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Il Grande Gioco riesumato e la guerra geopolitica delle civiltà

di Côme Carpentier de Gourdon* - 04/07/2008




La visita del segretario del Tesoro statunitense Henry Paulson in Cina, tenutasi il 2 aprile, è indicativa della svolta quasi schizoide impressa alle relazioni tra USA e Cina. Praticamente, mentre da un lato egli implorava i suoi ospiti di Pechino d'aiutare lo sforzo statunitense contro la recessione lasciando rialzare più velocemente il Renmibi, dall'altro li rimbrottava sulla politica tibetana. I dirigenti della Repubblica Popolare Cinese (RPC) hanno fatto notare a Paulson che, al pari di qualsiasi altro governo, è loro compito reprimere le rivolte – etniche o religiose che siano – e fare in modo che i disordini non degenerino in una guerra civile. Probabilmente Paulson non ha colto quanta ironia ci fosse in quelle richieste di moderazione e pacifismo, le quali giungevano dal portavoce della nazione promotrice della “guerra globale al terrore”, che ha edificato campi di detenzione illegale e centri di tortura in quattro continenti e che ha attaccato ed occupato due paesi sovrani in violazione del diritto internazionale (senza dimenticarci della routine: la conduzione o il sostegno di sanguinose “contro-insorgenze” in vari Stati esteri del mondo, pratica che rinverdisce ormai da oltre mezzo secolo).

Stati Uniti e Cina (con la Russia a fianco di quest'ultima) si sono imbarcate in uno scontro globale, sia economico sia politico, che ricorda sempre più da vicino la Guerra Fredda degli anni '50 e '60. Tuttavia, da allora le carte si sono mischiate. Gli USA erano ai tempi la potenza egemone, con un semi-monopolio sulle tecnologie avanzate ed uno straripante dominio commerciale. Oggi sono una nazione malata, finanziariamente in bancarotta e socialmente decadente, alla quale non resta altro che agitare la sua sciabola da 600 miliardi di dollari l'anno per intimidire il prossimo ed indurlo alla sottomissione. Cina e Russia, dal canto loro, stanno crescendo ad un ritmo assai rapido ed hanno economie dinamiche coadiuvate da strumenti militari sempre più validi. La Cina è già diventata la “fabbrica del mondo” - ciò ch'erano gli USA un secolo or sono – lo stesso mondo di cui è maggiore esportatore con oltre 1600 miliardi di dollari di riserve in valuta estera; la Russia detiene invece le maggiori riserve di combustibili fossili e minerali strategici, oltre ad ingenti risorse umane ed agricole.

Analisi recenti, facendosi forti delle opinioni d'economisti di spicco come Bernard Connelly (stratega globale presso la AIG Bank di Londra) e Nouriel Roubini (Stern School of Business, Università di New York), prevedono una grande o «molto grande depressione» (per usare le parole del “Global Europe Anticipation Bullettin”) già visibile negli USA. Secondo Roubini le perdite del sistema finanziario nordamericano supereranno i mille miliardi, e molti analisti concordano che ciò porterà al collasso dell'economia reale, risultando in una situazione storica senza precedenti, una crisi sistemica. Uno dei fattori determinanti sono i costi galoppanti delle guerre vicinorientali (tremila miliardi secondo il vincitore del Premio Nobel Joseph Stiglitz), che la Casa Bianca sta facendo in parte pagare al resto del mondo, trascinandolo con sé nel precipizio.

In Europa come nell'America Latina, nel Pacifico come nell'Asia Meridionale, la stella nordamericana sta declinando; non ostante le sue 800 basi militari estere, il Pentagono sta affogando nel sangue sparso dalle sue infinite e vane campagne irachena ed afghana, dove la sconfitta finale può essere posticipata ma non certo elusa da una dirigenza incompetente ed auto-referenziale, sempre più alienata dall'opinione pubblica interna e mondiale. Casa Bianca, Westminster ed altri quartieri generali atlantisti rivendicano di portare la democrazia nel mondo, eppure il loro agire è sempre più in contrasto con la volontà della maggioranza dell'elettorato, almeno per quanto concerne la politica estera e militare.

