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Vendetta su Tlaloc

di Matteo Dean - 10/07/2008

 

Quando Hernán Cortes, il conquistarore spagnolo, attraversó il passo che divide i due grandi vulcani, il Popcatepetl e Iztaccíhuatl, si trovó davanti un enorme lago. Ne aveva sentito parlare, lí c'era il temibile imperatore dell'Impero Mexica (o azteca, come preferite) che soggiogava metá della terra che oggi conosciamo come Messico. Ma quel che non si aspettava Cortes era il fatto di trovarsi davanti una cittá dalle dimensioni modeste forse, ma al centro di un lago di oltre 1000 kilometri quadrati di superfice. Oltre tre volte il Lago di Garda, per intenderci.
Oggi, all'attraversare il medesimo passo quasi alpino ci si trova difronte ad un altro scenario: oltre 2000 kilometri di macchia urbana. Questa é Cittá del Messico. Quella che con nostalgia qualcuno assimila a Venezia, pur riconoscendone che le dovute differenze. A partire dal fatto che qui, i conquistadores, vennero e distrussero in poco piú di due secoli il sistema idrico d'avanguardia che permetteva alla popolazione locale - agli imperatori e sacerdoti, in realtá, piú qualche migliaio di schiavi - di mantenere una quantitá d'acqua enorme a oltre 2500 metri d'altitudine. Fu sufficiente abbattere un po' di qua - templi e simboli del dominio mexica tra cui Tlaloc, dio dell'acqua -, costruire un po' di lá - i nuovi simboli del potere spagnolo - e trasformare con disprezzo il sistema idraulico della conca della Valle de Mexico. Il risultato: la rapida desertificazione di una valle che da luogo ospitale per le acque dei 45 fiumi che vi giungono e per le abbondanti precipitazioni che durano almeno sei messi all'anno é diventata una valle enorme certamente, ma estremamente vulnerabile alle piogge. Le stesse, che pur stando sostanzialmente in montagna, qui abbattono la loro furia e abbondanza come fossimo in piena selva tropicale.
Eppure la quasi totalitá delle abbondanti precipitazioni viene trasportata al di fuori della Valle per almeno due ragioni: incapacitá di trattenerla e incapacitá di purificarla. Al contrario, la capitale messicana spegne la propria sete con diversi acquedotti che trasportano acqua potabile da distanze inimmaginabili. Distanze chilometriche, ma sopratutto differenze d'altitudine. Impossibile estrarne altra dal sottosuolo (la cittá é «affondata» di 10 metri solo nel corso del '900), il governo cittadino importa acqua sopratutto dallo stato di Michoacan, a oltre 200 chilometri di distanza, ma sopratutto quasi 2000 metri piú in basso. Uno sforzo enorme, che non costa poco. É per questo che oggi, senza che nessuno ne sappia niene - o quasi - ormai oltre il 10% del servizio di acqua potabile in cittá (purificazione, distribuzione e riscossione tasse) é in mano ai privati. Ed un trend in aumento, almeno a quanto affermano i sindacati del pubblico impiego dedicato al settore. Intanto, nelle case dei cittadini l'acqua é per lo piú imbevibile, e se in Italia siamo i secondi consumatori di acqua imbottigliata per moda o per paranoia, qui il primo posto é stato conquistato dalla necessitá. Si paga, ma l'acqua non si beve. O non si paga e comunque l'acqua un giorno ce l'hai e due no. Cosí nella vasta periferia - che forse non mantiene assetati i suoi milioni di abitanti (i messicani sono pur sempre tra i primi consumatori al mondo anche di bibite gassate) ma certamente non permette loro di lavarsi -, l'acqua é un miracolo che si invoca e quando arriva, a causa del pessimo sistema fognario cittadino costruito sempre in ritardo rispetto alla rapida urbanizzazione irregolare, innonda, distrugge e inquina.