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L'odissea del rancore, per Cioran, è l'inferno della storia chiusa in se stessa

di Francesco Lamendola - 11/07/2008

Émile Cioran non amava gli uomini. Grande moralista del XVII secolo imprestato alla filosofia postmoderna, questo figlio della solitaria terra transilvana, trapiantato in un minuscolo appartamento di Parigi pieno zeppo di libri, non aveva che parole di scherno per le loro passioni turpi e vergognose, per le loro mal dissimulate ipocrisie, per l'incoercibile istinto alla violenza e alla sopraffazione che cercano di reprimere senza successo, e con cattiva coscienza, trasformandosi in poveri esseri torturati dal rancore.

C'era, in lui, anche la lezione del Nietzsche della Genealogia della morale: se almeno gli uomini potessero vendicare le offese, sfogando a pieno i loro istinti e ritrovando la felicità del cannibalismo!

Tra tutti i pensatori europei contemporanei, quello che ha avuto il coraggio di guardare più da vicino il cannibale che si annida al fondo dell'uomo civilizzato è stato, a nostro avviso, proprio Cioran. Nel suo libro migliore, Storia e utopia, egli parla della "odissea del rancore" con accenti nietzschiani, evidenziando come la civiltà e la religione abbiano solo spinto nel sottosuolo la violenza connaturata all'essere umano, ma pronta ad esplodere alla prima occasione. Ne abbiamo già accennato nel precedente articolo Michel de Montaigne e il cannibale felice (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice); ora desideriamo riprendere e approfondire ancora un poco l'argomento.

Le radici del pensiero antropologico di Cioran sono religiose, e precisamente cristiane. Anche per lui vi è stata, ab initio, una caduta, una cacciata dell'uomo dal Paradiso terrestre.; ma, come forma di risarcimento per quanto aveva perduto, e anche come strumento di riscatto dal rimpianto per il bene sfuggitogli tra le mani, l'uomo ottenne la facoltà di volere, di tendere all'atto, di sprofondarvisi con brio ed entusiasmo. Schopenhauer e Nietzsche, dunque: la cieca volontà di vivere e la «gaia scienza» che premia i fedeli verso la terra: abbiamo qui due riferimenti obbligati del suo percorso speculativo.

Ma quel brio aveva un che di sinistro, e quell'entusiasmo altro non era che il frutto di un ottenebramento. Del resto, che altro attendersi dalla creatura uscita dalle mani di un Dio così imperfetto, così inadeguato, così pasticcione, che qualunque altro dio avrebbe saputo fare meglio di lui? Agli antipodi del «migliore dei mondi possibili» di Leibniz, Cioran è convinto che il mondo sia l'opera di un funesto Demiurgo, e che tutta l'umana vicenda non sia nulla di più che una impura e sconveniente «tentazione di esistere».

Da quel brio sinistro e da quel deprecabile entusiasmo ha avuto origine la storia umana; o, meglio, ciò che gli storici, a un certo punto, hanno deciso di chiamare con questo nome. Ma si sono guardati bene, costoro - come hanno fatto, del resto, i loro colleghi ancor più colpevoli, gli psicologi - dal fare i conti sino in fondo con le forze oscure che si agitano negli abissi dell'uomo e che sono il motore costante, la costante linea di sviluppo della storia. Ed è proprio qui, nella disanima impietosa e puntigliosa di tali forze oscure - che Cioran mette sul vetrino del microscopio, come farebbe uno  scienziato con le sue provette - che emerge quella desolata visione dell'uomo e della vita, quella convinzione dell'assoluta nullità e assurdità della storia stessa, che hanno reso celebri le pagine di questo corrosivo e sarcastico moralista, catapultato dalla reggia di Versailles ai tempi del Re Sole al Quartiere Latino che sta covando i malesseri del maggio (mancano otto anni al 1968).

Tutta la storia umana non è che la moltiplicazione geometrica di questo fondamentale meccanismo dell'animo umano: il rancore, oscillante tra il desiderio di vendicarsi selvaggiamente e l'opportunità di differire la vendetta ad altro momento e a forme più sottili ed eleganti, magari - le più subdole in assoluto - quelle del perdono.

Ed ecco che il rancore insoddisfatto genera la nostalgia della servitù, la quale a sua volta contende con la disperata euforia della dannazione: essere anfibio, l'uomo sogna al tempo stesso impossibili redenzioni che lo facciano regredire a prima dello sciagurato dono della volontà, e apocalittici castighi che gli facciano espiare la colpa della sua sconcertante tentazione di esistere. Torturato dal senso di colpa per le vendette che consuma e dal veleno intossicante di quelle che rinuncia a prendersi subito, l'uomo si abbandono all'osceno delirio dei miserabili o si spinge addirittura, toccando il rado estremo dell'abiezione, a gustare il frutto proibito delle esplosive virtù dell'umiliazione.

E quanto si più si umilia, quanto più si rotola nel fango, tanto più gode: ma tristemente, e sempre con cattiva coscienza; cannibale infelice cui è ormai interdetta la suprema soddisfazione di uccidere all'istante e divorare senza rimorsi i suoi nemici. Preso nel vortice infernale di un desiderio di vendetta che la morale gli vieta di soddisfare apertamente, e di un desiderio di perdono che è solo una sofisticata posticipazione della vendetta medesima, all'uomo, creatura dolente e ossessionata, non resta altro che dibattersi fra sadismo e masochismo., fra la pietà per se stesso e il ribrezzo per la commedia che è costretto a sostenere senza tregua.

