Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’uomo che soffre: evoluzione o involuzione?

L’uomo che soffre: evoluzione o involuzione?

di Michele Orsini - 01/07/2008

 

 

Una vita senza dolore è davvero desiderabile? Chi leggesse un po’ di letteratura scientifica riguardante i disturbi che coinvolgono l’insensibilità congenita al dolore, sindromi per fortuna piuttosto rare (la più nota è detta sindrome di Riley-Day) che si manifestano con la completa assenza della percezione del dolore, mentre le altre modalità sensoriali rimangono intatte, giungerebbe a dire il contrario: una vita senza dolore è un vero inferno. I bambini che soffrono di tali malattie, appena inizia la loro dentizione si feriscono la lingua e il palato, quando iniziano a muovere i primi passi si procurano fratture alle ossa dei piedi, semplicemente perché li calpestano con troppa veemenza sul terreno. Il dolore è un segnale spiacevole ma più che utile: vitale, tanto quello fisico che quello psichico. Ammesso che abbia poi senso tracciare una così netta distinzione: alcune delle aree cerebrali che si attivano in presenza di dolore fisico, secondo recenti ricerche, si attiverebbero anche in presenza di un intenso dolore psichico. I sintomi somatici, inoltre, sono molto simili e interessano, in particolare, le regioni pericardiche; non a caso si parla di “cuore spezzato” per riferirsi a un terribile dispiacere.

Proprio come quello fisico, il dolore psichico ha la funzione di allarme e di spinta verso un cambiamento: chi soffre deve fare qualcosa, anche se non sempre è facile capire che cosa. Nonostante ciò è umano (forse troppo umano) reagire con rabbia di fronte al dolore, piuttosto che con gratitudine, anche chi capisce la funzione del dolore, lo rimprovera comunque: questa però, come faceva notare Nietzsche, è un’accusa senza senso, poiché “far male” non è una colpa del dolore, ma è la sua stessa essenza.

Le chance di alleviare il dolore di cui disponevano l’antichità, il Medio Evo, ma anche l’epoca moderna, almeno fino all’avvento degli analgesici, erano ben poche: oltre alla possibilità di affrontare il dolore sul piano psichico, c’erano l’alcool, l’oppio e qualche erba officinale.

Oggi le soluzioni tecniche per lenire il dolore sono molte e poterne disporre viene definito un diritto, una delle declinazioni del diritto alla salute che viene reclamato, ma che sembra aver poco senso: si dovrebbe parlare, piuttosto, di diritto alla cura.

Una certa quantità di dolore è legato a ogni cambiamento, anche e soprattutto ai cambiamenti per antonomasia, quelli che porta dal non essere all’essere, le nascite.

Sigmund Freud, nel 1907, ha scritto:

 

“Il dolore psichico se non supera un certo livello, è essenziale alla costituzione dell’Io che, attraverso la perdita dell’oggetto amato e la conseguente frustrazione, abbandona lo stato di onnipotenza infantile per approdare  al principio di realtà”

 

Nel 1952, in una conferenza all’Università di Monaco, il teologo cattolico Romano Guardini:

                                                                                                                          

“La melanconia è il prezzo della nascita dell’Eterno nell’uomo”

                                                                                                 

Possiamo così vedere come il dolore si possa considerare determinante tanto per la nascita psicologica quanto per la nascita spirituale.

Il dolore quindi è, o perlomeno dovrebbe essere, un tema non soltanto della biologia, ma anche della psicologia, della sociologia, della pedagogia, della filosofia e, ovviamente, della teologia.

Secondo Umberto Galimberti, pur essendo il dolore un'esperienza universale, la sua percezione è legata alla visione del mondo del soggetto, alla sua personalità, al contesto storico-culturale in cui egli è inserito, è quindi l’ambiente che fornisce quei codici di significato attraverso cui il fenomeno del dolore può acquistare senso.

Ad esempio nella filosofia greca il dolore è riconosciuto inscindibile dall’esperienza di vita quindi l’unica possibilità di vivere degnamente: farsi eroe, mentre per la tradizione ebraico-cristiana il dolore si associa al peccato, creando un surplus di sofferenza: compare il dolore morale.

L’eroismo di Gesù sul Golgota indica l’unica strada possibile: “essere come Cristo per essere in Cristo”. Un simile compito per un essere umano è semplicemente impossibile, l’unica speranza viene da Dio. Ne conseguono l’eccesso di colpa o la sua negazione, che sono soggettivamente speculari, ma entrambe rendono impotente e, quindi, irresponsabile l’individuo, o in ragione d'una colpevolezza inestinguibile o di una fatalità invincibile.

Il rifiuto del dolore ha altresì il suo opposto nella sua idealizzazione, dalla quale metteva in guardia già Sant’Agostino.

Filosofie e religioni del passato davano una spiegazione, un senso alla vita, certamente non eliminavano il dolore dei loro seguaci, ma lo rendevano più pensabile, più sopportabile, esso poteva venire quindi elaborato e questo dava i suoi frutti, il più succoso dei quali era: la libertà.

Se il nostro è il tempo di libertà politiche un tempo inimmaginabili, il passato è stato tempo di libertà psicologiche ben superiori a quelle che noi conosciamo.