Affrontando la minaccia incombente del declino, sul finire del XX secolo gli strateghi nordamericani decisero che fosse giunto il momento di passare all'offensiva: sfruttarono così l'opportunità fornita dagli eventi dell'11 settembre 2001 per lanciare una serie d'iniziative globali preconfezionate volte ad assicurare che il futuro restasse all'insegna delle stelle e delle strisce. Tali progetti sono descritti in un gran numero di documenti e memorandum ufficiali, oggi ampiamente pubblicizzati. Al fine di giustificare le sue operazioni militari all'estero, il regime bushiano fabbricò o manipolò le notizie dello spionaggio per denunciare presunte minacce alla propria sicurezza da parte delle “armi di distruzione di massa” irachene e degli “eserciti terroristi” in corso di costituzione in Afghanistan.

Così come ogni risposta richiede una domanda, ogni offensiva vuole il suo nemico. I nemici prescelti sono stati i radicali musulmani, cui è stata data un'immagine emblematica nello spettro misterioso e polimorfo di “al-Qaeda”. La lotta (o “crociata”) contro questi terroristi verdi aveva il vantaggio di riunire gran parte dei cristiani e degli ebrei sotto una comune bandiera - la sopravvivenza della civiltà occidentale – e forniva una perfetta copertura agli USA ed ai suoi vassalli della NATO per irrompere in teatri strategici dell'Asia e dell'Africa, da dove intendevano respingere i vecchi e nuovi rivali strategici: Cina, Russia, e grandi nazioni musulmane come l'Iràn.

Nelle ore e nei giorni seguenti agli attentati dell'11 settembre 2001, l'amministrazione Bush rivelò d'essere pronta a muovere sull'Iràq, sull'Afghanistan e, se la protezione dei propri interessi economici e strategici l'avesse richiesto, anche su Siria, Sudan, Iràn e persino Arabia Saudita. Proclamando che «o si è con noi o si è contro di noi», George W. Bush prevenne la possibilità che alcuni paesi si tirassero fuori dalla guerra per il predominio nel mondo.
Con tutta probabilità la riesumazione del “grande gioco”, che riaccendeva anche la Guerra Fredda, era intesa a coinvolgere i vecchi alleati dell'Occidente. Gli USA erano stati in rapporto con numerose forze secessioniste o controrivoluzionarie in vari Stati ostili, ed ancora potevano contare su questi vecchi amici. Oltre ai membri della NATO, anche Pakistan, paesi dell'ASEAN, Stati dell'Africa Orientale, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Egitto e le monarchie arabe furono coinvolte in questa nuova alleanza occidentale. Nel Sudamerica la situazione si presentò più ostica per Washington, in quanto la caduta di molti regimi militari della regione e l'ascesa di dirigenti nazionalisti e di sinistra visceralmente ostili allo sfrontato neocolonialismo praticato dai “gringos”, impedì all'amministrazione Bush di poter contare su diversi di quelli ch'erano stati satelliti degli USA.

La Russa di Putin rappresenta una nuova minaccia, che gli USA contano d'affrontare reclutando nuovi satelliti della NATO in Europa Orientale e tra le ex repubbliche sovietiche, orchestrando nel frattempo rivoluzioni “colorate” in quei paesi che rimangono vicini a Mosca e nella Russia stessa; rivoluzioni coordinate e finanziate da ONG filoccidentali e sostenute dai media del “mondo libero”. Tali progetti hanno avuto successo in Ucraìna e Georgia, ma sono falliti in altri Stati, specialmente in Russia.

Riguardo alla Cina, da tempo gli USA pensano di soffiare sul fuoco del secessionismo nelle regioni autonome del Tibet e degli Uiguri per indebolire Pechino, e possibilmente precipitarla in una nuova guerra civile che rappresenterebbe la fine dei sogni di supremazia mondiale della RPC.
La decisione della CIO d'accettare la candidatura cinese per i giochi estivi del 2008 si rivelò un'opportunità d'oro per gli atlantisti d'imbarazzare e destabilizzare il governo del “Regno di Mezzo”, tenendolo sotto la costante minaccia del boicottaggio che, inevitabilmente, condurrebbe i giochi al fallimento e farebbe perdere la faccia alla dirigenza comunista, fino a provocare forse disordini su scala nazionale e favorire l'invocazione d'un “cambio di regime”.
Non era difficile trovare argomenti per fomentare campagne anticinesi. In Occidente il crescente risentimento verso il “pericolo giallo”, rivitalizzato dal timore diffuso del dominio economico cinese, rende molto popolari numerose rimostranze commerciali e politiche contro la RPC, giustificate o meno che siano.

