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La recessione rilancia il locale e le bancarelle

di Giampaolo Visetti - 07/07/2008

 
Cuorgnè - La porta è aperta ma le luci sono spente. Da Italo Derio, mezzo secolo di storia nel Canavese e duemila metri di "gonne e pantaloni di marca", da stamattina sono entrati in due. Un uomo ha riportato una camicia presa in visione. Una donna ha pagato le calze acquistate una settimana fa. Enza, nel centro di Cuorgnè, non piazza invece una cappello dai primi di giugno. Aspetta le notti bianche dei saldi: quattro complessi rock e due quintali di pizza gratis a spese del Comune. Un quarto d' ora a monte, in valle Sacra, i negozi invece non ci sono più. Tra le case restano tese vecchie luminarie natalizie. Resistono, come servizio sociale, tre spacci. Il "Commestibili" di Borgiallo mercoledì è chiuso. Nel "Generi Misti" di Celleretto, Luciana fa le pulizie. Tiene la "prima necessità" per i paesani, da 32 anni. Ancora due, dice, e smette. Se non fosse per i rumeni, anche l' essenziale scadrebbe nel frigo spento di Cipriano Formento. Nessuno per le strade a Campiglia, in val Soana. Sprangato l' impero di Giuseppe Clerico. Emigrato come vetraio a Parigi, fondò Moulin Rouge e Lidò. Si parla ancora del giorno in cui tornò in paese con Blue Belles e gemelle Kessler: adesso sopravvive solo un nipote di papa Luciani. Poche auto vagano sotto le colline di Castellamonte, nel parcheggio di "Bennet". Nel centro commerciale qualcuno c' è. Rade scatole nuotano in enormi carrelli, spinti lungo gallerie di negozi deserti. Le commesse sono spaventate. Hanno paura a pronunciare la parola-incubo che, come un segreto tam-tam, scuote da settimane negozi, bar e ristoranti del Piemonte: "Vuoto". Per la prima volta è questo "Vuoto" ad accomunare i paesi desertificati di montagna, le gigantesche "Shop Ville" sorte ai loro piedi, sulle macerie delle fabbriche abbandonate, le piccole botteghe fallite delle periferie urbane, le lussuose boutique di via Roma a Torino. L' altra faccia della crisi dei consumi, del crollo dei redditi, è l' inconfessabile bisbiglìo in codice che scorre tra industriali, grossisti, rappresentanti e commercianti: "Recessione". Non si può dire, avvertono i leader di categoria, ma è così: segno meno per tutti, in Italia. "Siamo davanti ad un cambiamento epocale - dice Carlo Nebiolo, presidente dei pubblici esercizi piemontesi - e dall' esito ignoto. Qualcosa di devastante, da cui tutti usciremo diversi". Il crollo del commercio, tra Torino e Ivrea, è uno choc. Sopravvissute alle crisi Fiat e alla chiusura dell' Olivetti, le capitali dell' industrializzazione pensavano di poter reggere qualsiasi prova. Nell' estate peggiore del dopo-guerra scoprono invece qualcosa di inaffrontabile: la fine del trentennio consumista in Italia. è il tramonto di un modello sociale, di una cultura, di un' organizzazione infrastrutturale. Smettere o quasi di fare la spesa significa sconvolgere la geografia del territorio. Un dramma. Il ritorno ad un' esistenza antica. E quindi a modelli di distribuzione del passato. Come i vecchi mercatini, non a caso gli unici a crescere nel deserto dei consumi. Nell' ultima grande area operaia d' Europa si assiste a un cambiamento epocale. Qui vive la più alta concentrazione d' Italia di dipendenti a stipendio fisso. Mezzo milione di metalmeccanici e impiegati mantengono la famiglia con 1180-1294 euro al mese.
