Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il dramma della storia fra ragion di stato e valori universali nel pensiero di Friedrich Meinecke

Il dramma della storia fra ragion di stato e valori universali nel pensiero di Friedrich Meinecke

di Francesco Lamendola - 25/06/2008

Il 1° maggio del 1945 Hitler si suicida nel bunker della Cancelleria di Berlino, mentre le truppe sovietiche, che hanno ridotto la capitale tedesca a un cumulo di macerie, combattendo casa per casa  erano giunte ormai a poche centinaia di metri. Una settimana dopo, il giorno 7 maggio, viene firmata, a Reims, la resa incondizionata della Germania agli Alleati: come nel 1918, ma in circostanze molto più drammatiche e con la prospettiva di un trattamento molto più duro. La potenza del Terzo Reich è andata in pezzi, e il suolo tedesco è spartito dalle quattro potenze vincitrici in altrettante zone di occupazione. Il 20 novembre ha inizio il processo di Norimberga, che mette sul banco degli accusati non solo i massimi esponenti del regime nazista, ma, da un punto di vista morale, l'intera nazione sconfitta.

È la più grande catastrofe della storia della Germania ed è piombata sul popolo tedesco, con violenza inaudita, nel breve volger di pochi anni, quando sembrava che i sogni di grandezza dei suoi capi fossero divenuti realtà, nel quadro di un'Europa interamente dominata dall'Asse. Davanti a quello spettacolo straziante, con le città rase al suolo dalle bombe aeree degli anglo-americani e con milioni di profughi che hanno dovuto fuggire dalle province orientali, fra stenti inenarrabili, davanti all'avanzata dell'Armata Rossa, gli intellettuali tedeschi che, pur non approvando la politica del nazismo, sono rimasti in patria, hanno il cuore straziato dal dolore e cercano di cogliere il senso dell'immane disastro, la lezione della storia in esso contenuta.

 

Lo cerca, con particolare ansia e accoramento, l'esponente più prestigioso dello storicismo tedesco della generazione successiva a quella di Dilthey e di Troeltsch: quel Friedrich Meinecke  (1862-1954) la cui lunga ricerca filosofica non è stata che una continua, appassionata ricerca dei limiti reciproci fra i diritti della politica di potenza e le ragioni del cosmopolitismo e dell'univeralismo, tra la nuda ragion di stato e i valori generali che trascendono la misura delle singole patrie, compresa l'amatissima patria germanica.

Le pagine de Die deutsche Katastrophe (La catastrofe tedesca, 1946), scritta alle soglie dei novant'anni, l'indomani del disastro del maggio 1945, suonano straordinariamente lucide e dignitose e danno la misura del rigore morale e della coerenza intellettuale di quella straordinaria figura di storico e di filosofo. In esse si vede il travaglio del pensiero di uno spirito onesto che s'interroga, da un lato, sulle "vie sbagliate" prese dalla storia tedesca a partire da un certo momento (quale: da Bismarck, da Federico il Grande?) e, dall'altro, se quella del 1945 fosse una vera e propria finis Germanie o se fosse possibile sperare ancora nel miracolo di una ripresa, ma su basi interamente nuove e diverse. E ancora - ma su un piano molto più generale -, egli non poteva fare a meno di tornare, incessantemente,  sul problema della politica come regno del potere, come machiavellica "giustificazione dei mezzi" in vista del fine. Aveva ragione Jacob Burckhart quando affermava, nelle sue Weltgeschichte Betrachtungen, che il potere è malvagio in se stesso; oppure, come aveva sostenuto lo stesso Meinecke, esso diviene malvagio solo quando chi lo detiene è tentato di abusarne?