Le accuse secondo cui la Cina esporterebbe prodotti tossici e non aderenti alle normative poggia su elementi reali, ma il volerle appioppare la responsabilità indiretta (o persino diretta) dei massacri in Darfur è evidentemente assurdo. Eppure, tale argomento è ormai abusato, giacché USA, Europa e Stati industrializzati d'altre regioni guardano con preoccupazione alla rapida e trionfale espansione cinese nel tradizionale cortile africano dell'Occidente. Tuttavia, ieri il Myanmar ed oggi il Tibet offrono occasioni perfette per demonizzare la Cina, rendendola il bersaglio d'una coalizione globale per i “diritti umani”, migliorando nel mentre l'immagine assai sbiadita (almeno agli occhi dell'opinione pubblica occidentale) del Governo statunitense. In questo modo, i feroci conquistatori dell'Iràq e dell'Afghanistan possono reclamare la supremazia morale al minor costo possibile.

Assieme al governo tibetano in esilio, ed in particolare ai gruppi giovanili esuli (generalmente finanziati dalle ONG occidentali e perciò molto vicini agl'interessi nordamericani ed israeliani), sono state concertate le mosse da compiersi. Lo scopo era suscitare una campagna “non violenta” su scala globale contro la “brutale occupazione” cinese, mentre all'interno del Tibet ed in altre parti della Cina abitate da minoranze tibetane sarebbero esplose rivolte con la partecipazione dei monaci, come successo in Myanmar, costringendo le autorità a cedere.

La campagna è stata evidentemente organizzata e pianificata con finalità nascoste, tanto che la tempistica e l'esecuzione lasciano pochi dubbi. Alcuni capi giovanili tibetani avevano dichiarato alla stampa che, se il Tibet non fosse riuscito a divenire indipendente o parte dell'India, essi avrebbero lottato per farne uno Stato degli USA! Chiedendo l'indipendenza ed invocando il sostegno internazionale alla lotta armata per espellere i Cinesi dal Tibet, questi “dirigenti” minano la tradizionale posizione autonomista del Dalai Lama, ponendo Sua Santità in una posizione davvero molto difficile.

Essi auspicano anche uno scontro diretto tra India e Cina, ed accusano il Governo di Nuova Delhi di mostrarsi “timido” nella condanna dell'annessione cinese del Tibet: infatti, l'India ha ormai pienamente accettato che la regione sia parte integrante della Cina, come dimostrano gli eventi storici e diplomatici.

Non mettiamo in dubbio la sincerità di molti manifestanti tibetani, ma ciò non cambia i motivi reconditi per cui molte potenze li appoggiano. I “Bianchi” russi esulati in Occidente dopo la rivoluzione bolscevica avevano molte buone ragioni per biasimare i capi comunisti ed auspicare una “contro-rivoluzione bianca”, ma Gran Bretagna, Francia e USA erano animati esclusivamente da ragioni geopolitiche ed interessi di casta capitalistici.

Gli USA non si preoccupano delle realtà storiche o dei trattati, poiché si riservano il diritto di decidere quando un paese meriti di rimanere integro e sovrano, e quando debba invece essere ridotto ad una sussidiaria, a seconda del “rispetto dei diritti umani” e delle preferenze e degl'interessi degli USA stessi. Nei primi anni '60 gli USA, ereditando la politica indiana della Gran Bretagna, vedevano il Tibet come una casella della scacchiera globale – al pari di Palestina, Yemen, Katanga, Indocina, Indonesia, Sudafrica o Kashmir – in cui muovere le proprie pedine contro quelli percepiti come alfieri dei Sovietici o dei Cinesi.

Sin dalla spedizione di Younghusband nel 1903, il Dalai Lama si è trovato sotto la tutela di fatto dei Britannici, ed a Dharamshala come a Lhasa (la cui insurrezione del 1959 e la successiva fuga del pontefice tibetano furono resi possibili dal sostegno della CIA) egli rimase sotto lo stretto controllo dei consiglieri statunitensi, che vedevano in lui un prezioso portabandiera per la resistenza anti-comunista dei buddhisti tibetani e, se possibile, dell'Asia intera. In Asia ed in Europa, gli USA ereditarono la strategia antibolscevica ed antirussa adottata dalla Triplice, portata in Asia Centrale dal generale Ungern von Sternberg nel 1917.

