Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il problema del niente per l'Heidegger di «Che cos'è la Metafisica?» ci pone in radicale discussione

Il problema del niente per l'Heidegger di «Che cos'è la Metafisica?» ci pone in radicale discussione

di Francesco Lamendola - 01/07/2008

 

Nella prolusione tenuta all'Università di Friburgo Che cos'è la Metafisica?, del 1929, troviamo la dimensione più propriamente esistenzialistica della filosofia di Martin Heidegger. Due anni prima, con la pubblicazione di Essere e tempo, vi era stata la rivelazione mondiale del «caso» Heidegger: opera che, per taluni - e per lo stesso Autore - altro non era che una tappa verso lo sviluppo del suo pensiero ontologico; mentre per altri ne esprime la peculiarità tipica, rispetto alla quale le opere dell'ultimo periodo, culminate nei Sentieri interrotti del 1950, non sarebbero che una deviazione sempre più "metafisica" e misticheggiante.

Che cos'è la metafisica? è un saggio importante, pur nella sua brevità, non solo perché vi si trattano con mano sicura e con intuizioni originali problemi tipicamente esistenziali, come quelli del nulla e dell'angoscia; ma anche perché vi si affaccia quella interpretazione del pensiero occidentale come storia della metafisica, ovvero come onticizzazione dell'essere, che, sviluppata ampiamente nel corso successivo della filosofia di Heidegger, approderà alla concezione dell'ontologia come linguaggio dell'essere.

Mutuando il metodo tipico della fenomenologia (il distacco dal suo maestro Husserl era avvenuto solo un paio prima, con la pubblicazione - appunto - di Essere e tempo), ossia quello di condurre i fenomeni ad autorivelarsi, Heidegger dichiara di non voler svolgere un discorso oggettivo sulla metafisica, bensì di voler porre una questione metafisica determinata - il problema del nulla - per costringere la metafisica ad autorivelarsi.

Heidegger, inoltre - quasi sull'esempio dei maestri della Scolastica dinanzi ai loro allievi -, dichiara quale sarà la scansione della sua ricerca: comincerà con l'esplicazione della questione in oggetto; ne tenterà, poi, l'elaborazione; infine concluderà, esponendo la sua soluzione.

 

L'esplicazione verte sul rapporto tra filosofia e scienza e, all'interno di questa, tra scienze della natura e scienze dello spirito. L'interesse per tale problema deriva all'Autore dalla sua formazione nell'ambito del nocriticismo e dello storicismo, che sono anteriori al suo incontro con Husserl: si tratta di una questione allora molto dibattuta nella cultura tedesca, almeno a partire da Diltehy (cfr. il nostro saggio Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Diltey, sul sito di Arianna Editrice).

La scienza, afferma Heidegger, omette per principio di interessarsi a ciò che trascende la realtà del mondo; la ricerca scientifica si dirige verso l'essente in quanto tale, né si rivolge a quanto possa trovarsi al di fuori o al di là di esso. Risuona, qui - come è evidente -, una eco della riflessione kantiana sulla distinzione tra fenomeno e noumeno o cosa in sé, della quale ci siamo già occupati nel saggio Kant e l'autocastrazione del pensiero moderno, anch'esso consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Ora, osserva Heidegger, proprio là dove si sforza di circoscrivere la propria indagine all'essente, la scienza finisce per imbattersi nel niente, ossia in ciò che è altro e diverso rispetto all'essente medesimo. Analogamente Platone, nel dialogo Sofista (svolgimento ideale del Teeteto), aveva trattato - dal punto di vista del filosofo e da quello del sofista, «mercenario delle parole» - il problema del rapporto fra l'identico e il diverso, rappresentando ma anche superando la posizione di Parmenide (il cosiddetto "parricidio"), allo scopo di offrire una base più solida alla propria costruzione speculativa.

Ecco, dunque, sorgere la domanda: Come e che cosa è il niente? Di essa, però - constata Heidegger - la scienza non vuole occuparsi. Oggi, veramente, osserviamo che la situazione è un po' cambiata: si pensi, ad esempio, alle speculazioni di Fang Li Zhi e Li Shu Xian su La creazione dell'Universo, delle quali ci siamo già altra volta occupati (cfr. F. Lamendola, Si entra nell'Essere con un atto di fedeltà e di amore, sempre sul sito di Arianna). Ma, ai tempi di Heidegger, gli scienziati non si erano fatti ancora così arditi (o così arroganti) da impancarsi a metafisici e da pontificare su quanto sta oltre la cosiddetta «fisica della prima mossa».

