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Il libro della settimana: Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra

di Carlo Gambescia - 04/07/2008

Il libro della settimana: Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, prefazione di Danilo Zolo, traduzione e cura di Stefano Pietropaoli, Editori Laterza 2008, pp. 86, Euro 15,00 - http://www.laterza.it/

Fra le leggende metropolitane che ruotano intorno a Carl Schmitt, grande politologo novecentesco, c’è quella di aver volato troppo alto, per tenersi lontano dalle questioni di attualità. Di qui, secondo alcuni studiosi, l’inutilità per il volgo di leggerlo, oggi come ieri. Il che non è vero.
E per scoprirlo basta sfogliare questo suo interessante libretto, che risale addirittura al periodo tra le due guerre mondiali: Il concetto discriminatorio di guerra, prefazione di Danilo Zolo, traduzione e cura di Stefano Pietropaoli (Editori Laterza 2008, pp. 86, Euro 15,00).
Il titolo, certo, non è molto invitante. E fa effettivamente pensare, a qualche memoria accademica. E di quelle pesanti. Ma le cose stanno diversamente. Nel libro si parla al mondo e non a pochi, perché si critica certo “interventismo democratico”, a uso e consumo del più forte, oggi, purtroppo, ancora in voga. Come quello che coniuga visione universalistica dei diritti umani e pesanti bombardamenti a tappeto su “stati canaglia”. Nazioni, spesso dai nomi esotici, che ovviamente non brillano per democraticità. Ma dove, una volta bombardate, si fa la triste contabilità dei corpi di donne vecchi e bambini, ritrovati sotto le macerie delle città distrutte…
Come scrive Danilo Zolo, docente universitario, profondo conoscitore del pensiero schmittiano, nonché membro del comitato scientifico della debenoistiana “Krisis”: “Schmitt propone una interpretazione fortemente suggestiva delle relazioni tra ‘vecchia Europa’ e il ‘nuovo mondo’ americano e offre una preziosa chiave di lettura degli imponenti successi che la vocazione messianica ed egemonica degli Stati Uniti ha conseguito nella seconda metà del Novecento. Si tratta di una chiave di lettura di drammatica attualità, che si rivela illuminante in particolare per quanto riguarda la fase di espansione planetaria dell’egemonia neo-imperiale degli Stati Uniti dopo il crollo dell’Unione Sovietica alla fine dell’assetto bipolare delle relazioni internazionali”. In buona sostanza, prosegue Zolo, “le ‘nuove guerre’ che gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati occidentali hanno condotto nell’arco di tempo che va dalla Guerra del Golfo del 1991 alla aggressione all’Iraq nel 2003 - con al centro l’attentato dell’11 settembre 2001 - offrono una conferma sorprendente della “profezia apocalittica” annunciata da Schmitt: l’avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neoimperiale si schiera e non solo e non tanto contro i singoli stati, quanto contro organizzazioni di “partigiani globali” (Kosmopartisanen) che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile” .
Ma da quale tipo di analisi prende vigore la “profezia apocalittica” di Schmitt, datata, attenzione, 1938? Dalla convinzione che la prima guerra mondiale, considerata entusiasticamente dal presidente americano Wilson, come l’ultima delle guerre mondiali, volta a realizzare un mondo perfetto, avrebbe invece condotto a guerre ancora più feroci. Dove ogni avversario, giudicato secondo un criterio discriminatorio come nemico della “pace democratica universale”, sarebbe stato schiacciato con ogni mezzo quale nemico dell’umanità. Dal momento - ecco la novità - che il solo fatto di ricorrere alle armi, che nel passato secondo un concetto non discriminatorio del nemico veniva invece considerato come un male necessario, sarebbe diventato una colpa tremenda da estirpare con ogni mezzo. Wilson, insomma, come una specie di Papa laico e illuminato rilanciava il pericolosissimo concetto di “guerra giusta”: Che di lì a qualche anno avrebbe fatto ritornare il mondo alle guerre di religione. Ma questa volta tra teologia politica democratica e antidemocratica.
