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Le merci non viaggiano più. La produzione torna locale

di Maurizio Ricci - 25/06/2008

 
Ci sono compagnie aeree che hanno già cominciato a tagliare i voli no-stop fra continente e continente, quella ragnatela di collegamenti per cui ti sedevi su un aereo a Londra, ti mettevi a dormire e ti svegliavi a Shangai. Aziende americane che hanno chiuso una fabbrica in Messico e ricominciato ad assumere sotto casa, in Ohio. Imprese italiane che ripensano la delocalizzazione.

Il commercio mondiale rallenta: era cresciuto dell' 8,6 per cento nel 2006, aumenterà del 4,5 per cento quest' anno. Che succede? Il mondo ha smesso di restringersi. Anzi, sta diventando più grande e rischia di tornare alle dimensioni, più o meno, di trent' anni fa, quando ogni frontiera era una costosa barriera doganale e andare da Roma a Buenos Aires comportava esotiche soste a Dakar e a Rio. La "morte della distanza", come fu fantasiosamente definita, è ancora realtà di tutti i giorni nelle telecomunicazioni, su Internet, nel "villaggio globale". Ma, quando non si tratta più solo di parole - scritte o a voce - ma di beni, merci e persone, la distanza torna a pesare.«La globalizzazione è reversibile» avvertono due economisti - Jeff Rubin e Benjamin Tal - in uno studio per la Cibc, la maggiore banca d' investimenti canadese. Ci sono fette di economia che cominciano a richiudersi su se stesse, a livello nazionale o anche locale. I motivi sono spesso politici, culturali, finanziari, sociali. Ma la molla decisiva, che ha impresso un brusco scatto e una direzione precisa a quello che, fino a ieri, era ancora solo un vago sentimento di diffidenza verso la globalizzazione, è la corsa dei prezzi del petrolio. Il 90 per cento (in tonnellate) del commercio mondiale viaggia intorno al mondo via nave. Se importate collane di diamanti o circuiti stampati per computer, roba piccola, leggera e cara, quella corsa del petrolio vi interessa assai poco. Ma se importate mobili o cemento - roba grossa, pesante e da vendere per un pugno di euro - è una corsa che devasta i conti della vostra azienda: avere la fabbrica in Cina può diventare una pietra al collo. «La liberalizzazione del commercio e la tecnologia possono aver reso il mondo piatto» scrivono Rubin e Tal. «Ma l' aumento del prezzo dei trasporti lo renderà di nuovo rotondo»: spedire una nave container da Shangai a New York costava 3 mila dollari, quando il petrolio era a 20 dollari al barile.

Oggi, con il petrolio a 140 dollari, ne costa 8 mila. Se arrivasse a 200 dollari, il conto sarebbe di 15 mila dollari. La bolletta del carburante sta diventando più importante dei dazi doganali e rischia di annullare i vantaggi della loro riduzione, che ha impresso una spinta decisiva alla globalizzazione dell' industria mondiale. E comincia ad intaccare anche i benefici che la rivoluzione dei container ha portato al trasporto marittimo. I container hanno praticamente dimezzato i costi del trasporto merci via nave. A leggerli in termini di tariffe doganali, i risparmi resi possibili dai container equivalgono ad aver abbattuto il dazio d' importazione negli Usa dal 32 al 9 per cento. Ma, ora, la formula comincia a funzionare al contrario, dice lo studio della Cibc. La stessa rivoluzione dei container presuppone navi sempre meno ferme nei porti, sempre più in movimento, sempre più veloci, per mangiare la distanza. Ma rimpicciolire il mondo, andando a tutto vapore, costa sempre di più. Aumentare del 4 per cento la velocità di una nave, che deve vincere la resistenza dell' acqua, significa consumare oltre il 10 per cento di carburante in più. Negli ultimi 15 anni, navi sempre più veloci hanno voluto dire un raddoppio del costo di trasporto per unità di carico. E anche le rotte sempre più lunghe incidono: aumentare del 10 per cento la distanza percorsa, significa aumentare del 4,5 per cento il costo del trasporto. Il mondo era stretto, quando la distanza fra un punto e l' altro era, in termini economici, indifferente. Non è più così. Proviamo a leggere di nuovo questo costo del trasporto come se si trattasse di un dazio doganale. Con il petrolio a 20 dollari al barile, come nel 2000, il costo del trasporto equivaleva ad un dazio del 3 per cento. Ai prezzi attuali - oltre i 130 dollari - è come se ci fosse un dazio del 9 per cento sulle importazioni, che, se il greggio arrivasse a 150 dollari, salirebbe all' 11 per cento, la tariffa media degli anni '70. Con il petrolio a 200, questa sorta di tassa sulle importazioni arriverebbe al 15 per cento, come prima degli accordi Gatt del Kennedy Round, a metà anni '60. A questi livelli, i salari stracciati degli operai cinesi diventano meno importanti. Anche perché metà dell' export cinese dipende da materiali importati e, dunque, il costo del trasporto incide due volte. Dopo dieci anni, le acciaierie americane sono tornate competitive, rispetto alle importazioni dalla Cina. E il basso costo del lavoro della manodopera asiatica diventa anche meno appetibile.

Il Wall Street Journal registra una serie di casi di de-globalizzazione. L' azienda di pompe idrauliche che, dopo aver delocalizzato dall' Indiana alla Cina lavorazioni di fonderia per 1 milione di dollari, ha rispostato i suoi ordini sui fornitori americani. L' industria di batterie elettriche che ha ripreso ad assumere in Ohio. Il produttore di divani e quello di radiatori che, dopo aver aperto una fabbrica in Cina, ci hanno tutt' e due ripensato e sono tornati a produrre in patria, ben contenti di non essersi ancora liberati dei vecchi macchinari. La svolta può avere ripercussioni enormi sull' economia mondiale. Gli economisti calcolano che un raddoppio del costo dei trasporti comporta una riduzione del 45 per cento dei volumi del commercio. «Non basta l' aumento del petrolio per avere effetti così vasti» osserva Paul Krugman. Tuttavia, se il petrolio restasse ai livelli attuali a lungo, Krugman valuta che il commercio mondiale potrebbe, in linea di principio, contrarsi del 17 per cento. Più che una riduzione secca, tuttavia, l' effetto più immediato sarebbe, probabilmente, un frammentarsi della globalizzazione, una regionalizzazione del commercio. È già successo. Dopo lo shock petrolifero degli anni '70, le importazioni americane da Europa e Asia si ridussero del 6 per cento, mentre aumentavano nella stessa misura quelle dall' America latina. Vedremo più etichette "made in Bulgaria", piuttosto che "made in China" nei negozi? Possibile.

Ma di questo mondo più frammentato, più lento, più complicato che ci regala la crisi del petrolio, ci accorgeremo anche viaggiando. La Thai Airways ha deciso di cancellare il volo diretto New York-Bangkok. L' Aer Lingus quello Dublino-Los Angeles. L' American Airlines non vola più direttamente ad Austin: bisogna fare scalo a Dallas. Gli esperti dicono che è solo l' inizio della ritirata dai lunghi voli no-stop. Ancora una volta, la colpa è del prezzo del carburante, che incide per il 40 per cento sul costo di un volo. E portare un aereo dall' Europa a Los Angeles vuol dire consumare il 30 per cento di carburante in più, ogni ora di volo, rispetto ad un volo dall' Europa a New York. Perché? Perché il carburante in più serve, appunto, a trasportare il carburante in più, necessario per un volo più lungo senza rifornimento. Non ce lo possiamo più permettere.