Heidegger, comunque, fa una semplice constatazione: con l'atto di ripudiarlo, non accade inevitabilmente che la scienza attribuisca al niente una sua consistenza, e sia pure come mera negatività? Non accade che gli conferisca un sia pure involontario riconoscimento? Naturalmente, posto in termini neokantiani, il problema è privo di soluzione: giacché esso riguarda il fondamento della scienza, sul quale - paradossalmente - la scienza non ha niente da dire; non, almeno, in senso filosofico. È, piuttosto, un problema metafisico, nel senso che aveva dato Aristotele al termine metafisica, ossia di fondamento comune delle scienze.

 

Nella successiva elaborazione della questione, Heidegger si domanda se sia possibile, o meno, dare una risposta alla domanda: Come e che cosa è il niente? E, per prima cosa, egli fa rilevare ai suoi ascoltatori una stranezza. Quella domanda, infatti, presuppone che si stia parlando di qualche cosa che è, ossia di un essente; eppure si tratta, qui, di un qualcosa di completamente diverso. La questione si priva da sé stessa del proprio oggetto; sia la domanda che la risposta, riguardo alla natura del niente, non possono essere che un controsenso.

E non vi è bisogno che sia la scienza, a ripudiare la domanda sul niente; a farlo è la logica stessa, col suo principio di non contraddizione. Infatti il pensiero, che è sempre pensiero di qualcosa, dovrebbe in questo caso andare contro se stesso e divenire pensiero del niente: il che è manifestamente impossibile. Pertanto, se la logica fosse la suprema istanza per dirimere la questione, a questo punto non resterebbe altro da fare che archiviarla e rinunciare a prendere il niente quale oggetto del pensiero.

Esistono, allora, delle fondate ragioni per mettere in dubbio la supremazia della logica, che è la supremazia dell'intelletto?

Prima di procedere, Heidegger si chiede se il concetto del niente si ponga in virtù della negazione, del "non"; o se il "non" e la negazione si pongano perché esiste il niente. Domanda, anch'essa, che sembra scaturire da un'antinomia indecidibile; ma che si può, in qualche modo, portare su di un terreno più concreto, trasformandola in quest'altra: è possibile un cercare, senza il presupposto che si debba anche trovare? Infatti, la ricerca nasce dal presupposto che sia raggiungibile l'oggetto verso cui essa tende; ma qui l'oggetto è irraggiungibile, trattandosi del niente. Ma, se noi definiamo il niente come la negazione, pura e semplice, dell'essente, allora  posiamo anche dire di conoscere il niente.

Ciò costituisce un indizio prezioso per la questione circa la natura del niente. Infatti, il tutto dell'essente deve già essere dato come tale, ossia come tutto, per potere, poi, divenire oggetto della negazione, dalla quale emergerà il niente. Ora, sempre restando sul terreno della realtà concreta, a noi non è dato, mai, di abbracciare la totalità dell'essente in sé, per il fatto che ci troviamo posti nel mezzo dell'essente. In tale situazione, la nostra vita quotidiana appare frantumata nei singoli essenti, attorno ai quali ci affaccendiamo; tuttavia, proprio quando siamo così immersi nella particolarità degli essenti, l'essente ci piomba addosso come un tutto, in quella esperienza esistenziale che chiamiamo noia; o, per contro, nell'altra che chiamiamo gioia.

Sia la noia che la gioia, d'altra parte, ci rivelano, sì, l'essente nella sua totalità; ma, al tempo stesso, ci nascondono il niente che cerchiamo. Perciò la domanda che ora si pone è la seguente: può mai verificarsi, nell'essere  esistenziale dell'uomo, uno stato in cui egli sia portato a fare l'esperienza del niente? E la risposta, kiekegaardiana, è affermativa: tale stato esistenziale è quello che scaturisce dall'angoscia.