Così riassume le problematiche di quel libro lo studioso italiano Fulvio Tessitore, nella sua monografia Introduzione a Meinecke (Editori Laterza, Bari, 1998, pp. 116-119):

 

Ormai lo struggente ricordo dei momenti nevralgici della vita storica della Germania contemporanea, già tante volte studiata, serve a porre la domanda sulle «vie sbagliate» della storia tedesca, sia pure con la riposta speranza di potere problematicizzare la costretta, necessaria revisione imposta dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale, speranza di riscatto nascosta dietro l'interrogativo che accompagna la questione proposta, quasi a esorcizzarla nel suo dirompente significato. Eppure il vecchio storico, a differenza di tanti altri suoi colleghi, vedeva impietosamente che «era la degenerazione del popolo tedesco quella che ci sforziamo, andando per tentoni e a tastoni, di intendere nel suo primo abbozzo». Ormai «dobbiamo ammettere - egli riconosceva rassegnato - che abbiamo poco notato i punti neri che, occulti, oscuravano lo splendore della impresa» realizzata nel 1866. E proprio il ritorno all'annus mirabilis della storia tedesca gli faceva ormai alitare intorno «l'aria della tragicità della storia», lo rigettava, con forza impietosa, «nella grave esperienza fondamentale della nostra età, essere cioè la storia anche sempre tragedia». Eppure chi sa se, anche ora, Meinecke sarebbe stato disposto a condividere - qualora avesse potuto conoscerle - le idee che, qualche ano prima della morte, nel 1923 Rainer M. Rilke aveva manifestato alla duchessa Gallarati Scotti in una lettera pubblicata soltanto nel 1956. «Il 1866 - aveva scritto il poeta - mi sembra essere l'inizio di molti errori di cui oggi subiamo le conseguenze. Quell'anno, infatti, segna la nascita della terribile egemonia prussiana che,  unificando brutalmente la Germania, ha soppresso tutte le semplici amabili Germanie del passato. La Prussia, il meno tedesco e il meno civile degli Stati, questo incorreggibile parvenu, è riuscita a sovrapporre a volti appena formati la maschera raggelata di un demonio ingordo che attira e provoca sventura». Vent'anni dopo Rilke, nel 1946, Meinecke, per suo conto  ricordava Theodor Fontane, ossia il rappresentante più vitale di tutto il bello e di tutto il grande della tradizione prussiana, che pure, già nel 1877, aveva affermato che «il prussianesimo è la più bassa forma di civiltà che sia mai esistita solamente il puritanesimo è ancor peggiore di esso perché è tutta una menzogna».

Certo Meinecke riconosceva l'insufficienza, meglio e più ancora, l'enormità di ogni concessione a motivi nazionali e nazionalistici, pur se non abbandonava l'idea forte dello Stato come comunità di soggetti liberi e garantiti nella sicurezza dell'ordine giuridico. Scorgeva nella degenerazione  di questa idea l'origine della catastrofe europea, non solo tedesca, pur se la Germania era al centro di questo colpevole crollo. In fedeltà alla sua concezione della storia (ed è ben singolare accusarlo di questa fedeltà, come pure è stato fatto), egli sottolineava la rilevanza, anche e molto più in questo processo di degenerazione del ruolo degli individui e dei fattori individuali senza mancare di riprendere un tema humboldtiano, ossia l'incidenza del caso, dei fattori casuali della storia. Ciò, tuttavia, non comportava l'accettazione, pur surrettizia, dell'irrazionalismo, o lo sconfinamento , desolato e deluso, nel moralismo. Al contrario. L'insistenza sul significato dello Stato  indicava il persistere dell'insegnamento di Ranke, ormai colto non più nel suo significato ideologico quanto in quello descrittivo, quando ritrovava nel sistema degli Stati europei la garanzia dell'equilibrio e la liberazione  dalle moire egemoniche di questo o quello Stato. Per Meinecke la catastrofe della Germania e la sua colpa erano la causa  e la conseguenza della risi del sistema degli Stati europei. Perciò le sue indagini ritornano - secondo le antiche movenze dell'Idea della ragion di Stato - sull'incontro torbido di nazionalità e socialismo e sull'intrecciarsi di nazionalismo, militarismo e imperialismo, intesi quali fattori di una crisi, per altro inevitabile e come tale ormai accolta. Tutti questi elementi alimentarono il nazismo (Meinecke preferisce dire hitlerismo, né la scelta è insignificante o senza ragione e senso nelle sue ultime ricostruzioni). Nelle frastagliate e accidentate tavole dell'atlante ideologico europeo, l'hitlerismo diede corpo al demoniaco della storia. Nel "sistema", nelle sue componenti e nelle sue tendenze andava ricercata l'origine della catastrofe e il significato tragico di essa. Su un altro piano, l'insistenza sul valore dei fattori individuali e casuali intendeva sottolineare il carattere di possibilità e non di necessità della storia,  così da garantire il giudizio della storia e sulla storia, anche qui in coerenza con l'antico antihegelismo (che, non a caso, torna esplicito nella Catastrofe della Germania), là dove lo storico si domanda, tremebondo, se «v'è un avvenire per l'hitlerismo?» e con la radiata concezione della storia come scienza etica perciò contraria alla filosofia della storia. In tal senso, e senza voler negare i limiti di questa sprema fatica del vecchio, né il talvolta troppo invadente - per quanto confessato - biografismo (si ricordi il sottotitolo del libro:  Betrachtungen und Eriunnerungen), è innegabile che la forza dell'indagine, ardimentosamente tentata con le energie residue, quando si rileggono le pagine che indagano il rapporto tra «militarismo e hitlerismo», o tra «bolscevismo e hitlerismo», o tra «hitlerismo e cristianesimo», o ancora tra «hitlerismo e potenze occidentali», vale a dire un analitico spaginare il libro complesso della storia recente europea nel capitolo forse più terribile. Ciò di certo è più facile riconoscerlo oggi, dopo il crollo dell'ottuso ideologismo comunistico e del soffocante propagandismo sovietico, che hanno nascosto, per qualche decennio buio, sotto la cappa della menzogna l'indagine rigorosa della storiografia non di parte, tra cui va inserita anche quella della maturità e vecchiezza di Meinecke

