Ci scrive una lettrice: «Di dipendenze da internet ce ne sono di tanti tipi, io vivo quella da eccesso di ricerca di informazioni. Non mi interessano i videogiochi, chat o altro. Ma di fronte a questo contenitore infinito di dati e notizie di ogni genere continuamente cerco, guardo, studio tutto quello che posso, tutto quello che non so – un universo di cose! Ho l’ansia di non sapere, di dover rincorrere qualcosa, non so bene che cosa, ma ho paura che mi scappi».
La lettrice ha naturalmente alcune ragioni biografiche che l’aiutano in questa direzione. Racconta: «Mi piace molto leggere; non ho potuto studiare granché e questo mi pesa; faccio un lavoro solitario al computer per otto ore di fila», e così via. La trappola in cui è caduta, però, non ha origini esclusivamente (forse neppure prevalentemente), personali.
Ci sono persone estremamente erudite che hanno la stessa dipendenza, e altre cui non capita niente del genere. Si tratta piuttosto, come dimostra la sua vastissima diffusione, di una patologia che ha origine nel modello di cultura proposto dalla coscienza collettiva, col quale tutti, in un modo o nell’altro, ci troviamo a doverci confrontare.
Darsi uno sviluppo educativo comporta anche, oggi, dare una risposta personale a questa spinta che ci viene trasmessa dal modo collettivo di pensare e di lavorare, di comunicare con l’esterno, con l’altro, gli altri. Di che spinta si tratta dunque? La lettrice ha una buona intuizione quando la definisce così: «Credo che questa dipendenza sia molto simile alla bulimia: è un divorare, una continua indigestione».
Il punto è proprio questo: la pulsione a divorare, ingozzarsi, senza porsi alcun limite. Nozioni e dati, come fa la lettrice, ma anche molto altro: persone, cose, sostanze, denaro, come dimostra la sterminata lista delle dipendenze. Freud la chiamava “oralità”, e la psicoanalisi classica l’ha spesso vista – secondo me giustamente – come la base ultima della nevrosi, quella sulla quale, in modo diverso, si costruiscono tutte le altre.
Eliot ha perfettamente descritto il protagonista di questo comportamento: The Hollow Man, l’uomo vuoto della società materialista e relativista.
Da dove viene, però, questa spinta a divorare, e perché è impossibile saziarla? Perché il vuoto che questa pulsione divorante tende a colmare, riempiendosi di cibo, di affetti, di sesso, di persone o di potere, ha in realtà un’altra natura. Ciò da cui noi diventiamo dipendenti, e dove lo cerchiamo (su internet o per strada), è determinato dalla storia personale e dalle circostanze. Il non amato cercherà conferme affettive, l’insicuro cercherà vagonate di nozioni, o di denaro… La fame, però, non si placa. Perché noi esseri umani abbiamo bisogno d’altro.
Abbiamo bisogno dell’Altro. Che incontriamo davvero quando riconosciamo (nel profondo, non solo intellettualmente, ma perché accettiamo di farne l’esperienza) il nostro limite, la nostra finitudine. È solo allora che la fame divorante si trasforma in tranquilla e dignitosa mendicità, nella disponibilità a ricevere sapendo che, tanto, abbiamo bisogno di tutto.
Solo allora smettiamo di essere vuoti e abbiamo fame solo di Chi ci può davvero riempire.