L'angoscia, infatti, non è una forma di paura di qualche cosa, e non nasce da un oggetto determinato; al contrario, essa è un allontanarsi da noi delle cose che, proprio in quanto si allontanano, ci si rivolgono: ed è allora che noi facciamo l'esperienza del niente, ossia del fatto che non esiste nulla a cui ci possiamo appigliare.

Con notevole acutezza psicologica, Heidegger osserva che l'evidenza del niente ci è rivelata dall'angoscia nell'atto di andarsene, di allentare la stretta che ci serrava la gola. Dopo che essa non c'è più, ci rendiamo conto che non aveva alcun oggetto preciso, che era niente: e, tuttavia, essa era lì, presente: noi ne abbiamo fatta l'esperienza!

Ebbene, proprio da questa manifestazione del niente ci si dischiude la possibilità di riprendere la domanda iniziale: Come e che cosa è il niente?

 

Si passa così al terzo momento dialettico del discorso heideggeriano sulla metafisica, ossia alla soluzione della questione proposta.

Il niente, dunque, si scopre nell'angoscia; ma non come essente, e tanto meno viene dato quale oggetto. L'angoscia non è una comprensione del niente; il niente ci viene incontro, nell'angoscia, in uno con la totalità dell'essente. Nell'angoscia, l'essere totale non viene affatto annullato, né a noi è dato di negarlo per "conquistare" il niente. Il niente che, nell'angoscia, ci viene incontro, precede ogni giudizio da parte nostra; e l'essenza del niente è quel respingere da sé che rimanda a ciò che fa scomparire: l'essente che affonda nella totalità. Il nientificare, perciò, non si riduce al negare e all'annullare, ma rinvia a quella totalità dell'essere che, di fronte al niente, è l'assolutamente altro. E questa scoperta si rivela nell'angoscia.

Esserci, allora, significa che l'essere esistenziale si proietta - tenendosi al niente - al di à dell'essere nella totalità. Questa è, precisamente, la trascendenza. È solo grazie alla originaria rivelazione del niente, che l'essere realizza se stesso nella libertà.

Giungiamo così alla risposta alla domanda iniziale: il niente è la condizione che rende possibile la rivelazione dell'essente come tale per l'essere esistenziale dell'uomo. Il niente non è solo il concetto opposto a quello di essente, ma appartiene alla medesima essenza dell'essere. E ciò dimostra che il niente è l'origine della negazione e non, viceversa, che dalla negazione si origina il  niente. E cade, come si era prospettato, anche la signoria dell'intelletto; e, con essa, la signoria della logica all'interno della filosofia: perché esiste, al di sopra di essa, l'esigenza di un domandare più originario.

L'atteggiamento nientificante può esprimersi in molteplici forme: l'esecrazione, l'azione ostile, la ricusazione, la proibizione, la rinuncia. Tutte queste non solo semplicemente forme della negazione, ma rinviano a una capacità di manifestarsi del niente, che soltanto l'angoscia scopre originariamente. L'angoscia originaria è una esperienza piuttosto rara, ma può destarsi in ogni  momento nell'essere esistenziale; non ha bisogno di un evento specifico per farlo.

Da ciò deriva la definizione dell'uomo, data da Heidegger, come della sentinella del niente. Noi siamo talmente limitati che non possiamo neanche portarci, con un atto decisivo della volontà, davanti al niente: la nostra libertà ce lo inibisce. Ecco, allora, la vera natura della metafisica: la capacità di portare il problema del niente al di là e al di sopra dell'essente come tale.

 

Prosegue Heidegger (citiamo da: M. Heidegger, Esistenza e metafisica, a cura di Guido Saffirio, Marietti Editore, Torino, 1976, pp. 52-62):

 

Sino a qual punto il problema del niente abbraccia e comprende la metafisica intera?

Del niente parla la metafisica sin dall'antichità in una sentenza che può aver molti sensi: Ex nihilo nihil fit, dal niente vien niente. Sebbene nell'esame della sentenza il niente stesso non divenga mai propriamente un problema, pure esso porta ad espressione la concezione fondamentale dell'essere insita nel modo in cui di volta in volta si guarda il niente. L'antica metafisica intende il niente nel significato di non-essente, ossia della materia informe che non si può trasformare da se stessa in un essere formato, sì da presentare un aspetto (ειδος), mentre l'essente è una formazione formantesi, che si presenta come tale nella forma (all'aspetto). L'origine, il diritto e i limiti di questa comprensione dell'essere vengono tanto poco indagati come il niente stesso.

