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Spalancare ogni senso, ogni facoltà per cogliere l'infinita ricchezza dell'intera sinfonia

di Francesco Lamendola - 10/07/2008

La persiana è quasi del tutto abbassata sopra il lungo pomeriggio estivo, e lame di luce dorata penetrano nella penombra della stanza. Dall'esterno giungono suoni ovattati: fruscio di automobili che corrono sull'asfalto, cinguettio di uccelli sui rami degli alberi, voci di donne e di bambini. Da esse, specialmente, si comunica un senso di pace, di serenità.

Una camera d'ospedale, tutta bianca, come la stanza di una casa di campagna. Una atmosfera pacata, senza tempo, che non ha più nulla a che fare con la fretta, gli impegni, il lavoro,  il produrre, il guadagnare. Qui ci sono persone che soffrono; qui si bada non ai fronzoli, ma all'essenziale: la vita, la salute.

Ecco: non si può vedere, fuori, lo spettacolo della vita, della stagione estiva, dell'ora meridiana, delle luci, delle ombre - delle ombre tra i rami dei platani, dove cantano i merli. Non lo si può vedere, ma lo si può immaginare. E lo si può immaginare non solo con la stessa ricchezza, ma perfino con una maggiore ricchezza di quando lo si percepisce - in genere, distrattamente - mediante i cinque sensi del corpo. L'immaginazione, il ricordo, quella singolare apertura dell'anima che accoglie tutto, che gode di tutto, che ringrazia per tutto - per il vociare delle donne e dei bambini, per il cinguettio degli uccelli sugli alberi, persino per il rotolare delle ruote delle automobili; non è tutto questo un dono, una magnificenza allestita per il nostro stupore?

Come il cane può udire suoni che noi non udiamo; come l'aquila può vedere particolari che noi non scorgiamo; come il pipistrello può percepire, nel buio, oggetti che si sottraggono ai nostri sensi: così la vita intera è una immensa, armoniosa sinfonia, della quale noi siamo soliti cogliere - per pigrizia, per abitudine - non più di qualche nota; e sempre la stessa. Incredibilmente, lo spettacolo dell'infinita varietà del mondo finisce per apparirci monotono, per annoiarci. Un bambino, privato della televisione, del computer e del videotelefonino, non tarda ad annoiarsi: non sa che fare, non scorge niente di bello o d'interessante intorno a sé.

Pare proprio che solo l'ospedale e la prigione (oltre alla trincea, come in Veglia di Giuseppe Ungaretti) riescano, di tanto in tanto, a strapparci - nostro malgrado - all'incredibile cecità e alla ottusa abitudinarietà che restringono penosamente l'orizzonte della nostra coscienza. Siamo simili ai proprietari di un magnifico palazzo che, per pigrizia e trascuratezza., si sono ridotti a vivere nella stanzuccia più umida e buia, se non addirittura in cantina.

La meraviglia del creato è tutto intorno a noi, coi suoi mille e mille colori, profumi, sapori, carezze e armonie: non dovremmo fare altro che lasciarla scorrere liberamente, permettendole di inondarci a volontà.

Invitati indolenti a un banchetto che non sappiamo apprezzare, pretendiamo sempre nuovi stimoli artificiali, nuove innaturali rincorse dietro miraggi di chissà quali emozioni: e non vediamo che in una fronda che trema nel vento, in un grillo che canta nel buio, vi è una tale meraviglia che, per l'emozione, dovremmo scoppiare in un pianto dirotto: come dicono accada al naufrago, quando tocca la solida terra con i piedi; o a colui che è scampato alla morte, quando può rivedere e abbracciare i suoi cari.

Perché ogni cosa ci parla, se solo la sappiamo ascoltare.

Anche la più umile e quotidiana.

E, se non possiamo vedere, possiamo ancora udire; se non possiamo vedere né udire, possiamo però  odorare e gustare; se non possiamo fare neanche queste cose, possiamo pur sempre toccare e lasciarci toccare.

