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La City travolta da Wall street. Le cause della crisi viste dagli esperti

di Marco d'Eramo - 26/06/2008




Ormai tutti gli economisti spiegano la recessione col meccanismo americano: anche in Gran Bretagna, come negli Usa l'economia tirava solo grazie a una politica di crediti facili che alimentavano sia il consumo delle famiglie, sia il mercato immobiliare: con la stretta del credito, queste due componenti sarebbero venute a mancare a l'Inghilterra sarebbe precipitata nella recessione. È l'opinione che Larry Elliott (vedi articolo accanto) mi ripete durante la nostra conversazione.

In realtà, le ragioni che hanno causato la crisi inglese sembrano diverse da quelle americane. Intanto, in Gran Bretagna non c'è stato nessun aumento vertiginoso dei mutui (vedi grafico accanto). Il numero totale dei mutui è cresciuto solo dell'1% l'anno (10% in 10 anni, da 10,5 milioni nel 1995 a 11,5 milioni nel 2005). Perciò la bolla immobiliare c'è stata quanto a crescita del valore delle case, ma senza corse all'indebitamento come negli Usa, e quindi senza un'ondata di mutui subprime. Né quest'ondata poteva esserci perché la Bank of England, a differenza della Federal Riserve americana, non ha mai concesso crediti facili. Mentre dopo il 2001 il tasso di sconto della Fed era negativo in termini reali (cioè inferiore al tasso d'inflazione), il tasso di sconto della Banca d'Inghilterra è sempre stato il più alto dei paesi industrializzati, proprio per tenere alto il valore della sterlina. Ancora oggi il tasso base è del 5%. E se si guarda la tabella dei tassi a 3 mesi pubblicata dall'Economist, si vede che in Gran Bretagna sono al 5,93% contro il 4,96% nell'area Euro e il 2,14% negli Usa. Gli alti tassi hanno impedito che la crescita del consumo fosse finanziata dal credito facile, anzi: contro l'idea di «spese pazze», «negli ultimi sei anni il consumo delle famiglie è sceso di tre punti percentuali rispetto al prodotto interno lordo» sostiene Chris Giles del Financial Times.

Infine, né in Gran Bretagna, né nell'area euro si è mai consolidata la pratica di re-ipotecare la casa al suo valore più alto per finanziare i propri consumi, pratica radicata solo nella cultura economica statunitense.
Wynne Godley, per anni direttore del dipartimento di economia applicata a Cambridge, mi dice al telefono che la crisi del credito in Gran Bretagna è cominciata molto più tardi che in America e quindi c'è uno sfasamento temporale. In realtà, la crisi è stata esportata in Inghilterra dalla politica della Fed e del tesoro Usa: per salvare il sistema bancario e per impedire un crollo di Wall street, le autorità monetarie Usa hanno semplicemente stampato carta moneta, sia iniettando liquidità diretta, sia con tagli drastici del tasso di sconto. Queste decisioni hanno provocato una svalutazione del dollaro rispetto a euro e yen. A sua volta la svalutazione che ha provocato il rincaro del petrolio e di altre materie prime. A loro volta i rialzi del petrolio e delle materie prime hanno innescato una spirale inflattiva che ha ridotto il potere d'acquisto dei cittadini che hanno così limitato i consumi rallentando l'economia.

Questa politica Usa ha spinto la Gran Bretagna a svalutare la sterlina che in un solo anno ha perso il 20% del suo valore rispetto all'euro (dalla cui area importa la maggior parte dei beni). La sterlina svalutata ha reso ancora più salato il conto delle materie prime importate (in particolare petrolio e alimentari), facendo impennare l'inflazione che non è stata compensata da nessun aumento salariale: da qui il rallentamento dei consumi e del mercato immobiliare.
Naturalmente nella capitale mondiale della finanza il vero effetto della crisi americana si è fatto sentire sulle banche. Basti pensare alla Northern Rock, la banca che aveva pesantemente investito nei mutui subprime Usa e che il governo britannico ha dovuto prima salvare e poi nazionalizzare a spese dei contribuenti.

La crisi del credito colpisce al cuore la principale industria inglese: la finanza. Capitale del credito e del mercato dei derivati, la City è la prima a risentire, e in modo più doloroso, della crisi del credito. E quando la City starnutisce, il mercato immobiliare si preende la polmonite.
Può sembrare curioso, ma a guardare gli annunci delle agenzie immobiliari, si scopre che, con la sterlina svalutata, in alcuni quartieri di Londra i prezzi degli appartamenti sono inferiori a quelli di Roma. E nella finanza il peggio deve ancora venire, perché, come mi dice Robin Blackburn (di cui la New Left Review ha appena pubblicato un saggio sulla «Subprime Crisis»), «mentre le banche Usa hanno confessato abbastanza presto i loro disastri, le nostre sono state molto più discrete e non ci hanno ancora detto tutto».