In quindici anni si è perso il 14% del potere d' acquisto. Il 30% della popolazione oscilla sulla soglia della povertà. «L' esclusione da consumi anche essenziali - dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom-Cgil - è ormai paragonabile alla perdita del lavoro. C' è gente troppo povera per pagare l' iscrizione al sindacato: o il pane, o la tessera. Negli stabilimenti monta una rabbia nuova. Equilibrio e pace sociale tornano a rischio». Da gennaio, mai successo, anche la grande distribuzione perde. "Le Gru", a Grugliasco, è il più grande centro commerciale italiano. Per anni, nei fine settimana, si stava ore in colonna per accedere ai 44 mila metri quadri dei 180 negozi. Oggi, nonostante sia la pausa pranzo, è semivuoto. Aperto sempre e per 13 ore al giorno, affida gli affari agli show di Fichi d' India, Cornacchione, Zelig, George Benson, Al Jarreau, Alex Britti e Anna Tatangelo. Macchie di mamme spingono carrozzine, i vecchi leggono il giornale abbandonati sulle panchine, bande di bambini bivaccano nella sala giochi divorando pommes. "Noche cubana e ritmi calienti" in cambio di scontrini. «Ormai vengono solo per l' aria condizionata - confida un manager che pretende l' anonimato - la nostra mission è fallita. Ci dicevano: se uno esce senza aver speso, è colpa tua. Il problema è che non entrano nemmeno». Il calo, in giugno, è stato del 5%. Meno 10% per l' abbigliamento. Meno 20% per bar e ristoranti. La maggioranza mente e si indebita per pagare l' affitto. In Piemonte ormai 69 comuni sono rimasti senza negozi. Nell' ultimo anno 5637 commercianti e 2770 tra baristi e ristoratori hanno chiuso: 19 i nuovi centri commerciali. Secondo le stime, i saldi estivi faranno segnare un meno 26% sul catastrofico 2007. A Torino la vita media dei nuovi negozi non arriva a due anni, cinque per i locali pubblici. I bar, in realtà, sono tutti in vendita. I cartelloni non lanciano più prodotti, ma promesse: "Una casa in regalo", "Prendi oggi paghi tra 5 anni", "Finanziamenti a tasso zero". Uno spartiacque nazionale: l' estinzione del piccolo, il ridimensionamento del grande. Da una parte famiglie senza soldi. Dall' altra commercianti strangolati da costi, fisco e incassi mancati. «La crisi - dice Maria Luisa Coppa, presidente regionale dell' Ascom - per la prima volta mina tutto il sistema. Il negozio, privo di economie di scala, salta. La grande distribuzione, invece di calmierare i prezzi, si è consegnata a clandestini accordi di cartello al rialzo. La gente non ci crede più. Ha visto sterminare il piccolo commercio di paese e di quartiere. Impoverita, capisce che gli enormi carrozzoni, quasi tutti stranieri, esprimono speculazioni immobiliari, non necessità di consumo. C' è il rischio di un crollo senza precedenti». La vita però, in vent' anni, è cambiata. Monferrato, Langhe, Casalese e vallate alpine sono state americanizzate a forza. A Trezzo Tinella 345 persone vivono come in una metropoli. Quaranta chilometri per raggiungere uno "Shop Village". Auto obbligatoria. Maxi-spesa settimanale. Senza il soccorso di figli e conoscenti, gli anziani, ostaggio nei paesi, morirebbero di fame. Due piemontesi su tre sono passati dal pizzicagnolo sotto casa all' ipermercato a un' ora di macchina. Impossibile, per i vecchi, affrontare viaggi, cambi di corriera, sporte pesanti. «Aumento dei prezzi e crollo dei redditi - dice l' economista Giuseppe Berta - sono innegabili. Ma l' evento storico che ci travolge, dopo aver sconvolto gli Usa negli anni Ottanta, è la somma tra invecchiamento, immigrazione e megalopolizzazione del territorio. Per questo il cambio dei consumi è definitivo: minore capacità di spesa, snodi del commercio lontani, spese di trasporto alle stelle. O i negozi medi rientrano nelle città, portando sicurezza e relazioni, o anche l' Italia sarà in balìa del modello Wal-Mart». Nel piazzale della stazione di Porta Susa, non sembra. Da aprile, per la prima volta, il pullman quotidiano diretto all' Outlet