente passibile, e sentire per mutazione poca e per argomento” (p. 65).

Il tatto è il senso per eccellenza, e questo per diversi motivi: è esteso a tutto il corpo, presuppone contiguità tra il soggetto senziente e l’oggetto, garantisce l’acquisizione di elementi di conoscenza: “Dunque, perché tutte le cose si toccano tra loro, e le non toccate son simili alle toccate, tutte si sentono per presenza o per similitudine, e sentire per simile discorso, risentire è memoria, sentir molti simili come una cosa è intelligenza.” (p. 57), è in linea con l’orror vacui, attribuito a tutti gli enti. Pur ammettendo azioni a distanza (come quella dell’unguento armario, o del mantenimento in vita di una parte dell’organismo anche quando questa è da esso separata) e pur non ponendo il tatto come assolutamente necessario, tuttavia esso rappresenta la modalità “paradigmatica” di rapporto euristico dell’uomo con il mondo e degli enti tra di sé per realizzare quella comunanza che li rende parte di un unico grande organismo: “Non può sentirsi mai la cosa che non si tocca; però le lontanissime, non a noi approssimate, e quelle che non hanno corporal tatto con noi comune, ignote si dicono del tutto; ma s’elle son simili alle cose che noi abbiamo toccato, per somiglianza le conoscemo” (p. 54-55). E la causa che produce effetti fisici deve essere concreta: lo spirito stesso non è altro che corpo, sia pur “sottile”: “Si vede poi lo spirito gonfiare il membro e muscoli e nervi, e non l’incorporea facoltà, perché non li gonfiarla senza corporeità” (p. 49).

La visione olistica della natura è basata su fondamentali uniformità di tutti gli enti e di tutti gli elementi: tutto ha sensibilità (sebbene differenziata per grado e qualità), tutto tende a espandersi, moltiplicarsi, diffondersi nello spazio, garantirsi la vita, ovvero la persistenza nel tempo, e soprattutto tutto è pervaso da una stessa anima. Insomma tutto vive e tutto è teso ai propri fini, particolari e generali ad un tempo. Anche l’uomo è inscritto in questo orizzonte, pur oltrepassandolo grazie alla conoscenza (della Natura e di Dio) cui ha accesso, trascendendo gli appettiti, pur legittimi, del corpo e dello spirito, altrettanto corporeo, per un ordine di finalità superiore e qualitativamente diverso.

La posizione dell’uomo è infatti ambivalente: “Il mondo è un animal grande e perfetto/ statua di Dio, che Dio lauda e simiglia:/ noi siam vermi imperfetti e vil famiglia,/ ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto”, dice in un’altra opera Campanella, ma, a differenza dei vermi, possiamo avere consapevolezza e coscienza (sebbene limitata) della nostra condizione. E questo distinguo, comunque, è tracciato non per disprezzo verso gli organismi più semplici: anch’essi, come tutto il creato, sono portatori della saggezza con cui il Creatore li ha concepiti, tutti attuano, per quanto non per scelta né per consapevolezza, i fini del “grande animale”, la sua armoniosa composizione, la sua vita di ordine superiore. “Il mondo, dunque, tutto è senso e vita e anima e corpo, statua dell’Altissimo, fatta a sua gloria con potestà, senno e amore. Di nulla cosa si duole. Si fanno in lui tante morti e vite che servono alla sua gran vita. Muore in noi il pane, e si fa chilo, poi questo muore e si fa carne, nervo, ossa, spirito, seme, e pate varie morti e vite, dolori e voluttadi; ma alla vita nostra servono, e noi di ciò non ci dolemo, ma ci godemo. Così a tutto il mondo tutte cose son gaudio e servono, e ogni cosa è fatta per lo tutto, e il tutto per Dio a sua gloria” (p. 235).

Il linguaggio compendia grande forza espressiva, potenza evocativa, vibrazione lirica, chiarezza didascalica, persuasività. Il fascino delle cose, l’immersione nel mondo, la meraviglia e l’ammirazione per la natura e per l’opera di Dio sono sempre presenti. La fiducia nel potere ermeneutico, esplicativo, illuminante, della conoscenza, pur con l’umiltà necessaria al credente, non viene mai meno e sostiene l’intera trattazione come una spina dorsale.

Spesso ai limiti o oltre i limiti dell’azzardo esplicativo (cosa della quale a volte stentiamo a renderci conto per il ricorso a evidenze così convincenti ed ovvie!…), Campanella non abbandona mai la sua radicata fede sensista, ma è anche forte di audaci e acute capacità abduttive, offrendoci un testo straordinario, rutilante, variegato, capace di catturare con indicibile freschezza, ancora oggi dopo quattro secoli, la nostra affascinata e ammirata attenzione, e di darci il piacere di una grande lettura.

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Introduzione di Germana Ernst
Del senso delle cose e della magia

L'autore

Tommaso Campanella (1568-1639) diviene domenicano nel 1583, abbandonando gli studi giuridici cui lo aveva avviato la famiglia. Studia immancabilmente aristotelismo e tomismo, ma si indirizza ben presto verso il sensismo naturalistico di Telesio e l’idealismo platonico. Presto rivela le sue tendenze eccentriche rispetto alla cultura ufficiale e, pur manifestando appoggio alla Chiesa di Roma, subisce varie vicissitudini, tra cui la permanenza in carcere per circa tre decenni. Nel 1634 è costretto a rifugiarsi alla corte di Re Luigi XIII.


La curatrice

Germana Ernst, ordinario di Storia della Filosofia del Rinascimento all’Università di Roma Tre, è uno dei maggiori esperti del pensiero e delle opere di Campanella, a cui ha dedicato numerose opere.

Campanella, Tommaso, Del senso delle cose e della magia, a cura di Germana Ernst.
Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. xxii+260, € 24,00, ISBN 9788842083979.