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L'etica in appalto

di Michele Serra - 02/07/2008

 

 

 

Dei mille "casi" italiani, pochi come quello dell'alto dirigente Rai Agostino Saccà ci aiutano a capire lo spaventoso carico di lavoro che la nostra comunità, per sua ormai conclamata inettitudine etica, ha scaricato sulle spalle della magistratura.

Convogliando nell'eterna lite "sulla giustizia" questioni la cui soluzione avrebbe dovuto e potuto precedere, e di molto, il loro acido e limaccioso sbocco giudiziario: di qui (anche) l'abnorme peso che il dibattito sulla giustizia ha via via assunto, fino a (quasi) soffocare tutto il resto.

Questa volta è toccato al pretore del Lavoro occuparsi di un contenzioso che, di suo, non presenta soverchi misteri. Saccà, a capo di uno dei settori nevralgici dell'azienda televisiva pubblica, ha parlato ripetutamente dei suoi progetti con il proprietario dell'azienda concorrente. Trattando questioni vuoi infime vuoi importanti, e comunque tali, per loro natura, da non potere essere oggetto di colloquio con il competitore industriale. Tanto basterebbe a qualunque azienda, in qualunque Paese dove il mercato ha qualche regola e una sua anche lasca moralità interna, per essere costretta ad allontanare il suo dirigente colto in così grave fallo. Di più: tanto dovrebbe bastare a quel dirigente per considerare inappellabilmente tradita la fiducia dell'azienda, deontologicamente illecito il suo comportamento, urgenti seppure dolorose le sue dimissioni.

Invece. Si è lungamente discusso delle riconosciute capacità professionali di Saccà: come se c'entrassero qualcosa. Lo si è difeso oppure attaccato a seconda della sua collocazione politica: come se c'entrasse qualcosa. Si è discettato su toni e esiti dei colloqui con Berlusconi: come se c'entrassero qualcosa. E mano a mano che la vicenda sprofondava nel suo ambiguo, causidico contesto (la Rai, il suo assoggettamento ai politici, il conflitto di interessi), è andata via via sfumando, come sempre più spesso capita, la sostanza del contendere: può un dirigente dell'azienda X trattare di cose aziendali con il proprietario dell'azienda Y (per giunta presidente del Consiglio: ma questa, nel caso in questione, è solo una grottesca variante)? Se la risposta è no, il caso è drasticamente chiuso. Ma la risposta, evidentemente, non è stata no, o perlomeno non lo è stata per tutti. Neanche in Rai, dove Saccà ha molti e loquaci difensori, di ogni parte politica.

La risposta, per dirla tutta, manca. Manca nelle coscienze di molti. Manca nelle abitudini e nei costumi del cosiddetto Palazzo (dove si tratta con tutti e su tutto, senza che mai echeggi la salvifica frase "mi scusi, ma di queste cose non posso parlare con lei"). Manca nel costume sociale, dove il favore, l'amicizia, la protezione, la raccomandazione sono da tempo la solida prassi che supplisce al totale relativismo della teoria. E manca, evidentemente, anche la domanda: questo comportamento è lecito o illecito? È giusto o sbagliato? Tecnicamente, questo e solo questo è l'etica: domandarsi se un atto, specie se compiuto da noi stessi, è giusto o sbagliato.

Poiché questo genere di domande precede la nascita del caso giudiziario, e magari lo disinnesca prima che esploda, è facile capire che il gigantesco viluppo di carte bollate, cause, procedimenti, ricorsi che ammorba il paese, è causato dalla quasi totale assenza di quel sano, utilissimo momento pre-giudiziario che è l'etica. E se nessuno osa sperare di vivere in una comunità semi-santificata, nella quale la magistratura debba intervenire solo in rari e gravissimi casi, tutti dobbiamo però sentirci atterriti dalla spaventosa, crescente "giudiziarizzazione" di tutto ciò che giace irrisolto a causa della impressionante assenza di un'etica condivisa, di domande e risposte che surclassino, nella coscienza collettiva, le opinioni politiche, e perfino le sentenze della magistratura.

Tanto è vero che metà del Paese vive nell'attesa messianica, e giustamente frustrata, di una qualche carta da bollo che arrivi a decapitare il padre di tutti gli arbitrii, che è il conflitto di interessi. E l'altra metà è convinta che le carte della giustizia siano solo una subdola, sordida arma politica. A tanto si può arrivare quando il corpo sociale nel suo complesso non possiede più un giudizio proprio sulle cose pubbliche e pure private (vedasi i sorrisetti compiaciuti che fanno corona al disgustoso casting di amichette-attricette).

È in fondo a questo vuoto morale, è al termine di questa mancata tutela di se stessi e dei propri atti, che il giudice, di ogni ordine e grado, si ritrova così spesso nel poco salubre, poco sereno ruolo del supplente morale e peggio del fiancheggiatore politico, quasi spodestato della sua rassicurante aura tecnica, della sua professione di interprete delle leggi, per finire scaraventato in una faida che, partendo dal cuore politico del Paese, sta risalendo anzi è già risalito fino alle venuzze periferiche del favore sessuale, del maneggio professionale, dell'inciucio aziendale.

Agostino Saccà è un eccellente dirigente televisivo. Ma ha gravemente sbagliato. Ora questo errore, come tante altre cose, è diventato trafila giudiziaria, guerra di ricorsi, duello di sentenze. Cioè non è più un errore. È un oggetto giuridico, è materia che la nostra collettività non è più in grado di maneggiare con qualche serenità, con qualche buon senso. È una domanda, è una risposta che sono state appaltate alla magistratura come ennesimo segno di impotenza a fare da noi, a regolarci tra noi. Povero il Paese che non è capace di risolvere più niente, decidere più niente, e soprattutto giudicare più niente fuori dalle aule di giustizia.