Ciò non significa, ripeto, disconoscere il ritardo di una revisione dolorosa o la debolezza di una proposta alternativa, specie se questa si confronti con la lucidità della diagnosi. Certamente nobile e però fievole è l'affidamento della purificazione dello Stato nazionale tedesco alle spirituali «comunità di Goethe»; oppure l'insistenza sul problema della rieducazione morale e culturale della nazione tedesca. Troppo incerta, e però assai lucida, la richiesta di una  federazione europea, pur se non va trascurato - senza dimenticare che tutto ciò veniva enunciato nel 1946-48, quasi ancora tra lo stridore delle armi, certamente tra sofferenze e dolori di un terribile dopoguerra di distruzioni, morti, umiliazioni - la lungimiranza di una proposta che affida la tradizione pluralistica della storia tedesca più vera e il processo di democratizzazione del popolo tedesco (ché questo significa la preoccupazione meineckiana per la rieducazione morale dei tedeschi) non alla ripresa di motivi giusnaturalistici (troppo astorici per battere il realismo della storia), né ad assai insicuri esami di coscienza collettiva, bensì all'unità europea come al solo possibile antidoto alla carica nazionalistica indotta dalla divisione  coatta della Germania ovvero al fatale prevalere dell'aspirazione alla riunificazione sull'esigenza della libertà (un problema che Karl Jaspers avrebbe drasticamente e impietosamente argomentato qualche anno dopo)…

 

Come si vede, la riflessione di Friedrich Meinecke sul dramma tedesco del 1945 non è di mero interesse storiografico e non riguarda solo il problema specifico della storia della Germania, bensì tocca e coinvolge aspetti decisivi della filosofia della storia; di che cosa debba essere la politica nazionale e internazionale; di quale futuro si possa immaginare per l'Europa e per l'intera umanità, dopo la terribile esperienza di due conflitti mondiali nel breve volgere di un trentennio.

Il prevalere della Prussia, con la classe reazionaria degli junkers e dei loro interessi egoistici, nel Reich "creato" da Bismarck nel 1871; e, più in generale, il prevalere dell'esaltazione pangermanista, dopo il 1866, sulla tradizione culturale dei vari Stati tedeschi, cessano così di apparirci come delle questioni riguardanti soltanto la storia e il destino della Germania, ma ci mostrano, come in filigrana, gli inquietanti interrogativi che emergono dalla riflessione sul rapporto fra uso legittimo e illegittimo del potere; fra diritti delle nazionalità e irresistibile richiamo dei nazionalismi; fra «sacro egoismo» della nazione e valori etici universali, che dovrebbero stare alla base di ogni forma di politica internazionale.