La dogmatica cristiana, invece, nega la verità della sentenza Ex nihilo nihil fit, e dà quindi al niente un significato diverso, nel senso della inesistenza radicale dell'ente estradivino: ex nihilo fit ens creatum. Il niente diventa ora il concetto opposto all'ente vero e proprio, al Summum Ens, a Dio come Ens increatum. Anche qui la rappresentazione del niente rimanda alla concezione che serve di fondamento all'ente. Ma l'indagine metafisica dell'ente si tiene al livello medesimo del problema del niente. I problemi, come tali, dell'essere e del niente vengono entrambi tralasciati. Non preoccupa, quindi, neanche, la difficoltà che, se Dio produce dal niente, bisogna bene che egli possa entrare in relazione con il niente. Ma, se Dio è Dio, egli non può conoscere il niente: l'«assoluto» esclude da sé ogni nullità.

Questo rozzo accenno storico dimostra il niente come concetto opposto dell'essente vero e proprio, ossia come la  sua negazione. Ma se il niente diventa in qualche modo un problema,  allora questo rapporto di opposizione non soltanto induce ad una più chiara determinazione, ma risveglia  la vera e propria questione metafisica intorno all'essere dell'essente. Il niente  non resta per l'essente l'indeterminato «star di contro» , ma si scopre come appartenente all'essere  dell'essente stesso.

«Il puro essere e il puro niente è, dunque, lo stesso». Questa sentenza dello Hegel (Scienza della logica, vol. I, p. 74) è giusta. Essere e niente coincidono, ma non perché entrambi - guardati dal punto di vista del concetto hegeliano del pensiero - concordano nella loro indeterminatezza e immediatezza; ma perché l'essere stesso è limitato essenzialmente, e si rivela soltanto nella trascendenza dell'essere esistenziale che si trova tenuti dentro al niente.

Se, d'altronde, il problema dell'essere come tale è il problema  più comprensivo della metafisica, allora, quello intorno al niente si mostra di una tale specie che abbraccia la metafisica intera. Ma il problema del niente comprende la metafisica intera anche in quanto esso obbliga a fermarsi innanzi  al problema dell'origine della negazione, ossia, in fondo, innanzi al problema della legittimità del predominio della "logica" nella metafisica.

L'antica sentenza ex nihilo nihil fit riceve, allora, un altro significato riguardante il problema  stesso dell'essere, e vuol dire: ex nihilo omne ens qua ens fuit. Nel niente dell'essere esistenziale l'essente nella totalità perviene dapprima a se stesso secondo la sua più propria possibilità, ossia in modo limitato.

Sino a qual punto, allora, il problema del niente , se è un problema metafisico, ha esso accolto in sé la nostra esistenza problemante?

Noi caratterizziamo il nostro essere esistenziale, qui e ora sperimentato, come essenzialmente determinato dalla scienza. Se il nostro essere esistenziale, così determinato, è posto nel problema del niente, allora esso deve, di necessità, esser diventato, attraverso questo problema, esso stesso problematico.

L'essere esistenziale dello scienziato ha la sua semplicità e precisione in questo: che esso si riferisce in modo eminente all'essente stesso e unicamente a esso. La scienza vorrebbe , con gesto di superiorità, misconscere il niente.  Ma adesso, nel problema del niente, si vede bene che quest'essere esistenziale dello scienziato è possibile soltanto se esso si tiene sin dal principio dentro al niente.  Esso intende sé, in ciò che esso è, soltanto se non misconosce il niente.

La pretesa spassionata superiorità della scienza diventa una cosa da ridere se essa non prende sul  serio il niente. Solo in grazia del niente rivelatore la scienza può fare oggetto  della sua ricerca l'essente. Soltanto se la scienza trae dalla metafisica  la sua esistenza, è in grado di adempiere  sempre di nuovo il suo compito essenziale,  che non consiste nell'ammassare e ordinare conoscenze, ma nel dischiudere con sempre nuove ricerche l'intero orizzonte della verità della natura e della storia.

