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La questione delle intercettazioni è molto più seria di quel che si possa pensare

di Ugo Maria Tassinari - 01/07/2008

 

La questione delle intercettazioni è molto più seria di quel che si possa pensare e la riflessione politica di Nando Dicé non coglie nel segno.

Perché sfugge a molti un aspetto essenziale, a prescindere dall’aspetto criminale della fuga di notizie e della sistematica violazione della privacy di cittadini non indagati (ma anche gli indagati non per questo meritano la gogna). E cioè la profonda illegittimità dell’attuale uso dello strumento giudiziario.

GIA’ OGGI la norma prevede che il giudice può autorizzare le intercettazioni MOTIVATAMENTE e per un arco di tempo limitato. Cioè gli investigatori devono avere già una notizia di reato e sospetti sui possibili colpevoli per chiedere di aumentare l’incisività dell’inchiesta con questo strumento gravemente lesivo della libertà personale.

Invece il metodo dominante, che trova il più lucido esecutore nel noto pm di Potenza H.J. Woodcock (nella foto a destra), quello delle telefonate di Salvo Sottile (prosciolto) e di Daniela Fini (nemmeno indagata), è il seguente:

io intercetto il signor 1, poi comincio a estendere le intercettazioni in progressione geometrica a tutti i disgraziati che telefonando al signor 1 hanno dimostrato di aver intrecci di affari con il suddetto, e via via così, in una drammatica ripetizione della novella delle Mille e una notte del gioco al raddoppio dei chicchi di riso sulla scacchiera. Ora è chiaro che anche se si deve parlare di una partita di calcetto, la paranoia dilagante porta gli interlocutori a essere vaghissimi, legittimando i peggiori sospetti e quindi favorendo il dispositivo cancerogeno.

Il nodo del problema, però, è che io dovrei usare le intercettazioni per approfondire una determinata indagine non per ricavarne decine di vaghe notizie criminis che mettono capo a filoni di inchiesta che continuano a proliferare con scarsissimi esiti finali. Il suddetto Woodcock, ad esempio, con le sua inchieste clamorose (Vittorio Emanuele, Vallettopoli) ha conquistato decine di prime pagine sui giornali nazionali ma ha visto pochissimi dei suoi indagati finire condannati.

All’aspetto strettamente tecnico giuridico si accompagna poi una questione più ggeneralmente politica: e cioè il fatto che i nostri magistrati si sono oramai abituati a uno stato permanente d’emergenza per cui non hanno più idea di come funzioni la NORMA giuridica.

Dalla lotta al terrorismo all’antimafia, da Mani pulite ai rifiuti, non è mancato mai un pretesto per giustificare la pratica dell’eccezione.

E così quando Berlusconi tenta di togliere loro di mano il giocattolo, trasferendo all’apparato di governo poteri straordinari, scatta la rivolta corporativa delle toghe, ben sostenuta dagli ascari della “sinistra giustizialista” (per cui non ci sarà mai sufficiente disprezzo) al grido di“Lo Stato (d’eccezione) siamo noi”…