Ci si accorgerà, così, che le "vie sbagliate" imboccate dalla storia tedesca moderna e contemporanea non sono, nella sostanza, diverse dalle "vie sbagliate" percorse da tutte le potenze europee e mondiali, grandi e piccole: ciascuna impegnata nell'affermazione del proprio, limitato interesse, a detrimento dell'interesse generale, della prosperità e della pace comuni. Così avevano agito gli Alleati nel 1919, così stavano agendo all'epoca in cui Meinecke scriveva La catastrofe tedesca. Riflessioni tutt'altro che giustificazioniste, poiché non ceravano di attenuare le responsabilità della Germania e, in particolare, del regime nazista.

E, quanto alla scelta terminologica di adoperare il termine "hitlerismo" in luogo di "nazismo", nemmeno questa si può interpretare - a nostro avviso - come un tentativo di scindere arbitrariamente le responsabilità del popolo tedesco da quelle dei suoi capi recenti. Significa, piuttosto, riconoscere da un lato l'importanza del fattore individuale dello storia (che non deve essere esagerata, ma neppure trascurata) e, dall'altro, la semplice verità che difficilmente vi sarebbe stato il nazismo senza Hitler, così come difficilmente vi sarebbe stato il fascismo senza Mussolini. Vi sarebbe stato qualche cosa di analogo, forse; ma non qualche cosa di identico.

Inoltre, il culto della personalità che caratterizza i totalitarismi del Novecento è meglio reso mediante espressioni quali "stalinismo" e "hitlerismo"; solo che (e qui ha ragione Tessitore) per decenni la storiografia politicamente corretta si è rifiutata di equiparare i crimini sovietici a quelli nazisti, per cui parlare di "stalinismo" evitava di coinvolgere nel giudizio negativo l'ideologia comunista, mentre parlare di "hitlerismo" sarebbe parso un espediente per rivedere il giudizio negativo sul nazismo in quanto tale. Due pesi e due misure, insomma; cui non crediamo sia estranea la circostanza che l'Unione Sovietica, nel 1945, era venuta a trovarsi dalla "parte giusta" della storia - mentre non lo era stata, ad esempio, nel 1939, quando si spartiva la Polonia con Hitler o quando attaccava, senza alcun pretesto, la neutrale Finlandia.

 

L'ambivalenza del giudizio di Meinecke sulla storia tedesca e sul ruolo del potere nella politica internazionale è anche, in ultima analisi, un riflesso della sua ambivalenza nei confronti della storia in quanto tale.

Come Nitezsche, al quale per taluni aspetti si rifà, Meinecke non è un adoratore della storia in quanto tale, pur essendo considerato uno dei massimi esponenti dello storicismo tedesco, fondato da Wilhelm Dilthey una generazione prima di lui (cfr. F. Lamendola, Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey, consultabile sul sito di Arianna Editrice). E le perplessità di Meinecke nei confronti della storia, in quanto regno dell'esistente, della pura fattualità, sono in sostanza le stesse che già aveva manifestato uno dei lontani precursori del pensiero storicistico: Goethe, al quale il filosofo tedesco dedica alcune delle pagine più acute e penetranti di quello che è, forse, il suo capolavoro: Le origini dello storicismo (titolo originale: Enstehung des Historismus, traduzione italiana di M. Biscione, C, Gundolf G. Zamboni, Sansoni Editore, Firenze, 1954, 1967).

Il fondo del pensiero di Goethe, per Meinecke, è sempre stato neoplatonico. Goethe era «l'uomo del presente sensibile», del quale fu detto una volta che «l'intera natura, ogni filo d'erba, ogni parola e sguardo parlano a lui e si plasmano in sentimento e immagine nella sua anima»; e, di conseguenza, egli provava una istintiva diffidenza per il mondo del divenire storico.

