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Il segreto più riposto del vivere fra impegno totale e sovrano distacco

di Francesco Lamendola - 25/06/2008

 

 

È curioso, a ben guardare, quello che la vita ci richiede.

Da un lato dovremmo sviluppare al massimo le funzioni necessarie ad un impegno totale: quelle che si qualificano, al livello più basso, come cieco istinto di conservazione (e di riproduzione), e, al livello più alto, come offerta integrale di sé, come dono senza riserve.

Dall'altro, dovremmo sviluppare al massimo - contemporaneamente - le funzioni necessarie a conseguire un sovrano, sereno distacco da tutto e da tutti: a cominciare dal nostro ego, dal nostro piccolo Io, su su fino alle cose più nobili e pure, più belle, più vere: perché senza di esso non si impara realmente a vivere, cioè non ci si prepara a morire.

In un certo senso, è come se si chiedesse a qualcuno di essere, nello stesso tempo, un basso e un tenore; se gli domandasse di essere eccellente alpinista ed eccellente subacqueo. Anzi, è come se gli si domandasse ancora di più: perché in questi esempi rimaniamo sul terreno di ciò che è meramente quantitativo; mentre qui si tratta di una differenza qualitativa. Forse, un paragone più calzante per esprimere il paradosso della vita è la richiesta di essere, nello stesso tempo, estremamente sensuali ed estremamente spirituali; estremamente teneri ed estremamente duri; estremamente  sensibili ed estremamente crudeli.

Dovremmo, cioè, amare la vita come la cosa più preziosa che vi sia al mondo; e, al tempo stesso,  disprezzarla come l'ultima delle sgualdrine.

Il primo dei due atteggiamenti è frutto dell'istinto, e ci viene (almeno finché si è giovani) "naturale"; il secondo è frutto dell'esperienza e del disincanto (quindi, in genere, dell'età adulta), ed è "artificiale": ma, una volta che abbia trovato la strada del nostro essere più profondo, diviene altrettanto forte e radicato del primo.

Da giovani, infatti, è cosa naturale credere, sperare, illudersi; più tardi, diviene cosa altrettanto naturale il fatto di dubitare, disperare, disilludersi.

Ma i due atteggiamenti sono spesso mescolati e intrecciati, e scavalcano questa schematica divisione relativa all'età e all'esperienza. Molti giovani sono già stanchi, disincantati e delusi; e non mancano gli anziani che hanno conservata intatta la loro freschezza, ossia la loro capacità di guardare al mondo con stupore, fiducia e benevolenza.

Osserviamo una giovane madre che se ne va a spasso con il suo bimbo in carrozzella. Per quanto possa essere, nella sua vita privata, una persona modesta e perfino timida, ora sfodera tutta la sua fierezza, tutto il suo orgoglio: avanza diritta per la sua strada, con una punta di arroganza, esibendo il prodigio di quella vita che lei (così crede) ha creato: che si spostino gli altri, lei no di certo. Ha messo al mondo la vita, ha officiato il rito più sacro dell'umanità: quello di assicurare la riproduzione della specie.

Oppure si osservino i bambini che giocano nel cortile di una scuola, durante la ricreazione; o mentre viaggiano sul pulmino; o quando si preparano ad affrontare una gara, un concerto, una esibizione qualsiasi. Si vedono subito quelli che si rialzano svelti dopo una caduta, che si fanno largo a spintoni, che non temono di esporsi e di essere giudicati; e quelli dei quali, al contrario, gli adulti dicono, scuotendo il capo: «Se solo avesse un po' più di grinta, di fiducia in se stesso…».

La vita non è una passeggiata tra i fiori.

Per affrontarla bisogna farsi duri, scaltriti; bisogna immergervisi, sentirvisi attaccati. Basta un momento di distrazione, e subito c'è qualcuno pronto ad approfittare di ogni nostra minima debolezza, di ogni ingenuità. Niente viene offerto gratis: sembra che ogni cosa abbia un prezzo, che per ogni piccola gioia ci venga presentato un conto salatissimo.

Per vivere in un mondo così, o si impara ad essere altrettanto duri, o si finisce come gli eterni vasi di coccio in mezzo ai vasi di ferro.

E questa durezza, questa furbizia, questa attitudine al calcolo e all'opportunismo, si sposano anche, di solito, con un sano appetito animale, con una capacità di sprofondarsi nelle cose e di goderne con altri, perché ci s'intende a fiuto con quelli che appartengono alla stessa specie.

 

D'altra parte, la morte sta in agguato e ci aspetta, senza particolare fretta.

Non solo la nostra morte; anche quella delle persone a noi più care. Se ne sta lì, appollaiata sui rami della scura foresta, e attende la sua ora. Noi sappiamo che verrà: è l'unica cosa che sappiamo con assoluta certezza, fin da quando - bambini - cominciamo a capire che la morte è un sentiero senza ritorno.