Unicamente perché il niente si svela nel fondo dell'essere esistenziale, può sorgete entro di noi il senso della piena straneità dell'essente; e soltanto se questa straneità ci angustia,  l'essente sveglia e tira a sé lo stupore. E solo dallo stupore - ossia dal rivelarsi del niente - sboccia la domanda:  «Perché». Solo in quanto un tale perché è possibile, noi possiamo in modo determinato far questione di motivi e motivare. E solo perché noi possiamo porre in questione e motivare, alla nostra esistenza si trova dato in sorte il compito di ricercare.

Il problema del niente ci mette - noi stessi che facciam questione - in questione. Questa è bene una questione metafisica.

 

L'essere esistenziale umano può riferirsi all'essente  soltanto se si tiene dentro al niente: l'uscir fuori dall'essente, per vederlo dall'alto, avviene nell'essenza dell'essere esistenziale.  Questa uscita è la metafisica stessa. Ed ecco che la metafisica appartiene alla «natura dell'uomo». Essa non è una specie di filosofia per le scuole, , né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l'accadimento fondamentale  nell'essere esistenziale. Essa è l'essere esistenziale stesso.

E poiché la verità della metafisica abita in tale abissale profondità,  essa si trova nella massima vicinanza alla possibilità che costantemente l'insidia, dei più profondi errori. Nessun rigore, quindi, di una scienza arriva alla serietà della metafisica.  E la filosofia non può mai venir misurata col metro dell'idea della scienza.

Se la questione intorno al niente è stata realmente da noi svolta  coinvolgendovi noi stessi, si può affermare, allora, che noi non abbiamo condotta innanzi a noi dal di fuori la metafisica. E neppure ci siamo "trasferiti" in essa.  Noi non possiamo trasferirci in essa, perché noi - in quanto esistiamo - già stiamo sempre in essa: φύσει γαρ, ώ φίλε, ένεστί τις φιλοσοφία τη τοΰ άνδρòς διανοία (Platone, Fedro, 279a). Il filosofare accade, in certo modo, in quanto esiste l'uomo.

Filosofia - ciò che noi così chiamiamo -è soltanto un mettere in moto la metafisica, onde essa perviene a se stessa ed ai suoi compiti esplicitamente; ed essa si mete in moto soltanto per mezzo di una peculiare immersione della propria esistenza nelle possibilità fondamentali dell'essere esistenziale nella totalità.

Momenti decisivi per tale immersione sono: in primo luogo, far posto all'essente nella totalità; in secondo luogo, lasciarsi andare nel niente, ossia liberarsi dagli idoli che ognuno ha, e per i quali ognuno tenta di evadere; infine, seguire l'ondeggiamento della sospensione, per tornar costantemente ad agitare la questione fondamentale della metafisica, a cui costringe il niente:

Perché, infine, l'essente e non piuttosto niente?

 

L'importanza della riflessione di Heidegger sul nulla risiede nel fatto che egli ha spostato i termini della discussione classica del problema dal piano della logica a quello della metafisica (nel senso aristotelico del termine); anzi, che l'intera filosofia occidentale si può interpretare come il continuo sviluppo della metafisica, a partire dall'intuizione originaria del nulla.

A suo merito va ascritto il coraggio concettuale di aver sostenuto, a fronte alta, che vi è un pensiero più originario di quello pensabile dall'intelletto; e che vi è un senso nella ricerca, indipendentemente dalla possibilità di raggiungere, sul piano intellettuale, la cosa cercata. Questo ci rinvia alla distinzione, già in varie sedi da noi richiamata, fatta da Gabriel Marcel tra la categoria dei "problemi" e quella dei "misteri". La scienza, per la natura dei suoi stessi fondamenti, non indaga che sui primi, presupponendo che esista non solo la possibilità di risolverli, ma anche che il loro oggetto effettivamente esista. Ma l'oggetto della metafisica chiamato "niente", non esiste in senso positivo; dunque, è chiaro che la scienza, su di esso, non avrà mai nulla da dire.

Invece, un aspetto discutibile del pensiero heideggeriano è che il sentimento dell'angoscia denota,  bensì, l'inquietudine dell'uomo che vuole porre la domanda originaria sull'essere; ma, date le premesse di tipo immanentistico che gli derivano dalla sua formazione storicista e fenomenologica, essa rimane come una ferita aperta, che lacera l'esistenza, senza offrire la possibilità di un vero superamento. Di qui alle degenerazioni nichiliste di Sartre, nelle quali la vita umana è descritta come una nausea ininterrotta, il passo è breve; né vale il fatto che Heidegger abbia sempre rivendicato una sostanziale differenza fra la sua ricerca filosofica e l'esistenzialismo francese degli anni successivi  alla seconda guerra mondiale.

