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Il Mercato come sistema di razionamento e di esclusione

di Eugenio Orso - 10/07/2008

 

 

Spesso sentiamo evocare il Mercato, quando si tratta di giustificare lo smantellamento di uno stabilimento industriale, o lo spostamento di un’attività produttiva da un paese all’altro, con conseguente chiusura dei cancelli in loco e l’irrimediabile perdita di posti di lavoro.

Ci si riempie la bocca con la parola Mercato anche quando si vogliono negare aumenti retributivi dignitosi ai lavoratori dipendenti, spingendoli giorno dopo giorno verso una condizione di reale indigenza, o per sostituire il ricattabile precariato agli impieghi stabili e soggetti ad ampie tutele normative.

Si ricorre a questa magica formula – sempre più dogma ideologico e sempre meno luogo fisico di incontro fra i venditori di merci, utili alla vita quotidiana della collettività, e i compratori – per procedere alla progressiva distruzione dello stato sociale, ritenuto un ostacolo a maggiori profitti e quindi alla “competitività” e allo “sviluppo”, nonché per attaccare la tutela dei così detti beni pubblici puri, che sfuggono alle logiche del Mercato stesso, ma che sono essenziali per la collettività nazionale e il suo benessere.

 

Sentiamo dire, inoltre, che il processo di allargamento dei mercati all’infinito, non soltanto in termini fisici, costituisce un dato positivo per l’umanità tutta, mentre invece due miliardi di individui sopravvivono nell’indigenza più vergognosa – nonostante anni di robusta crescita del PIL mondiale – e il ceto medio, nei paesi “ricchi”, si va progressivamente riducendo, con la rapida espulsione dai benefici che questa appartenenza comporta di tutti quelli che risultano sempre meno “utili” al Mercato onnivoro.

A pensarci bene, basterebbe la nostra quotidiana esperienza per suggerirci la conclusione che questo terribile dio, il quale regola dall’alto i processi di mondializzazione economica, è prima di tutto un’invenzione di grande successo – semantica, come potrebbe convenientemente aggiungere l’autorevole Serge Latouche – che nei fatti regala ai Signori della mondializzazione il controllo sui destini dei popoli e delle nazioni e consente loro di modellare, secondo interessi particolaristici, l’organizzazione delle società umane.

 

Si applicano le leggi del Mercato per abrogare, nel concreto, le leggi dei vecchi stati, nazionali o federali che siano, o per marginalizzarle fino alla desuetudine, o ancor più spesso al fine di subordinarle alle stringenti regole fissate dagli organi della mondializzazione – quali FMI, Banca Mondiale, WTO e Unione Europea – che hanno come compito quello di “promuovere” la globalizzazione economica, l’internazionalizzazione della finanza e del capitale produttivo ed espandere per questa via il potere, trasversale e assoluto, dei Signori della mondializzazione.

E’ chiaro che quando usiamo sbrigativamente la parola Mercato intendiamo, implicitamente e quasi per “default”, il Libero Mercato – con respiro ormai planetario – e non una qualsiasi altra forma che potrebbe assumere in futuro, o che abbia assunto in altra epoca della storia passata, il mercato stesso.

 

In linea di massima e pur con qualche significativa riserva concordo con David C. Korten, quando scrive [in Il fallimento di Bretton Woods di David C. Korten, tratto da Glocalismo (Arianna Editrice, 1998) di J. Mander e E. Goldsmith]: «Il punto in discussione non è il mercato in quanto tale. E’ evidente che un’economia senza mercato è destinata al fallimento, come dimostra l’esperienza sovietica. Si tratta invece di fare una netta distinzione fra mercato e libero mercato.[…] Il successo del mondo occidentale nell’ultimo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra non deriva dal libero mercato, ma da un patto istituzionale che ha cercato di garantire un equilibrio fra stato e mercato, che venivano considerati responsabili dell’interesse pubblico in pari misura».

Quello del Libero Mercato è prima di tutto un dogma, il prodotto di un’ideologia generata dai cascami della dottrina economica liberista, assieme all’utile compendio politico della “teoria” liberale – che si vuole imporre, attraverso le regole del commercio internazionale e i processi di “democratizzazione” delle società in senso occidentale, od anche manu militari, al genere umano tutto – e nel concreto è un meccanismo apparentemente impersonale di razionamento nella distribuzione dei beni e dei servizi, nonché di spietata esclusione di fasce sempre più ampie della popolazione, all’interno dei paesi occidentali, e di interi popoli altrove nel mondo, dai benefici di uno “sviluppo” inteso esclusivamente in chiave economica, sulla scorta del puro e semplice accrescimento delle quantità di beni prodotti e consumati.

 

Di più e di peggio: a lui si vuole affidare, in esclusiva, la gestione degli aspetti sociali e politici nelle società moderne, instaurando una sorta di potere sopranazionale e “invisibile”, con la progressiva marginalizzazione dei vecchi stati e la totale sottomissione delle loro burocrazie politiche … ecco quale si avvia ad essere, nella realtà, il più importante effetto dell’azione della celebre Mano invisibile, oggetto di una fuorviante metafora del settecentesco pedagogo e viaggiatore Adam Smith.