Quante cose, ad esempio, ci dice l'acqua fredda che scorre  gioiosamente sul corpo, ristorando le membra stanche dopo una giornata di afa opprimente, comunicandoci un senso di benessere, di libertà, di armonia, sì da trasportarci quasi - in quei pur brevi istanti - in un altro tempo e in un altro spazio, in una dimensione più vivida e intensa.

E se non possiamo né carezzare né lasciarci accarezzare dalle cose, possiamo tuttavia immaginare: quello, nessuno ce lo potrà mai impedire, nemmeno la più gravosa malattia. E non solo immaginare, ma anche ricordare: ricordare tutto, tutto, tutto. Basta un piccolo periodo di esercizio, e ci si accorge che la memoria, a richiesta, è in grado di restituirci ogni cosa, anche la più piccola e apparentemente insignificante; anche la più lontana.

Provare per credere.

La memoria, mare generosissimo, rende sulla spiaggia, con la bassa marea, tutto ciò che le domandiamo. Quante cose, quanti luoghi, quante situazioni, quante emozioni, quante persone, che ormai credevamo perdute, o che pensavamo di aver scordato per sempre, essa ci restituisce, quasi facendole rinascere! Persone dell'infanzia, piccoli gesti, sguardi, parole, odori, sapori: un tesoro immenso, di cui noi siamo i legittimi proprietari, e cui non avevamo mai pensato di attingere - lamentandoci, magari, al tempo stesso, della nostra estrema indigenza, solo perché incapaci di soddisfare l'ultimo capriccio delle nostre brame disordinate.

È strano: signori dell'oasi, abbiamo scelto di confinarci da noi stessi nel deserto infuocato,  tra le sabbie desolate.

 

Che cosa ci manca, dunque, per compiere il salto di qualità che potrebbe consentirci di vedere ovunque la bellezza che ci avvolge come un manto; di udire non già poche note smozzicate, ma  l'intera, stupenda melodia, e lasciarcene inebriare?

Essenzialmente, ci manca la capacità di spogliarci del superfluo; di lasciar cadere tutto l'armamentario delle cose inutili - paure e desideri smodati, ambizioni sbagliate, cupidigie inconfessabili, viltà e furbizie da quattro soldi -, liberandoci, così, dei veli che formano come un diaframma tra noi e lo splendore del mondo.

Ci manca l'umiltà di capire che la vera saggezza consiste nel togliere, e non nell'aggiungere; nell'eliminare, nello sfrondare, nel semplificare, e non nell'inseguire sempre nuove passioni, nuovi miraggi e nuove conquiste. Ci manca l'umiltà di capire che dobbiamo diventare più leggeri, non più pesanti; più piccoli, non più grandi; più semplici, non più complessi.

Sì, abbiamo bisogno di un bagno rigeneratore nelle limpide acque della semplicità.

Solo allora ci renderemo conto che, abitualmente, viviamo la nostra vita in modo assurdo: sempre preoccupati del superfluo, sempre dimentichi o disinteressati dell'essenziale.

Come il capitano di una nave che, prima di affrontare un lunghissimo viaggio in mare aperto, si preoccupasse più della perfetta verniciatura dello scafo, che non dell'efficienza del timone, delle vele, dei motori.

Come il carovaniere che, prima di intraprendere la traversata del deserto, si preoccupasse dell'eleganza dei propri abiti, piuttosto che dello stato di salute dei cammelli, della consistenza delle riserve d'acqua, delle mappe che devono indicargli l'ubicazione dei pozzi e la via più breve da percorrere per giungere a destinazione.

Sì, nella maggior parte dei casi noi assomigliamo al capitano che bada solo alla verniciatura dello scafo, o al cammelliere che non si cura se non dei begli abiti da indossare.

Ci comportiamo in modo assurdo, pur se nella nostra follia c'è una logica ineccepibile: perché, una volta stabilito il principio che la cosa più importante per affrontare un viaggio in mare è la verniciatura dello scafo, o quella più necessaria per traversare il deserto è l'eleganza degli abiti del cammelliere, non c'è dubbio che prendiamo queste cose estremamente sul serio. Portiamo a verniciare la nostra nave nei cantieri più attrezzati, e ci rechiamo ad acquistare i nostri abiti presso i negozi migliori. Ci preoccupiamo infinitamente della piega dei pantaloni e della lucidatura delle scarpe.