Scrive Meinecke in proposito (Op. cit., p.  429):

 

In fondo a questo atteggiamento c'era ben più che non soltanto la ribellione di un più profondo senso di vita contro le motivazioni superficiali del pragmatismo volte ai fati più appariscenti. Era l'elemento soggettivo, inscindibilmente per sempre legato alla tradizione e alla considerazione storica, che lo rendeva diffidente. Ciò risulta specialmente dalla conversazione con lo storico di Jena. Luden, intorno al valore della storia (1806). Quando Luden gli oppose la possibilità di superare con metodi di indagine critica i difetti e le contraddizioni che si annidano nella tradizione, e di pervenire così alla verità, Goethe gli rispose che questa sarebbe stata solo verità soggettiva e non indiscutibile verità oggettiva. Quando poi doveva vedere dei dotti con la stessa acutezza o la stessa insensatezza giungevano a delle opinioni storiche differenti, gli veniva di sorridere. «Perciò i tutte le cose storiche c'è un carattere strano, incerto e si arriva davvero al comico, quando si rifletta come ci si voglia convincere con sicurezza di cose da lungo tempo trascorse» Solo allorquando credeva di aver trovato e plasmato una verità oggettiva si sentiva, una volta acquistata piena consapevolezza sul proprio conto, incrollabilmente posto sulle fondamenta del proprio essere.

 

D'altra parte, Goethe nutriva anche un atteggiamento positivo nei confronti della storia, tanto è vero che non solo seppe trattarla in maniera grandiosa, ma elevò anche a principio metodologico la nuova maniera di considerare la storiografia adottata da Möser e da Herder, consistente nel vedervi operanti, insieme, tutte le forze dello spirito e dell'anima, nessuna esclusa.

E dietro di Goethe, Herder: fu quest'ultimo a esercitare una influenza decisiva nella concezione storica che Meinecke definisce storicista.

Herder, che aveva polemizzato con la filosofia della storia propria dell'illuminismo; che, in opposizione non solo alla Francia dei "lumi", ma anche allo statalismo prussiano, aveva negato l'idea del progresso come sviluppo rettilineo della ragione; e che era giunto ad affermare che «ogni nazione ha in se stessa l'epicentro della propria felicità, come ogni sfera contiene il proprio centro di gravità».

Osserva Carlo Antoni, su questa connessione fra Heder e Meinecke da una parte, fra Herder e Leibniz dall'altra (in Dallo storicismo alla sociologia, Sansoni Editore, Firenze, 1940, 1973, pp. 118-119:

 

Più che a Goethe, più che a Ranke, è, in fondo, a Herder che Meinecke fa pensare. Il suo metodo, che si è andato sempre più affinando, nella sua ultima opera è herderiano per lo sforzo di cogliere attraverso le idee, le individualità, di dare alle idee stesse una tonalità incomparabile, mano a mano che passano e si rinnovano nei singoli pensatori. (…)

Ma dietro a Herder sta Leibniz. Infatti, più ancora che il neoplatonismo di Shaftesbury, è la monadologia leibniziana che forma il fondo metafisico di questo "storicismo". Anche l'altro difensore dello storicismo, Troeltsch, l'amico di Meinecke, vagheggiava un ritorno alla metafisica in senso leibniziano. Troeltsch sognava una sorta di sincretismo con la dottrina della visione delle idee in Dio di Malebranche e con la dialettica hegeliana. Qui, invece, c'è la tendenza ad avvicinare la monadologia al panteismo neoplatonico, verso un ideale di armonia prestabilita: monadi che rimangono, nel loro fondo, oscure ed ineffabili, sorgenti di forze irrazionali, ma tra loro partecipi d'una vita universale. Si può dubitare se questa metafisica sia acconcia premessa per l'interpretazione della storia: le monadi, anche se si ammette che siano accoglienti verso i moti esterni, sono degli inizi assoluti e rimangono, per quel tanto che sono ineffabile individualità, energie oscure, che si chiariscono solo quando, cessando d'apparire nella loro estemporanea e puntuale "natura", entrano come momenti nel corso della storia. Soltanto allora l'individuale si concilia con l'universale, diventa una realtà una con esso. Qui invece l'universale ha nell'individuale il suo limite, ha cioè la sua negazione-

Lo storicismo, inteso non solamente come il sovvertimento della raison matematica e meccanicistica, ma in generale delle fede nell'unità della natura umana, deve giungere ad un pluralismo, negatore dello stesso universale, e quindi alla dissoluzione della fede nel pensiero. A queste conseguenze del suo storicismo il Meinecke evita di giungere, trattenuto da quell'umanesimo di Goethte, di Herder, di Ranke, che ancora vive in lui.