Un altro aspetto problematico e, a nostro avviso, potenzialmente inquietante della riflessione di Heidegger sul problema del niente è la sua esplicita convinzione - mutuata da Husserl - che sia possibile condurre i fenomeni ad autorivelarsi, così come egli fa con la metafisica allorché pone la precisa domanda sul nulla.

Vi è, nell'idea che si possano costringere i fenomeni ad autorivelarsi, una implicazione di spregiudicato esercizio di quel Logos strumentale e calcolante che, a proposito della domanda originaria sul niente, si era detto non essere l'istanza suprema del giudizio. E vi è anche una implicita contraddizione fra il concetto di "rivelazione" e quello di "costrizione": nessuna autentica rivelazione, secondo noi,  può esser frutto di una costrizione, e sia pure di una costrizione di natura intellettuale.

Questo, semmai, è il metodo della scienza, quanto meno della scienza post-galileiana: isolare i fenomeni, esercitare una pressione di essi, costringerli a rivelare i loro segreti; e, poi, sfruttare quanto più possibile, anche sul piano della praxis, le potenzialità di dominio emerse da quella rivelazione.

Ma non aveva detto Heidegger che altro è il metodo della filosofia, altri i suoi presupposti, altri i suoi obiettivi?

 

Resta, comunque, a Heidegger il merito di aver posto con forza l'immediata implicazione esistenziale della domanda sul niente: nel senso che tale domanda ci interroga fin nel profondo e che, mediante l'esperienza dell'angoscia, noi siamo spinti a trascenderci, alla ricerca di un rapporto originario con l'essere della nostra essenza, e dunque con l'essere nella sua totalità.

Ma, in questo senso, molte delle cose detta da Heidegger le aveva già dette, e meglio, Sören Kierkegaard: perché il primo, anche quando dichiara di voler andare oltre la domanda puramente logico-intellettuale, continua a muoversi in un universo concettuale impregnato di intellettualismo e di logicismo; mentre il filosofo danese (e, da questo punto di vista, anche Nietzsche) ha saputo trovare un modo di ragionare e di esprimersi veramente coerente con l'intento di riportare la filosofia al servizio dell'esistenza, anzi, di questa singola esistenza.

Anche per Heidegger vale la vecchia massima che, se il pensiero è veramente chiaro, sarà sempre possibile comunicarlo in maniera da evitare le oscurità e le  pesantezze di un procedere ellittico e faticoso. E la prova ne è che tutti i libri di Kierkegaard (e di Nietzsche), pur così genialmente originali, possono essere compresi e gustati anche da un lettore non specialista; mentre quelli di  Heidegger - e, a maggior ragione, dei suoi tardi epigoni, da Sartre a Severino - risultano bensì ricchi di intuizioni poderose e di squarci mirabili; ma, nel complesso, sono terribilmente indigesti e noiosi - i classici mattoni che mai alcuno è riuscito a leggere, oltre che con profitto, anche con piacere e godimento estetico.

Con Heidegger la filosofia tedesca (e la filosofia in generale) imbocca di nuovo la via della speculazione ardua ed oscura, riservata a pochissimi: la via di Hegel; registrando un netto passo indietro rispetto a Schopenhauer, Nietzsche, Dilthey e Spengler. Imbocca di nuovo la vecchia via, per dirla con lo stesso Schopenhauer, dei filosofi da sbadiglio: i quali hanno, forse, molte cose  interessanti da dire, ma certo non amano dirle con semplicità e concisione e, quindi, fondano la loro celebrità su una conoscenza di seconda mano. Perché, se citare Heidegger e prenderlo a modello, anche sul piano formale, è divenuto quasi imprescindibile per quanti si dedicano, o semplicemente si interessano, alla ricerca filosofica, crediamo che ben pochi si siano cimentati nella lettura diretta e integrale delle sue opere maggiori.

E questo crediamo non sia un bene, né per la comprensione del suo pensiero, né per la filosofia in se stessa.