di Serravalle non si riempie. Le vecchie collezioni delle grandi marche, superscontate, non tirano più nemmeno a Vicolungo, Mondovì e Santhià. I pellegrinaggi della moda sono un ricordo. «Il centro commerciale - dice Antonio Carta, segretario della Confesercenti di Torino - fa paura. Ciò che prima attraeva, varietà e firma, ora spaventa. Tra montagne di merce inarrivabile, ci si sente ancora più poveri. Ci sono da dire troppi no, a sé ed ai bambini». Un mercato, stampella estrema dell' economia italiana, fuori mercato. L' effetto, in Piemonte, è impressionante. Ristoranti vuoti. Negozi deserti. Parcheggi facili. Alberghi liberi. Strade scorrevoli. Bar accessibili. Benzinai servizievoli. Sette torinesi su dieci passeranno le ferie in casa o da parenti. L' 83% delle famiglie non spenderà più di 104 euro per l' abbigliamento estivo. Il 50%, in giugno, ha tagliato anche l' unica uscita in pizzeria. Casa e trasporti divorano il 76% del reddito. «Siamo diventati troppi - dice Livio Cossu, istituzione della moda torinese - e l' improvvisazione danneggia i marchi storici. Passiamo dall' acquisto al saldo senza transitare dalle vendite». è l' effetto-disperazione. Disoccupati, precari, dipendenti alla fame, puntano sul commercio per un riscatto impossibile. Quasi diecimila, in un anno, gli "inizi attività" in regione. «Se non sai cosa fare - dice lo chef Santino Nicosia - apri un bar, o un negozio, o un ristorante. Mutui suicidi, prestiti, debiti, con l' illusione della Mercedes come quella di chi ti vendeva le scarpe. Fallimenti che sfociano in tragedia. Dietro il boom delle aperture non c' è la vivacità del mercato, ma la tragedia di una società che non sta più in piedi». Dopo la liberalizzazione di Bersani, le categorie invocano corsi di formazione obbligatori e «un' alta scuola del commercio». Troppi italiani, piuttosto che fare i lavori semplici appaltati agli stranieri, si consegnano alla roulette del registratore di cassa. Perché la vita dei negozi, da 100 anni, è scesa a 100 giorni? Jeans a quattro euro e sconti dell' 80% - sostiene Confcommercio - truffano i clienti: ma mandano anche in rovina i venditori seri. Non però i mercati all' aperto. è la bancarella a prevalere nella sfida tra bottega e franchising. A Torino il mercato di Porta Palazzo, 150 anni, è il più grande del continente. Gli ambulanti, in Piemonte, hanno sfondato quota 14 mila. Sui banchetti si vende il 75% della frutta e della verdura, il 34% dei vestiti e il 37% delle scarpe. La crescita, in due anni, è del 26%. I prezzi, tra mattina e sera, calano quattro volte. Alla chiusura, gli alimenti in scadenza spesso si regalano. «Il mercato - dice il sociologo dei consumi Guido Sertorio - esprime la nuova protesta del consumatore critico. Conta ogni euro, bada alla sostanza, considera il rapporto qualità-prezzo. I soldi che risparmia, rinunciando a griffe e salmone, li usa per telefono e computer. Il concetto di "necessario" è cambiato». La folla che diserta centri commerciali e negozi si riversa così nelle multietniche fiere rionali. «Trovi tutto - dice Carla Brugnatto alle Crocette - e puoi contrattare il prezzo senza vergognarti. In più c' è il calore umano, il rapporto diretto con il venditore, la possibilità di fermarsi a parlare con gli amici. Non ti senti più povero e solo». Un successo che sta riportando gli acquisti anche nelle periferie, nei paesi e in montagna. In due anni gli ambulanti che battono i deserti del commercio, spesso immigrati, sono triplicati. Furgoni, auto e camper riportano nelle valli il pesce fresco e il pollo allo spiedo. Ma anche pane e carne, frutta e verdura, vestiti, casalinghi, scarpe, mobili. Un gigantesco ipermercato itinerante e a domicilio, conquistato da cinesi e africani. Senza di loro, e senza le badanti dell' Est, il mondo "fuori città" avrebbe già imbracciato gli schioppi. «Nelle fasi di mutamenti storici - dice la sociologa Maria Cristina Martinengo - si affermano fenomeni nuovi. La