 

Lo storicismo, se da un lato sottolinea una esigenza di concretezza nel ricordare che la vita, intesa come esperienza immediata, viene prima di ogni astratta razionalizzazione, dall'altro è sospinto dalla sua stessa logica a considerare la vita come sufficiente a spiegare se stessa e, quindi, a scivolare in una ipostatizzazione dell'esistente.

Questo è anche il limite della concezione filosofica di Meinecke, come già lo era stato di quelle di Dilthey e Troeltsch.

Ha notato in proposito il filosofo personalista Luigi Stefanini, con la sua abituale acutezza, nella Introduzione alla prima edizione, del 1938, de Il dramma filosofico della Germania, Cedam, Padova, 1948., pp. 6-9):

 

La nota esistenzialistica (…) può essere definita, da un punto di vista molto generale, come riduzione delle verità di ragione a verità di fato, ove s'intenda che il fatto, in virtù di tale riduzione, viene a perdere il significato corrente di evento fisico, per acquistare l'altro di accadimento nella sfera spirituale (Erlebnis). (…)

Un'esigenza ontica sormonta, quindi, l'esigenza logica: il pensiero vene ad essere incluso nell'essere, come un modo d'essere nell'essere. È presa la rivincita contro il logicismo che avrebbe voluto includere ed esaurire nel puro pensiero l'essere di ogni essere. Ma l'essere non se ne sta in invisibile maestà dinanzi allo sguardo miope dell'uomo, bensì a sua volta viene riconquistato dall'esistenza, viene risolto nell'esserci (Dasein) nella continuità delle apparizioni concrete che non lasciano fuori di sé nessun residuo per un'ontologia o scienza dell'essere in sé e per sé. È nei limiti dell'esistente che si coglie il senso esauriente dell'essere…

Costituzionalmente, perciò, la vita vene ad esser sottesa tra un principio di chiarità ed un fondo cupo, resistente ad ogni penetrazione razionale, in condizione di trascendenza reciproca l'uno sull'altro, ma immanenti entrambi nella vita, universale  connettivo delle antinomie  e risoluzione dei contasti che il pensiero pone astrattamente fuori della sintesi concreta della vita stessa. Inclusa l'esistenza nella ragione, il mondo dell'uomo si scinderebbe nei poi inconciliabili del soggettivo e dell'oggettivo, della natura e dello spirito, dell'umano e del divino, e la vita verrebbe dilaniata  da un realismo ingenuo o da un idealismo utopistico, dalla materialità ignara delle direttive coscienti dell'azione o dall'ascetismo ignaro della santità della natura, dalle livide rabbie della prepotenza o dai sogni angelici di universali pacificazioni. Invece, inclusa la ragione nell'esistenza, è tolta la possibilità di evadere verso l'una o l'altra delle due zone dissociate e, come la metafisica, al vertice della riflessione, comprende la mondanità nel raggio della spiritualità per crearne l'assoluto, così. a sommo della pratica realizzatrice, l'educazione copula il polo materno della razza col polo paterno dello spirito e ne foggia la vita piena dell'individuo e della Nazione. Questo è il corollario politico-educativo che si ricava da quella premessa filosofico-metafisica.

 

Bisogna dire che quella antinomia fra il mondo e lo spirito, fra l'individuo e la nazione, fra il potere e la libertà, fra la guerra e la pace, attraversa come un filo rosso tutto l'itinerario speculativo di Meinecke: questo prussiano che non amava troppo la Prussia; questo liberale che non amava affatto il nazismo; questo luterano che vedeva nello storicismo la seconda grande rivoluzione operata dallo spirito tedesco nell'età moderna, dopo la Riforma di Lutero.

 

Le opere principali di Friedrich Meinecke, che fu docente nelle università di Strasburgo, Friburgo e Berlino (della quale ultima cui è stato rettore dal 1949), sono: La vita del generale H. von Boyen (2 voll., 1896-99); L'epopea della sollevazione tedesca (1906); Cosmopolitismo e Stato nazionale (1908); Radowitz e la rivoluzione tedesca (1913); Dopo la rivoluzione(1919);L'idea della ragion di Stato nella storia moderna (1924); Le origini dello storicismo (1936); Senso storico e significato della storia (1939); La catastrofe tedesca (1946); Aforismi e schizzi sulla storia (1949); Specchio creativo (1948).