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Bush sta cercando di imporre all’Iraq una classica condizione coloniale

di Seumas Milne - 26/06/2008

I tentativi Usa di costringere gli iracheni a ingoiare una condizione permanente di vassallaggio e a rinunciare al controllo del loro petrolio rimandano alla storia imperiale britannica

 

 

Qualunque sia stato il motivo della guerra all’Iraq, ci avevano assicurato, non si trattava certamente del petrolio. Tony Blair aveva definito l’idea una "teoria del complotto". Riguardava la dittatura e la democrazia, le armi di distruzione di massa e i diritti umani, qualunque cosa tranne il petrolio. Donald Rumsfeld, allora Segretario alla Difesa Usa, insisteva che il conflitto non aveva "letteralmente niente a che fare con il petrolio". Quando Alan Greenspan, l’ex presidente della US Federal Reserve, scrisse, lo scorso autunno: "Lo sanno tutti: la guerra in Iraq riguarda per lo più il petrolio", venne trattato come se fosse un qualche vecchio signore affetto da demenza senile che aveva perso il ben dell’intelletto in modo imbarazzante.

Quella tesi sarà un bel po’ più difficile da sostenere a partire dalla prossima settimana, quando quattro fra le maggiori multinazionali del petrolio staranno per firmare contratti per ricominciare a sfruttare le enormi riserve dell’Iraq. Inizialmente, dovrebbero essere accordi della durata di due anni per aumentare la produzione nei maggiori giacimenti petroliferi iracheni. Ma i quattro giganti dell’energia - BP, Exxon Mobil, Shell, e Total – non solo hanno scritto i propri contratti con il governo iracheno, una pratica inaudita: si dice anche che si siano garantiti il diritto di opzione sui contratti di produzione - assai più remunerativi - della durata di 30 anni, attesi una volta che sarà stata approvata una nuova legge sul petrolio sostenuta dagli Usa, che permetterà un rilevamento totale da parte degli occidentali. Big Oil è tornato a tutta forza.

La storia è simile quando si tratta del futuro della stessa occupazione statunitense. L’ultima cosa che chiunque avesse in mente, ci avevano detto quando arrivarono i carri armati, era un controllo permanente dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, meno che mai la sua ri-colonizzazione. Si trattava di far sì che gli iracheni avessero finalmente una possibilità di gestire i loro affari in libertà. Tuttavia, cinque anni dopo, George Bush e Dick Cheney stanno sottoponendo a forti pressioni il loro governo della Green Zone affinché firmi un accordo segreto per una occupazione militare a tempo indeterminato, che in effetti ridurrebbe l’Iraq a uno Stato vassallo a lungo termine.

In aprile, mi avevano passato una copia della bozza di questo "accordo quadro strategico", destinato a sostituire l’attuale mandato delle Nazioni Unite a fine anno. Particolari del documento, che era arrivato da una fonte all’interno del governo iracheno, furono pubblicati sul Guardian – fra questi c’era una autorizzazione a tempo indeterminato per gli Usa a "condurre operazioni militari in Iraq, e ad arrestare  individui in caso di necessità per ragioni obbligatorie di sicurezza". Da allora, sono emerse molte altre cose sullo "Status of Forces Agreement" collegato, che l’Amministrazione Usa vuole imporre: fra di esse, oltre 50 basi militari Usa, il controllo totale dello spazio aereo iracheno, l’immunità legale per le forze armate Usa e le compagnie private di sicurezza, e il diritto di condurre operazioni armate in tutto il Paese senza consultare il governo iracheno.

Questo va molto al di là di altri accordi di questo tipo che gli Usa hanno in giro per il mondo, e incatenerebbe l’Iraq a una condizione permanente di fantoccio. Non sorprende che abbia provocato una sollevazione nel Paese, e una opposizione negli Stati Uniti, dove il Congresso non potrà votare sull’accordo perché l’Amministrazione ha scelto di non definirlo un trattato.