L'inevitabile corollario di questa politica era che gli USA, non ostante i loro schietti proclami a favore della libertà e della democrazia, installarono e sostennero dittature militari in numerosi paesi, addestrandovi “squadroni della morte”. Inconsciamente, il Dalai Lama ed i suoi consiglieri monaci, divennero vittime e strumenti di quel sistema ch'era finanziariamente generoso, ma li mantenne per quattro decenni in una sorta di limbo. Essi si trovarono in compagnia di molti uomini forti, reazionari, non eletti, finanziati dagli USA, che stavano lottando contro le rivoluzioni sociali a Taiwan, nelle Filippine, in Indonesia, Indocina, Turchia, Iràn, Iràq, Grecia e nelle intere Africa e America Latina, tutti nel nome della stabilità neocoloniale e del capitalismo liberale. Paradossalmente, in nome della libertà e della democrazia, USA ed alleati sostenevano in Tibet un regime feudale e teocratico il quale, malgrado i meriti spirituali e culturali del suo retaggio buddhista, poggiava sullo schiavismo e la servitù. Nel 1957, la CIA trasportò alcuni tibetani a Dhaka e da lì in Pakistan, avviando un programma d'addestramento alla guerriglia presso Camp Hale, in Colorado, ammassando nel frattempo armi e rifornimenti militari in Thailandia, in previsione d'una guerra di liberazione nazionale tibetana. Nel 1959, il governo statunitense versò 1,7 milioni di dollari come finanziamento annuale ai capi dei rifugiati tibetani, e 180.000 dollari al Dalai Lama in persona.

La politica cinese in Tibet fu spesso non esattamente edificante e, al pari del resto del paese, il “tetto del mondo” cadde in preda ai disordini provocati dall'agire maoista: in particolare dalla rivoluzione culturale, che non fu più benefica per il popolo tibetano di quanto lo fosse per il retaggio culturale della Cina stessa. Mentre la Guardia Rossa metteva brutalmente in pratica il programma lanciato su scala nazionale per abolire ogni vestigio del feudalesimo e del capitalismo, con costi umani ed economici enormi, gli elementi più conservatori e pragmatici del Partito Comunista idearono una contro-rivoluzione, messa in atto dopo la morte del “Grande Timoniere” (1976) coll'intento di riparare i danni arrecati alla società. Rimisero in libertà i capi religiosi e feudali tibetani che avevano collaborato con Pechino dopo la partenza del Dalai Lama e li restaurarono in posizioni prominenti. Deng Xiao Ping, il nuovo dirigente nazionale, avviò anche negoziati segreti colla cerchia del Dalai Lama per sondare le possibilità d'un suo ritorno.

Il Lamaismo fu riabilitato come legittima espressione della cultura tibetana, ovviamente sotto la ferrea supervisione del Partito Comunista; ma è davvero questionabile se il ritorno della politica ultra-reazionaria ed isolazionista tenuta prima del 1950 dal governo clericale tibetano di Lhasa e dai quasi indipendenti grandi lama e signori feudali, possa essere desiderabile. Il fatto che vi siano probabilmente oggi circa 45.000 monaci nei monasteri del Tibet dovrebbe essere causa di riflessione per coloro che denunciano un “genocidio culturale”: a meno che costoro credano che quei monaci non siano genuini finché non saranno posti sotto l'autorità d'un governo buddhista “indigeno”. Quanti la vedono così, siano o non siano buddhisti, dovrebbero dunque sentirsi in sintonia con i cattolici del XIX secolo, secondo i quali il potere sovrano ed assoluto del Papa era sacro e l'Italia non aveva il diritto d'unirsi politicamente annettendo lo Stato della Chiesa e Roma come sua capitale.

È interessante notare che, mentre i promotori della rivoluzione culturale di Mao lottavano per “liberare” le masse tibetane dai loro signori feudali organizzandole in comuni agrarie autonome, i riformatori economicamente conservatori che arrestarono la “Banda dei Quattro” e misero fine alla loro politica erano molto più concilianti con la gerarchia tradizionale ed i proprietari terrieri del Tibet e cercarono di farseli alleati, anche quando assunsero un approccio quasi “colonialista” ai problemi sociali ed economici di questa regione arretrata. La minaccia posta dalla massiccia immigrazione d'etnia Han in Tibet, deriva più dalla politica riformista di Deng Xiao Ping che da quella Mao.