Ovviamente, Schmitt - e questo va onestamente riconosciuto - ragionava da tedesco weimariano: sconfitto e in cerca di rivincite, probabilmente non solo intellettuali. Di qui certe critiche non infondate di alcuni studiosi sulle sue iniziali simpatie per il movimento nazionalsocialista come salvatore della patria tedesca. Poi duramente scontate con un periodo di prigione nell’immediato dopoguerra. E forse ingiustamente, come sostengono altri studiosi (pochi per la verità): visto che Schmitt, già nelle seconda metà degli anni Trenta, aveva preso le distanze dal movimento hitleriano, pagando con l’isolamento interno al regime.
Preso atto del deragliamento politico-emotivo schmittiano, vanno però sottolineate la profondità e preveggenza delle sue analisi. Citiamo tre passi significativi:
Il primo: “La guerra di annientamento giustificata dal punto di vista universalistico-ideologico, proprio per la sua pretesa ecumenica spoglia innanzitutto lo Stato, in quanto ordinamento territoriale nazionale e chiuso, del carattere ordinatore che ha avuto sinora, e trasforma la guerra tra Stati in una guerra civile internazionale ” .
E non è proprio quello a cui oggi stiamo assistendo, soprattutto se si pensa al cosiddetto “interventismo democratico”. Grazie al quale - si fa per dire - un sistema di alleanza globale a Occidente, sembra imporre non solo ai singoli stati, ma ad esempio anche all’Europa quale “superstato”, il pesante e costoso coinvolgimento in operazioni di polizia internazionale, che rinviamo a un teatro di autentica guerra civile mondiale.
Il secondo passo: “ E’ inoltre da tenere presente, di conseguenza, che questa guerra [discriminatoria] priva del loro prestigio e della loro dignità i concetti di guerra e di nemico e li annienta entrambi, trasformando la guerra condotta dalla parte ‘legittima’ in un’esecuzione o in misura di epurazione, mentre la guerra della parte illegittima è una resistenza illecita e immorale di parassiti, sobillatori, pirati e gangster”.
Il terzo: Di conseguenza “ il progresso dello sviluppo tecnico militare” viene così presentato, “come un progresso storico d’importanza mondiale verso la trasformazione della guerra in un’ azione di pacificazione contro popolazioni ribelli o arretrate sul piano della civilizzazione… Ovviamente - conclude in modo ironico Schmitt - non si tratta di ‘guerra’, se su tali popolazioni vengono sganciate delle bombe” .
Come del resto nota anche Zolo, il recupero della “guerra civilizzatrice” a suon di bombe, teorizzato da Schmitt settant’anni fa, rinvia direttamente alla crisi attuale. E soprattutto a quei neocon americani dal grilletto facile, ruotanti intorno Bush figlio. I quali, come è risaputo, hanno teorizzano una guerra mondiale al terrorismo, in nome di valori che devono essere presuntivamente ritenuti come condivisibili da tutta l’umanità, di ogni fede e cultura. Punto e basta.
Sulle potenzialità belliciste e totalitarie di una posizione del genere è inutile insistere. Pur comprendendo la naturale reazione statunitense a un orribile attentato, come quello delle Torri Gemelle. E anche il ruolo di un’Europa che non può non dichiararsi, anche per ragioni di riconoscenza storia, prima alleata dell’America.
Ma esiste un preciso limite a tutto. E il compito della politica, soprattutto se preveggente, dovrebbe essere - e qui il condizionale è d’obbligo - quello di far ragionare le persone, soprattutto se preposte alle massime decisioni politiche. In che modo? Evitando, come ci fa capire Schmitt, un ritorno alle guerre di religione, esito di un’idea discriminatoria di conflitto bellico, dove il nemico sembra essere visto come erba cattiva da estirpare.
Ma probabilmente è già tardi. Anche se non è mai troppo tardi… Di qui l’utilità di leggere e discutere un libro come questo. Dove un vecchio saggio, come Carl Schmitt, non si stanca di ripetere una grande verità: il nemico politico non può essere amato, ma neppure demonizzato. Altrimenti, in quest’ultimo caso, si rischia di perdere di vista quel sottile confine di velluto, che separa gli uomini dagli animali. Dopo di che sono guai per tutti, buoni e cattivi.