E’ bene, ora, concentrarsi sul discorso relativo ai meccanismi di razionamento e di conseguente esclusione del Libero Mercato, oggi inteso forma globale, per il quale intendo di proposito rifarmi al pensiero di Lester C. Thurow, apprezzato professore di Economia e autore di autentici best sellers, con l’importante collaborazione di Robert L. Heilbroner [autori del libro: Capire l’economia di R. L. Heilbroner e L. C. Thurow, aprile 2003, Il Sole 24 ORE S.p.A.], i quali ultimi non possono essere certo considerati dei “sovversivi” anti-liberisti …

In primo luogo, deve essere chiaro che «Tutti gli acquirenti e i venditori in grado e desiderosi di pagare il prezzo di equilibrio (o qualcosa di più) otterranno i beni voluti, gli altri no. […] Pertanto il mercato, stabilendo un prezzo d’equilibrio, ha in effetti allocato i beni a certi acquirenti escludendone altri. »

 

Ecco la prima verità: chi non può pagare almeno il prezzo di equilibrio è escluso senza appello dai consumi, come del resto i venditori che non ce la fanno a vendere a quel prezzo sono esclusi dagli affari. Di conseguenza «il mercato è, in tal modo, un mezzo per escludere certe persone dall’attività economica […] nei fatti, è un meccanismo di razionamento.»

Un meccanismo di razionamento che, però, è più efficiente delle vecchie tessere annonarie, si affrettano in seguito a precisare i due autori, anche se non ci si occupa, lasciando tutto nelle sue mani, della vera origine delle insufficienze di reddito alla base di tale esclusione, che chiaramente risiede nel processo di distribuzione dei redditi stessi, il quale dovrebbe rappresentare una decisione eminente politica, nei limiti delle risorse scarse a disposizione.

Inoltre, il sistema dei prezzi che provoca il razionamento gode di due grandi vantaggi, a detta dei citati economisti: «è assai dinamico e si autosostiene (self-enforcing).»

E’ evidente che tale “dinamicità” favorisce, più che singoli individui immaginativi e ambiziosi come suggeriscono i nostri, le grandi concentrazioni di risorse finanziarie, le quali spazzano via la concorrenza, senza troppi complimenti, e influiscono direttamente sul punto più sensibile di tutto il sistema: la determinazione del prezzo.

Esattamente il contrario dell’idea che aveva il padre del liberismo economico, Adam Smith, per il quale una miriade di piccoli produttori non avrebbe avuto la forza di influenzare in modo diretto, individualmente, i prezzi.

 

Inutile dire che tali concentrazioni di potere economico e finanziario, chiaramente oligopolistiche, sono oggi nelle mani dei Signori della mondializzazione.

Il secondo attributo, il self-enforcing, qualifica un sistema autosussistente, che si sostiene da solo, senza bisogno alcuno di interventi esterni, si autoggiusta e si autocorregge, e quindi è un peccato che qualche entità “aliena” (lo stato, ad esempio) ci metta inopportunamente le mani, compromettendone il successo …

La giustificazione che spesso si dà, da parte dei liberisti, dei fallimenti registrati dal Libero Mercato è proprio l’interferenza “esterna”, l’intromissione di un potere politico o religioso.

Infatti uno dei principali compiti assegnati agli organi della mondializzazione, subordinati agli interessi di chi domina la scena economica e finanziaria del pianeta, è il seguente: impedire che qualcuno, sia esso un’organizzazione statuale o un’autorità morale, religiosa, interferisca con questi delicati meccanismi impedendone il regolare funzionamento.

Anzi, attraverso i famigerati piani di aggiustamento strutturale, si impongono liberalizzazioni forzate ai paesi poveri, costretti ad “aprirsi” alla concorrenza internazionale e ad essere fagocitati nei suoi ingranaggi, per ottenere l’elemosina dei finanziamenti e poterne pagare gli interessi.

 

Senza sconfinare nelle accuse di nuovo colonialismo, realizzato attraverso l’azione dei ricordati organi internazionali al fine dell’allargamento dei mercati, sottolineo il fatto che razionamento ed esclusione, generati dal sistema del quale ci stiamo occupando, sono in qualche misura voluti e dovuti proprio al reale funzionamento dei suoi meccanismi, che mettono nelle mani di pochi la determinazione del prezzo (in funzione dell’ottenimento di cospicui dividendi, di faraoniche stock options e di profitti crescenti) e impongono regole commerciali stringenti a moltissimi paesi nel mondo, nel più assoluto disprezzo del vero interesse di popoli e nazioni.

Con le parole di Heilbroner e Thurow, i quali, ironia della sorte, sono due economisti di formazione liberista, possiamo ben dire: «Tale cecità del mercato nei confronti di tutte le altre possibili modalità di riconoscimento del diritto a godere del prodotto sociale, che non siano la ricchezza o il reddito, crea dei problemi molto seri. Essa infatti implica che coloro che ereditano vaste ricchezze abbiano diritto ad ampie quote dell’output, anche se magari non hanno prodotto alcunché. E significa altresì che gli individui che non hanno ricchezza e che non possono produrne – semplicemente perché, ad esempio, non riescono a trovare lavoro – non hanno modo di assicurarsi un reddito tramite il meccanismo economico.»

 

In effetti, razionamento ed esclusione riguardano sempre di più anche il diritto di intere popolazioni a godere appieno di ciò che materialmente hanno prodotto e il conseguente diritto di decidere, nel limite delle risorse a disposizione, il processo di distribuzione della ricchezza.

La tendenza attuale, con i processi di internazionalizzazione del capitale finanziario e produttivo ormai in fase avanzata, è quella di portare alle estreme conseguenze lo storico motto liberista laissez faire, laissez passer, nell’incuranza che i problemi economici assumono sempre e drammaticamente una dimensione sociale.

Via libera, quindi, ai meccanismi di razionamento e di esclusione di un Libero Mercato senza freni, in quanto questi ultimi sono utili agli interessi dei veri attori dei processi di mondializzazione economica.

Per chiudere con i nostri due economisti, prendiamo atto che: «Volendo rispettare soltanto il meccanismo distributivo del mercato, dovremmo anche esser disposti a tollerare che gli individui muoiano di fame sulle strade.»