Poi, ci sono quelle piccole morti che ci vengono inflitte dalle delusioni profonde; il male che ci viene da coloro ai quali volevamo bene, e dei quali ci fidavamo. Difficile, se non impossibile, farsene una ragione, darsi pace: le ferite continuano a bruciare e a sanguinare, ancora dopo anni e anni, come bruciavano e sanguinavano il primo giorno.

La delusione più cocente è quella che viene dagli amici, dagli amanti, dai figli. Noi saremmo stati pronti a dare la vita per loro, ed essi ci ripagano con l'ingratitudine più nera e con l'egoismo più sfrontato. E la cosa più sconcertante è vedere che, almeno apparentemente, l'egoismo e la furbizia pagano; che i più egoisti e i meno scrupolosi sono proprio quelli cui sembra andare tutto per il verso giusto.

Sì, in quei momenti ci si chiede che senso abbia continuare a trascinarsi sulla terra come vermi, a sopportare la farsa crudele di cui ci si sente vittime.

Eppure ci dicono che la vita è bella; che dobbiamo ritenerci fortunati di averla ricevuta in dono.

Sembrerebbe un'ironia.

 

In realtà, molte contraddizioni sono più apparenti che reali.

L'errore che si fa, quando ci si abbandono a considerazioni del genere, è quello di scordarsi della doppia natura dell'uomo, della sua natura anfibia: creatura della terra, ma anche celeste.

Con i piedi è affondato nella polvere nel fango, lotta per sopravvivere e per strappare qualche gioia al mondo, perché sa di avere i giorni contati, e non vuole arrendersi alla morte prima di aver succhiato tutta la polpa possibile al frutto della vita.

Ma con il capo è proteso verso l'alto, guarda il Sole e le stelle, respira il profumo dell'infinito e dell'eterno; sente, nelle oscure profondità del suo essere, che c'è qualche cosa d'altro, al cui confronto le più grandi gioie di quaggiù non sono che un debolissimo, sbiadito riflesso.

La sua parte terrestre si attacca alle cose, si aggrappa a ciò che è impermanente; sa che è una illusione, ma non può farne a meno. Ha dovuto sviluppare delle robuste difese, per imparare a vivere il mestiere della vita; e, di conseguenza, ha sviluppato l'attaccamento verso quelle cose per le quali ha lottato duramente. Misura il valore delle cose dalla fatica che gli è costata il procurarsele; e, quando riesce a soddisfare i propri desideri, ne stringe il frutto a sé, come un cane stringe l'osso fra le zampe: mostrando i denti a chiunque si avvicini.

La sua parte celeste, invece, ha fame e sete di altri cibi e di altre bevande: cibi che non si guastano e bevande che non imputridiscono. Ma egli raramente è disposto ad ascoltarla, e può accadere perfino che la soffochi del tutto, che si scordi d'averla.

Solo quando riesce a portarsi sul piano spirituale, l'uomo incomincia a vedere le cose in una prospettiva diversa. Non cessa di apprezzare le cose buone della vita, ma nemmeno commette l'errore di sopravvalutarle oltre ogni limite. Non le idolatra più; e, di conseguenza, non è più disperatamente dipendente nei loro confronti.

Impara che di molte di esse può fare a meno; di altre, può godere in modo più sobrio; e altre ancora, può viverle con un diverso stato d'animo: meno compulsivo, meno ossessionato, più grato ma anche più sciolto, più libero.

Impara a ringraziare, ma anche a giudicare con maggiore equità; e a non disperarsi per le cose che perde: perché, in realtà, non erano mai state sue.

Impara a godere di poco - di ciò che, quando si è immersi nel livello terrestre, può sembrare poco; ma lui, adesso, ha compreso che è molto.

Così, mano a mano che procede sulla via e che si trasforma - tra mille incertezze e mille cadute - in un essere spirituale, l'uomo impara a gioire di più con meno, e a disperarsi di meno per il distacco di quello che gli sembrava il più.

Sorride, ripensando al tempo in cui il suo cuore era soggetto a continui turbamenti; quando tutto il suo essere era squassato dai venti impetuosi del desiderio e del timore. Ma sorride con indulgenza e senza alcuna presunzione, perché sa anche che la battaglia non è mai vinta del tutto - non finché siamo quaggiù, almeno. Sa che potrebbe cadere di nuovo, che nessuno è immunizzato una volta per tutte. Sa che bisogna conquistarsi la libertà spirituale giorno per giorno, ora per ora, momento per momento.

E, sovente, rimane pensoso.

Perché se prima, quando era una creatura quasi interamente terrestre, non riusciva a capacitarsi che si possa essere felici senza il possesso di tutte quelle cose che gli sembravano il corollario indispensabile della felicità, nemmeno ora, che è divenuto una creatura in gran parte spirituale, riesce a convincersi che aver amato la bellezza, la bontà e la verità, sia pure nelle fragili spoglie della sfera terrena, sia stato solo un inutile miraggio e una sterile illusione.

E, infatti, non lo sono stati.

