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Iran, la guerra segreta è già cominciata

di Sabina Morandi - 01/07/2008

 
Seymour Hersh è un mostro sacro del giornalismo americano, noto per i suoi contatti con l'intelligence e per la sua intransigenza nei confronti dell'amministrazione Bush. E' quindi una fonte estremamente credibile quando denuncia, come ha fatto sull'ultimo numero del New Yorker , l'esistenza di un piano per la destabilizzazione del governo iraniano già in avanzata fase di attuazione. Niente di nuovo sotto il sole: si tratta della solita strategia a base di operazioni segrete sotto copertura o sotto falsa bandiera, omicidi mirati e generoso foraggiamento di ogni minoranza etnica, religiosa o politica avversa al regime.

La cornice di queste operazioni segrete sarebbe un Presidential Finding, cioè un vero e proprio "ordine esecutivo" approvato l'anno scorso dal Congresso nel quale veniva dato a Bush pieno mandato e 400 milioni di dollari da gestire al di fuori del budget ufficiale.

Le operazioni clandestine in Iran non sono una novità: è dall'anno scorso che le US Special Operations Forces stanno punzecchiando le forze d'élite di Teheran (Al Quds) oltre il confine con l'Iraq. A queste, però, vanno aggiunte le operazioni condotte direttamente dalla Cia e dal Joint Special Operations Command, che riguardano attività non specificate nel Finding e quindi non sono soggette ad alcun controllo.

Va detto che l'approvazione del Finding presidenziale non poteva avvenire senza il decisivo apporto di alcuni membri del partito Democratico che hanno dato l'assenso a una classica operazione di cambio di regime proprio mentre il proprio candidato alla presidenza, Barack Obama, rilanciava l'approccio diplomatico. Oltretutto la richiesta di nuovi fondi arrivava a ridosso della pubblicazione del rapporto della National Intelligence Estimate, nel quale i maggiori esperti dell'intelligence di Washington sorprendevano il mondo annunciando che il programma militare nucleare iraniano sarebbe morto e sepolto dal 2003. Nello stesso periodo, malgrado le isteriche accuse, nessuno riusciva a dimostrare il coinvolgimento del regime di Teheran nella resistenza irachena, coinvolgimento che le alte sfere hanno cercato di vendere all'opinione pubblica come la causa principale del fallimento in Iraq.

Secondo Hersh il braccio di ferro fra i generali e l'amministrazione - o almeno una parte dell'amministrazione visto che Condoleezza Rice e Robert Gates sarebbero dalla parte delle "colombe" - prosegue tutt'ora, anche se il clou è stato toccato in primavera con la cacciata dell'ammiraglio Willam Fallon, capo dell'US Central Command e comandante delle forze statunitensi in Iraq e Afghanistan, colpevole di avere espresso pubblicamente le proprie riserve su di un attacco all'Iran.
L'ostilità degli alti ufficiali è dovuta prima di tutto alla maggiore conoscenza del terreno e delle capacità difensive iraniane e, in secondo luogo, al mancato controllo delle operazioni segrete che rendono impossibile, per gli alti comandi, dirigere la strategia globale della guerra. Il Presidential Finding sarebbe in sostanza un assegno in bianco che Bush e compagnia avrebbero utilizzato per disgregare la tradizionale catena di comando e lanciare le disinvolte operazioni delle varie società di mercenari che piacciono tanto alla Casa Bianca - e molto meno al Pentagono. Di fatto gli alti ufficiali stanno da mesi gettando acqua sul fuoco: l'ha fatto in gennaio l'ammiraglio Kevin Cosgriff quando si è sfiorata la battaglia navale nello Stretto di Hormuz e per questo si è guadagnato gli strali del vice-presidente Cheney che, secondo l'ex ufficiale, continua a organizzare meeting su un solo argomento: «come creare un casus belli fra Teheran e Washington».

In sintesi il piano è la solita versione americana dell'antico dividi et impera: fomentare i conflitti etnici e foraggiare qualunque gruppo di opposizione più o meno violenta presente nel paese. Una pioggia di soldi stanno arrivando sugli indipendentisti Ahwazi, che hanno già moltiplicato gli attentati dal gennaio di quest'anno, e sui Baluchi, altra minoranza etnica e anche religiosa essendo fondamentalisti sunniti, mentre a Teheran regnano gli sciiti. Il fatto che gli indipendentisti baluchi siano vicini ad Al Qaeda e che risultino coinvolti nell'11 settembre (Khalid Sheikh Mohammed, per esempio, considerato l'organizzatore dell'attacco alle Torri è un noto militante dell'organizzazione baluchi) non ha impedito all'amministrazione di armarli e legittimarli.

Soldi e armi arrivano anche, ovviamente, a vecchi amici della Cia e del Mossad come il MEK (l'organizzazione di mujahedin che partecipò alla cacciata dello scià ma poi ruppe con Kohmeini e si diede alla lotta armata con i soldi di Saddam) e il PJAK (che sta per Partito della libertà in Kurdistan), che infatti hanno moltiplicato gli attacchi e gli attentati in Iran negli ultimi mesi. La cosa inquietante è che entrambi sono nella lista delle organizzazioni terroriste, anche se negli ultimi due anni i potenti amici del MEK stanno facendo di tutto per cancellare l'imbarazzante passato e fornire un minimo di legittimità politica.

Anche in questo caso gli alti gradi dell'esercito sono irritati e, secondo un consulente del Pentagono che ha voluto restare anonimo, «perfino nella comunità dell'intelligence c'è una grande opposizione all'idea di scatenare per procura una guerra segreta all'interno dell'Iran utilizzando gli Ahwazi e i Baluchi» che oltretutto hanno anche la spiacevole abitudine di decapitare gli "apostati" iraniani in puro stile Al Qaeda.

All'intrico va aggiunto il ruolo giocato dall'Iran nella stabilizzazione del caos iracheno, un ruolo fondamentale visto che la maggioranza della popolazione in Iraq è sciita anche se storicamente i sunniti hanno sempre avuto in mano le leve del potere. Basti pensare che il primo ministro del governo di Baghdad, lo sciita Nouri al-Maliki, è volato a Teheran proprio mentre gli israeliani conducevano le loro minacciose esercitazioni aeree, all'inizio di giugno, e da lì ha annunciato ufficialmente che l'Iraq «non si candida a base operativa per un attacco all'Iran». Un'insolita iniziativa da parte di un governo che ha ben poca autonomia ma che, evidentemente, considera molto concreta la prospettiva di un attacco americano e ne teme le conseguenze. Pochi giorni dopo Bush volava in Europa per una nuova offensiva diplomatica contro Teheran, anche se il pacchetto di incentivi messo sul tavolo dalla Rice è tutto fuorché nuovo visto che la pre-condizione per avviare i negoziati è sempre la stessa ed è stata più volte respinta: la sospensione immediata del programma di arricchimento dell'uranio che l'Iran sostiene sia per usi civili e quindi legale nell'ambito del Trattato di non proliferazione nucleare.