Chi è scarsamente capace di soffrire, sopportare dolore e, quindi, di sopportare la verità, anche se non è sottoposto ad alcuna imposizione esterna, non è libero: in questo senso la nostra è una morale da schiavi e questa è la vera, grande involuzione.

Il paradosso è che noi siamo potenzialmente più sensibili degli antichi, nel senso che la nostra soglia del dolore è ben più bassa, inoltre nel mondo tecnologico e globale siamo bombardati di notizie riguardanti tragedie che dovrebbero farci star male, se soltanto fossimo capaci di empatia.

Con una distinzione semantica sottile ma molto utile possiamo dire che oggi c’è molto più dolore di un tempo, ma c’è molta meno sofferenza: il dolore infatti è una sensazione che ci aggredisce, mettendoci in una condizione passiva, mentre la sofferenza è un’azione che intraprendiamo, diventando soggetti attivi.

Il punto è che nessuno insegna ad affrontare, attraversare il dolore, piuttosto si consiglia l’evitamento cognitivo (“non ci pensare”), ovvero un atteggiamento psicologico puramente passivo.

Il consumismo dilaga proprio perché offre continue distrazioni: già l’etimologia di parole come vacanza e divertimento dovrebbero metterci in guardia.

Dove l’evitamento cognitivo non basta, scattano gli autoinganni.

Un notevole ritratto di questo aspetto della nostra società è il libro del sociologo Stanley Cohen State of denial, uscito in Italia nel 2002 col titolo mal tradotto Stati di negazione (denial si dovrebbe tradurre con diniego).

Di famiglia ebrea, nato e cresciuto in Sudafrica, svolti gli studi universitari a Londra, Cohen si trasferisce in Israele e qui si scontra con la realtà delle vessazioni subite dal popolo palestinese: un duro colpo per lui, che si ritrova a dire addio all’ideale sionista al quale era stato educato, ed è quindi costretto ad una penosa elaborazione del lutto.

Inizia quindi a militare nel movimento per i diritti civili e si trova a essere ingiuriato ben presto come traditore di Israele, com’è capitato a tanti intellettuali ebrei, Noam Chomsky su tutti.

Cohen giunge a chiedersi: “perché altri, perfino coloro che provenivano da famiglie, scuole e quartieri simili, che leggevano gli stessi giornali, camminavano per le stesse strade, perché loro, apparentemente, non vedevano quello che vedevamo?”

Il riferimento al “vedere” fa pensare a un vero e proprio fenomeno di distorsione della percezione.

Quando denuncia le crudeltà inferte ai palestinesi si sente dire che il fatto non è accaduto e chi lo denuncia è un manipolatore o un traditore, oppure la definizione dell’atto è errata (non si deve parlare di torture, ma soltanto di pressioni fisiche), oppure ancora l’atto c’è sì stato, ma è giustificato dall’esigenza di sicurezza.

Cohen dopo il periodo in Israele tornerà definitivamente in Inghilterra, dove insegna tuttora alla London School of Economics.

Continuerà qui la sua indagine sociologica, svolta però utilizzando concetti freudiani come quelli di resistenza e rimozione.

Cohen comprende che “il diniego può essere individuale, personale, psicologico e privato oppure comune, sociale, collettivo ed organizzato” e avviene in ogni caso attraverso meccanismi psicologici simili.

Purtroppo nei casi di diniego collettivo interviene la politica e accade sempre che almeno qualcuna delle parti in campo approfitti dell’emotività che si può scatenare toccando certi argomenti, se non addirittura solo nominando certe parole troppo cariche per permettere un confronto serio e pacato.

Sul diniego individuale si può intervenire più facilmente, ma solo se una persona è disponibile a mettersi davvero in discussione.

Il dolore ci indica che un equilibrio dentro di noi si è incrinato e che è il caso di prendere provvedimenti, ma a noi moderni questi avvisi non piacciono, perché mettono in pericolo la nostra fragile autostima; per non sentirci inetti, dobbiamo pensare che tutto vada sempre splendidamente bene, quindi rigettiamo come pericoloso ogni segnale d'allarme.

Il risultato è che i nostri sensi pian piano si ottundono, così i segnali di allarme vanno sempre più spesso perduti. Arriva un momento in cui lo squilibrio si aggrava fino a divenire inabilitante e allora, talvolta, si cercano dei rimedi, anche se più spesso si è portati a pensare che è soltanto lo stesso dolore a essere inabilitante e si chiede di ridurlo, ovvero si vuole l'eliminazione del sintomo, ma non della causa del problema.

Un’attitudine realistica nei confronti della sofferenza è sapere che essa è inevitabile, che la si deve non fuggire, bensì elaborare, che va se possibile modulata, portata cioè a livelli adeguati per la persona che la prova in quel momento: non deve essere troppo attenuata ma nemmeno troppo intensa, perché ciò potrebbe danneggiare gravemente l’individuo (“impazzire di dolore”).

Ciò che si dovrebbe re-imparare è il senso del limite, condizione essenziale per una presa di coscienza delle proprie possibilità e per un impegno a svilupparle.