Per l'uomo spirituale, le tappe del proprio cammino sulla via sono state preziose, necessarie, tutte degne d'esser vissute: non ne prova vergogna o rammarico, non arrossisce al pensiero di averle percorse con il cuore in tumulto.

Non si sale la montagna senza aver prima percorso le valli; non si esce a veder la luce senza  aver traversato, a tentoni, la penombra del bosco. E non si arriva in cima senza essere scivolati sui ghiaioni, almeno qualche volta.

Il coraggio è uno strano amico: prima di venire a te, lo devi conquistare; devi mostrargli che sei tu il più forte. Ma, a partire da quel momento, non ti lascerà mai più: ti starà sempre al fianco, più fedele di un cane da guardia.

 

Il grande yogi, Paramahansa Yogananda, maestro del sereno distacco e della liberazione da ogni forma di attaccamento, amava teneramente un cerbiatto; e così l'animale amava lui. Quando il santo uomo predicava o istruiva i suoi seguaci, anche il cerbiatto veniva a lui, fra gli altri, come per ascoltarlo.

Un giorno il cerbiatto si ammalò, e grande fu l'angoscia di Yogananda all'idea di perdere quel suo tenero amico. Non poteva accettare l'idea di doversene separare: chiamò degli esperti veterinari, fece di tutto per salvargli la vita.

Una notte il cerbiatto gli apparve in sogno e gli disse: «Ma perché vuoi trattenermi? Io sono chiamato lassù, nella luce, in un mondo assai più bello di questo».

Allora Yogananda comprese che la sua battaglia per tenere in vita il cerbiatto nasceva da una forma di attaccamento, e che tale attaccamento è una forma di egoismo.

Coloro che si sentono chiamati dalla morte, sanno che li attende una realtà molto migliore di quella terrena; ma a trattenerli, e con dolore, è lo smarrimento delle persone che li amano. Come le lacrime sul viso di un amico, mentre il treno sta partendo: è difficile affrontare il passo della morte, se quelli  che amiamo non riescono a rassegnarsi all'idea del distacco.

Certo, la perdita delle persone care è un duro colpo: il più duro di tutti, sul piano umano.

E, subito dopo, viene la perdita morale: quando coloro che amiamo ci deludono a un punto tale, che è come se per noi fossero morti; e anche noi moriamo un poco con loro.

Dovremmo, però, aver sempre chiaro che l'elemento doloroso del distacco non risiede nel fatto che le persone care se ne vadano da noi, ma che noi dovremo avere ancora tanta pazienza, prima di poterle ritrovare. In altre parole, dobbiamo capire che siamo stati noi a rimanere indietro, non loro che ci hanno abbandonati.

In realtà, non ci hanno abbandonati; ma noi facciamo fatica a comprenderlo, perché l'uomo terreno, che è in noi, si alza subito in piedi, in preda al panico, e comincia ad agitarsi, come un bambino piccolo che abbia visto la sua mamma andare in un'altra stanza. La mamma non lo ha affatto abbandonato; vuole, probabilmente, abituarlo, poco alla volta, a una maggiore autonomia. Ma questo fatto, sulle prime, il bimbo non lo può capire; perciò piange e si dispera: vorrebbe che lei stesse sempre lì, con lui; che non lo lasciasse neanche per un attimo.

 

Questo, dunque, è il segreto più riposto dell'arte di vivere, che è poi l'arte di imparare a morire: che ci si deve dare alla vita con generosità, senza riserve; ma che, al tempo stesso, bisogna anche aver lo sguardo fisso su ciò che è permanente, di là dalla vita nella sua forma presente. Saper gustare il convito, ma anche essere pronti ad alzarsi in qualunque momento: e ad alzarsi con gioia, per rispondere alla chiamata verso una dimensione infinitamente più armoniosa.

Contemperare queste due esigenze non è cosa facile, però dobbiamo ricordarci di avere un potente alleato.

C'è un guerriero, dentro di noi - così dice la millenaria saggezza dello Yoga: un guerriero che è pronto a combattere per noi, al nostro posto, purché noi lo chiamiamo e ci fidiamo di lui. Un guerriero che non può essere sconfitto, perché le sue risorse sono inesauribili.

Dobbiamo solo chiamarlo e, poi, lasciarlo fare.

Lui combatterà, lui vincerà; e noi conserveremo il nostro distacco.

Le religioni monoteiste preferiscono parlare di un aiuto esterno: della Grazia, per esempio.

Non importa; non sono differenze di sostanza, anche se - a tutta prima, potrebbero sembrare tali. Quello che conta, è che noi possiamo contare sull'aiuto di una forza poderosa, benevola, che non si dimentica di noi neanche per un momento.

Una grande forza amica, che ci rivela la parte migliore di noi stessi e che, nello stesso tempo, è in grado di assicurarci serenità e calma interiore, anche nei passaggi più impervi del nostro cammino terreno.

Quella forza, comunque la vogliamo chiamare, è come un'anticipazione della dimensione celeste del nostro essere, cui siamo chiamati da sempre, e da sempre destinati.