Ma esso evoca anche forti ricordi in Iraq, che per questa strada ci è già passato. Dopo aver invaso e occupato il Paese durante la prima guerra mondiale, la Gran Bretagna impose un trattato sorprendentemente simile al suo governo fantoccio nel 1930 - in preparazione dell’indipendenza nominale. Proprio come nella versione di Bush, la Gran Bretagna si concesse basi militari, il diritto di condurre operazioni militari, e l’immunità legale per le proprie forze – anche se i nuovi poteri Usa e le limitazioni alla sovranità irachena proposti vanno persino oltre rispetto al trattato coloniale di prima della guerra.

Per rafforzare questa sensazione di revival imperiale, le quattro compagnie petrolifere che adesso si stanno preparando a ritornare trionfalmente in Iraq sono quelle che in origine formavano la Iraq Petroleum Company, alla quale la Gran Bretagna diede mano libera negli anni ’20 per dine off la ricchezza dell’Iraq, in un accordo notoriamente di sfruttamento. Il trattato anglo-iracheno e quelle concessioni petrolifere terribilmente inique dominarono per decenni la politica irachena, alimentando disordini, rivolte, e colpi di Stato, finché la monarchia venne rovesciata, la situazione delle compagnie petrolifere ribaltata a loro svantaggio, e gli inglesi alla fine furono costretti a fare le valige dal generale Qasim – un nazionalista radicale - nel 1958.

Il 50° anniversario della rivoluzione del 1958 cade in modo appropriato il mese prossimo. Ma Bush e Cheney sembrano sempre più decisi a forzare per fare approvare sia il loro accordo di sicurezza che la legge per la privatizzazione dell’industria petrolifera irachena, attualmente bloccata, prima delle elezioni americane. Ci sono segnali che, nonostante una grande opposizione in Iraq, un insieme di maniere forti, corruzione, e un po’ di annacquamento di alcune delle richieste americane più estreme potrebbe ancora garantire l’intero pacchetto imperiale.

Quando, agli inizi di questo mese, Bush ha contraddetto il Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki sull’accordo relativo all’occupazione, e ha predetto: "Se mi occupassi di scommesse, arriveremo a un accordo con gli iracheni", ha dato l’impressione di sapere di cosa stava parlando – un po’ come quando - un paio di settimane fa - ha spiegato che era “sicuro” che dopo tutto Gordon Brown non avrebbe ridotto il numero delle truppe britanniche a Bassora secondo alcun calendario fissato. Nel frattempo, il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, improvvisamente dà l’impressione di essere analogamente sicuro dei "progressi" della legge sul petrolio perché gli "americani sono molto desiderosi".

Forse si sono tutti messi a credere alla propaganda dell’Amministrazione Bush, secondo la quale la surge ha avuto successo, e l’Iraq sta cominciando ad "aggiustarsi da solo" in tempo per le elezioni Usa, per dirla come la storia di copertina dell’Economist della settimana scorsa . Si sottolinea molto il fatto che le vittime statunitensi e gli attacchi della resistenza sono diminuiti ai livelli del 2004, anche se è ampiamente riconosciuto che i fattori che stanno dietro questo calo sono contingenti e precari. Vista la carneficina solo degli ultimi giorni – che comprende sette soldati Usa uccisi dal fine settimana e una autobomba a Baghdad che ha massacrato 65 persone – nonché il rapporto devastante del Government Accountability Office Usa di questa settimana, sulle affermazioni di “progresso” in Iraq dell’Amministrazione, qualsiasi altra opinione sembrerebbe perversa.

Quel che è certo è che, se il piano di Bush per una dominazione straniera a tempo indeterminato dell’Iraq e il controllo del suo petrolio verranno fatti ingoiare a forza agli iracheni, la resistenza e lo spargimento di sangue aumenteranno. Certamente, è vero che Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno invaso l’Iraq solo per il suo petrolio. E’ stata una proiezione della potenza americana nella regione più delicata del mondo dal punto di vista strategico, con al centro il petrolio, che ha portato una catastrofe all’Iraq e un grande pericolo per il Medio Oriente e il mondo più in generale. Ecco perché l’importanza della lotta per restituire l’indipendenza all’Iraq va molto oltre i suoi confini – è una necessità globale.


(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

The Guardian, Articolo originale