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Mentre si muore di fame, verdure e globalizzazione vanno al macero

di Lucia Venturi - 25/06/2008

Qualche settimana fa dal vertice Fao di Roma veniva lanciato l’allarme della necessità di trovare i rimedi per sfamare i milioni di persone che si aggiungono a quelli che storicamente non arrivano alla vecchiaia (e spesso nemmeno alla pubertà) per mancanza di cibo: erano 800 milioni gli affamati della terra nel 1996 quando fu annunciato l’obiettivo del Millennium goal di ridurre alla metà questa cifra entro il 2015, oggi non solo l’obiettivo è lontano ma a questi se ne sono aggiunti altri 50 milioni e sono destinati ad aumentare. Serve più cibo, si è detto a quel vertice, bisogna produrre di più ricorrendo anche alle coltivazioni Ogm. Anche l’Europa non potrà più permettersi di mettere al bando le sementi modificate, per far fronte ad una crisi alimentare con dimensioni planetarie.

Oggi l’allarme viene dai produttori agricoli italiani della Cia, che denunciano di essere costretti a lasciare marcire frutta e verdura nei campi e nei frutteti perché i prezzi di vendita non riescono a coprire le spese di raccolto. Dinamiche di mercato che si avvitano su stesse e portano alla conseguenza che ogni anno ben 1,5 milioni di tonnellate di prodotti alimentari vadano al macero e 4 miliardi di euro in fumo.

Mentre aumentano i costi al mercato per i consumatori, e quelli per gli agricoltori- spiega la Cia - che stanno diventando i più poveri d’Europa. Colpa di una filiera che allunga la catena e comprime i profitti, che sconta speculazioni internazionali e rincari delle materie prime. Le imprese riportano a casa le fabbriche che avevano delocalizzato, perché l’aumento dei prezzi del carburante non ripaga il risparmio nei costi sulla manodopera e sulle spese ambientali, che si potevano evitare in altri paesi.

Paradossi di un sistema economico che ormai fa acqua da tutte le parti. Paradossi di un modello economico dell’abbondanza che ha invece alimentato la povertà. Che è arrivato al punto di ripiegarsi su stesso. La globalizzazione si de-globalizza, si frammenta.
«La situazione è tragica ma non è seria» avrebbe detto Ennio Flaiano.

Che sia tragica ci sono i numeri e le notizie quotidiane a metterlo in evidenza: aumentano i poveri, aumentano le popolazioni affamate, aumentano i segnali di un cambiamento climatico che non è più un argomento di dibattito per salotti d’elite, aumenta la paura del presente e del futuro, l’economia globale vive una crisi finanziaria duratura con un prorompente effetto domino sull’economia reale.
Che non è seria è dato dal fatto che la globalizzazione è ormai ricusata da parte di chi l’ha promossa, esaltata, letta come salvifica per un sistema economico che viveva la crisi dei mercati.

E che adesso vorrebbe frenare, e tentare il dietro front. Buttando via il bambino assieme all’acqua sporca. Illudendosi che basta mettere i paletti e costruire muri e barricate per rimanere protetti da un sistema che non ci va più a genio. Che rischia di mettere in discussione il benessere che ancora ci appartiene. Convinti che basta chiudersi all’interno dei propri confini per evitare di essere coinvolti nelle crisi planetarie, cambiamenti climatici in testa con tutte le conseguenze al seguito. Nell´ingenua illusione che la globalizzazione possa essere reversibile in tutto. Per questo la situazione è tragica ma non è seria, perché non è serio il modo di affrontarla.

Perché le risposte non sono all’altezza del problema ma sottodimensionate alla sua gravità.
Perché ancora una volta l’homo faber pensa di rimettere a posto le cose che ha incrinato, con gli stessi strumenti che lo hanno portato a romperle. Ma l’effetto moviola (dispiace deluderlo) non è dato in questi casi.