Coloro che condannano il comunismo per i torti fatti dai Cinesi ai Tibetani, dovrebbero capire che gran parte delle storture del Tibet odierno derivano dalla peculiare realizzazione del capitalismo di Stato imposta da Pechino al “tetto del mondo”. Gli Statunitensi, che incoraggiano e stimolarono l'evoluzione cinese in quella direzione sin dai primi anni '70, non sono i più adatti a maledirne gli effetti.

Il rifiuto, opposto dal Dalai Lama e dai dirigenti degli esuli, alle proposte cinesi di fare ritorno in patria può essere motivato dai legittimi timori d'ulteriori possibili rivolgimenti politici nella RPC, nonché dalla loro convinzione che Pechino non sia pronta a garantire reale autonomia al Tibet; è però chiaro che i sostenitori occidentali del Dalai Lama non auspicano il suo ritorno, siccome esso suonerebbe come una fenomenale vittoria ideologica e diplomatica della Cina, mentre USA ed alleati perderebbero potere contrattuale nei confronti sia di Pechino, sia del Dalai Lama.
Washington voleva brandire il Tibet come un'altra spada di Damocle sul capo della Cina, al pari di Hong Kong e Taiwan i quali, tuttavia, sul lungo periodo, si sono rivelati di beneficio più a Pechino che agli USA, siccome la RPC è riuscita ad integrarli nella sua sfera d'influenza economica. La latente questione tibetana è stata riesumata sin dalla visita del Dalai Lama alla sottosegretaria di Stato nordamericana Paula Dobryanski (già protagonista d'altre “rivoluzioni colorate”), avvenuta nel novembre 2007. Nel marzo 2008 è stata la presidentessa della Camera Nancy Pelosi a contraccambiare la visita recandosi a Dharamshala, da dove ha lanciato moniti bellicosi fortemente ostili alla Cina.

Testimoni oculari stranieri presenti durante la rivolta di Lhasa dello scorso marzo hanno riferito dell'estrema violenza usata dai “dimostranti”, che hanno ucciso civili inermi e dato alle fiamme negozi, scatenando la loro rabbia soprattutto contro l'area commerciale musulmana della città. Gli apologisti dei Tibetani hanno ammesso gli atti illegali compiuti dai rivoltosi, ritenendoli però inevitabili o giustificandoli persino come legittime reazioni all'oppressione straniera. Le potenze occidentali, di comune accordo, hanno premuto su Pechino perché aprisse un dialogo col governo tibetano in esilio: il che avrebbe implicato una quasi certa concessione di maggiore autonomia, o persino dell'indipendenza.
USA, Gran Bretagna e Stati associati stanno provando a costruire una NATO asiatica che si regga sul “quartetto democratico”, composto da Giappone, Corea del Sud, Australia e India: il suo scopo primario sarebbe contenere la Cina, esattamente come la NATO europea è ancora intesa a circondare ed eventualmente soffocare una Russia recalcitrante; gli Stati vicinorientali occupati svolgono la medesima funzione nei confronti dell'Iràn. Tutti questi piani d'accerchiamento e conquista di paesi che non accettano di sottomettersi alla “sola superpotenza mondiale” (ancorché insolvente) sono tuttavia incerti e condannati dalla straripante hubris dei loro autori.

Il “progetto per un nuovo secolo nordamericano” di Bush e la solenne promessa d'una occupazione centenaria dell'Iràq fatta da McCain (assieme a quella di rinverdire il dominio coloniale su Afghanistan e Pakistan) ricordano la più antica ambizione nutrita da un capo del secolo scorso di creare un “Reich millenario”. Non sorprende che i successori egemonici del germanico “Herrenvolk” siano parimenti colpevoli di crimini di guerra e contro l'umanità, seguendo per essi la definizione fissata dal Processo di Norimberga.

(traduzione di Daniele Scalea)

* Côme Carpentier de Gourdon è direttore aggiunto della rivista internazionale “World Affairs” e consigliere della fondazione indiana Kapur Surya.

Fonte: http://comecarpentier.com/great-game.htm