Oh, queste cose sì, le sappiamo prendere con la massima serietà.

 

Intanto, dalle stecche della persiana abbassata, la luce che filtra sta impallidendo, e al caldo  meriggio sta ormai per succedere il fresco della sera. Tra poco, lo stridio delle rondini riempirà l'aria, e sarà facile immaginare i loro voli nel cielo azzurrino del tramonto, con lo sfondo delle nuvole grigie che si aprono sopra la chiostra dei monti vicini.

Si può immaginare benissimo la luce radente dell'ultimo sole che scende sugli orti, che sfiora la corteccia dei platani, mentre nel folto dei rami già si addensano le ombre, e i passeri tornano al nido.

Si può sentire il respiro della terra, pur senza affacciarsi al balcone.

Si può provare struggimento e gratitudine alla sola idea del cielo immenso spalancato su noi, anche se, costretti in un ambiente chiuso, non possiamo vederlo.

Noi possiamo vedere con gli occhi dell'anima, udire con gli orecchi dell'anima, odorare, gustare, toccare con i sensi ben desti dell'anima: e scoprire che il cielo più immenso è quello che si trova dentro di noi, e non fuori.

 

Qualcuno penserà che, per riuscire a far questo, è necessario sviluppare una tecnica, incrementare una disposizione naturale, potenziare delle facoltà mediante esercizi incessanti.

Sì e no.

La cosa più importante, è un'altra: ed è la capacità di tacere, di non agire (il Wu wei dei taoisti), di lasciarsi andare. Si tratta di imparare a far silenzio, per poter udire; di imparare a chiudere gli occhi, per poter vedere; di farsi simili a dei docili recipienti, sì da poter accogliere la sovrabbondanza della Grazia.

Perché tutto è segno, tutto è bellezza, tutto è grazia: basta lasciar cadere il nostro piccolo ego, il nostro attaccamento alle cose, la nostra puerile avidità.

Ci attacchiamo alla cannuccia come un bimbo che teme di versi sottrarre la dolce bevanda; e non ci accorgiamo che potremmo bere molto di più, e con un piacere infinitamente più calmo e sereno, se fossimo un po' meno avidi, un po' meno ingordi.

Potremmo bere, con gusto, direttamente dal bicchiere; e, un po' alla volta, potremmo perfino accedere alla fresca vena che scende dalla montagna. Deliziosa, impagabile.

Nessuno vuol rubarci la dolce bevanda della vita: siamo noi che rischiamo di privarcene da soli, a causa del nostro modo agitato e compulsivo di servirci delle cose. Il nostro è un bere disordinato e nevrotico, che non appaga i sensi e che ci lascia in preda ai tormenti di una sete ulteriore. Più beviamo e più abbiamo sete; più facciamo, e più ci sembra di restare inoperosi; più accumuliamo, e più ci sentiamo poveri.

E lo siamo davvero: ma per colpa nostra.

 

Ecco, il sole dev'essere ormai tramontato, perché dalle fessure della persiana non filtra ormai che un debolissimo chiarore. E, da fuori, non giungono che pochi rumori. Qualche automobile, sempre più rara; più nessun cinguettio d'uccelli, e nessuna voce di donne o di bambini.

Il mondo, fatto silenzioso, si prepara ad accogliere la notte nel suo grembo.

Un altro giorno sta per finire, portando via con sé gioie e dolori, paure e speranze.

Mentre le ombre invadono la stanza, poco a poco, e anche all'interno i rumori, lentamente, si vanno spegnendo, subentrano una gran quiete e una gran pace.

L'anima, adesso, è sempre più libera: di vedere, di udire, di sognare, di sperare, di ammirare e di ringraziare.

Di svuotarsi, docile recipiente, perché Altri la possa riempire.

Di farsi una col tutto, di fondersi con l'Essere.

Di ritornare a casa, finalmente.