struttura classica della vendita, come le mega città - mercato, respinge. Da questa paura-protesta nascono i gruppi d' acquisto solidali che accedono al produttore, i piccoli mercati contadini, gli ambulanti. I diritti della società e quelli della natura iniziano a ricomporsi. In Piemonte, da un paio d' anni, gruppi di famiglie, al passaggio di stagione, si scambiano i vestiti smessi on-line. Un patto di fiducia e di mutuo sostegno, ma pure un no ad anonimato, spreco e inquinamento». Grande distribuzione e cattedrali del consumismo sono nel panico. Studiano il modo per tornare a raggiungere le persone in casa e con offerte su misura. Il rischio, per il commercio, è di essere saltato da un ex consumatore in bolletta. La scienza dello scaffale ha smarrito la sua energia. Impoverimento e tecnologia possono saldare la distanza tra nuovi produttori e consumatori maturi. «La crisi immobiliare negli Usa - dice Giuseppe Berta - si somma a quella commerciale in Europa. Anche la pubblicità riprende a soffrire. Tivù private e a pagamento vedono lo spettro dei tagli. Può essere l' epilogo del potere berlusconiano. L' affanno di Tremonti su prezzi e consumi, fa capire l' inquietudine del governo». Per la prima volta si impone così la domanda cancellata dai corsi di marketing: si consuma perché si ha bisogno di un prodotto, o per tenere in piedi chi lo vende? «Troppe strutture - dice Maria Luisa Coppa - sono frutto di progetti nati in un contesto diverso. Ormai nascono vecchie, per arricchire i Comuni con gli oneri di urbanizzazione e mi auguro senza altri interessi». Anche grande distribuzione e centri commerciali, dopo aver distrutto i piccoli negozi invocando il libero mercato, iniziano a chiedere limiti. Di qui la guerra di categoria contro due centri progettati dalla Juventus a Torino, o contro l' ex "Millennium" di Albiano, alle porte di Ivrea. "Mediapolis", 55 mila metri quadri, aprirà a dicembre e nel Canavese si trema. Perché, se i consumi crollano, le superfici commerciali si moltiplicano? «Un male spietato - dice Luciano Soria, anima del Premio letterario Grinzane Cavour - corrode società e territorio. è la fine di un tempo, ma la grande distribuzione non lo capisce. Un passaggio devastante: la distorsione del consumo, il diritto alla speculazione immobiliare, hanno demolito la nostra struttura civile e antropologica, il paesaggio risparmiato dall' industria. La cultura è la prima ad essere tagliata. Il Grande si è confuso con il Bene, il Piccolo con il Vecchio e questo con il Male. Nell' anonimato dei centri commerciali appaltati alle catene globali, nasce la falsa ossessione identitaria che sta frantumando il Paese». Al punto che, dopo anni, si ricomincia a parlare di intervento dello Stato in economia. «La politica - dice Gavino Sanna, presidente dell' associazione consumatori di Torino - non tutela più chi consuma. Prodotti e prezzi sono stati lasciati nelle mani di pochi, i grandi cartelli hanno sostituito la concorrenza. In Italia i consumatori non possono nemmeno essere soggetto collettivo di contenzioso. O il governo interviene, anche fissando il prezzo di alcuni generi di prima necessità, o deve avere il coraggio di dire la verità: prezzi alti e stipendi bassi? Cavoli vostri». Sono le 19 e a Cintano, tra i boschi che donano vento al Canavese, chiude l' ultimo "Dispensario". In un giorno, tre pacchetti di sigarette e sei panini al salame per i muratori moldavi. Sull' asfalto qualcuno ha scritto: «Siamo celti». L' infermiera Angela Locanin chiede tre pomodori da insalata. «Per farcela - dice - ci mancano almeno 300 euro al mese netti e reali. è questo il dramma: altrimenti, con i piccoli negozi da 30 metri, abbasseranno la saracinesca anche i giganti da chilometri». In piazza il manifesto per lo sciopero della spesa, contro l' apertura dell' Ipercoop di Cuorgnè anche il primo maggio, è coperto dalla pubblicità di un' onoranza funebre di Torino. «Il funerale - dice l' annuncio - è una cosa seria».