D'altra parte - e qui viene in luce, in modo indiretto ma evidente, il substrato religioso del pensiero di Cioran - c'è poco da farsi illusioni: dall'inferno della storia, monotona e ossessionante odissea del rancore, non si esce mediante gli strumenti forgiati dalla storia stessa. Allievo di Machiavelli, Cioran è profondamente convinto che l'esercizio della politica altro non sia che il paravento di una smodata ambizione e che l'unica ragione che spinge gli uomini a cercare il potere è il fastidio di tollerare che un proprio simile occupi una posizione più eminente della loro.

Logica conseguenza di questa premessa è che la storia p un infero chiuso in se stesso, senza sbocchi e senza speranza, destinato a una incessante ripetizione delle stesse follie e delle stesse violenze: una sorta di "eterno ritorno dell'identico" in chiave ultra-nichilista, dove nessuno impara mai nulla dai propri errori e dal quale è fatica sprecata quella di tentar di uscire.

Non si esce dalla storia con i mezzi messi a disposizione dalla storia stessa: questa è la grande lezione appresa dal discepolo di Nietzsche e Machiavelli, corazzato di un cinismo che - forse - è solo la maschera per non lasciar scorgere sul proprio viso alcun indizio di commozione o di pietà. Ora, l'utopia è proprio questo: un tentativo di uscire dalla storia con i suoi stessi mezzi; e, dunque, non già un tentativo di uscire realmente da essa, bensì la forma più pericolosa e concentrata della storia medesima.

Essendo forgiata nella fucina della storia, l'utopia ne riproduce fedelmente, e in genere ne moltiplica a dismisura, tutti i limiti e tutte le storture: come ne La leggenda del grande inquisitore (Dostojevskij: ecco un altro autore molto vicino alla filosofia della storia di Cioran!), non esistono artefici della storia più spietati e inumani degli utopisti, con tutti i loro dolci sogni di rigenerazione e palingenesi. L'utopia, così, diviene un mondo speculare a quello della storia, che pure vorrebbe radialmente criticare: un mondo ancora più asfittico, ancora più opprimente, ancora più ossessionato di quello della storia.

Basta dissipare la sua amena cornice di Buone Intenzioni, e l'utopia ci si mostra facilmente per quello che essa, realmente, è: un inferno rosato, spogliato perfino della sinistra attrattiva dell'orrido. Il suo vero, imperdonabile peccato d'origine non consiste affatto nella distanza che la separa dalla dimensione della realtà; bensì, al contrario, nella sua prodigiosa, orribile facoltà di anticipare gli inferni autentici della storia, i suoi irredimibili squallori.

Allo sguardo lucidi e disincantato del filosofo della storia, pertanto, non resta che una cosa da fare: fondere, per così dire, utopia e apocalittica, annuncio di un futuro di ritrovata armonia e profezia del disastro imminente e irreparabile, forgiando l'unico possibile atteggiamento per le magnifiche sorti e progressive che si annunziano ormai vicinissime: un dire sì alla realtà, che non nasce da alcun residuo di illusione ma, al contrario, dalla scomparsa totale e definitiva di ogni possibile forma di illusione.

Così, armato di un disperato coraggio e di una allegra desolazione, Cioran delinea l'unica maniera che ancora sia data all'uomo di essere irreprensibile davanti alla fatalità; l'unica maniera in cui possa esplicarsi la sua funesta tentazione di esistere.

 

Scrive dunque Émile Cioran in Storia e utopia (titolo originale: Histoire et utopie, Galoimard, Paris, 1960; traduzione italiana di Mario Andrea Rigoni, Adelphi, Milano, 1982, 1988, pp. 92-100):

 

Invece di prendercela con noi stessi, con la fragilità della nostra complessione, rendiamo responsabili gli altri del nostro stato, del minimo disturbo, perfino di un'emicrania e li accusiamo di dover pagare noi per la loro salute, di restare inchiodati al letto solo perché loro si possano muovere e agitare a piacere. Con quale voluttà vedremmo il nostro male o il nostro malessere propagarsi, estendersi tutt'intorno e, se fosse possibile, all'intera umanità! Delusi nella nostra speranza, ce l'abbiamo con tutti, vicini o lontani, nutriamo nei loro confronti sentimenti di sterminio, desideriamo che siano ancora più minacciati di noi, e che l'ora dell'agonia, di un bell'annientamento in comune, suoni perla totalità dei vivi. Soltanto i grandi dolori, i dolori indimenticabili, distaccano dal mondo; gli altri, quelli mediocri, i peggiori moralmente, rendono servi del mondo, perché sommuovono i bassifondi dell'animo. Bisogna diffidare dei malati, hanno "carattere", sanno sfruttare e acuire i loro rancori,. Uno di loro decise un giorno di non stringere mai più la mano di un uomo sano. Ma scoprì presto che molti di coloro che sospettava sani in fndo non lo erano. Perché allora farsi dei nemici sulla base di sospetti precipitosi? Evidentemente, era più ragionevole degli altri e aveva scrupoli non abituali alla razza alla quale apparteneva banda frustrata, insaziabile e profetica, che si dovrebbe solare perché vorrebbe tutto sconvolgere per imporre la propria legge. Affidiamo piuttosto gli interessi pubblici alla gente normale, la sola disposta a lasciare le cose come stanno: indifferente sia al passato che all'avvenire, essa si limita al presente e vi si insedia senza rimpianti né speranze. Ma non appena la salute cede, non si sogna più se non il paradiso e l'inferno, la riforma insomma: si vorrebbe emendare l'irreparabile , migliorare o demolire la società, che non si può più sopportare, perché non si può più sopportare se stessi. Un uomo che soffre è un pericolo pubblico, uno squilibrato tanto più temibile in quanto nella maggior parte dei casi deve dissimulare il suo male, fonte della sua energia. Non è possibile mettersi in luce né recitare una parte quaggiù senza l'aiuto di qualche infermità, e non c'è dinamismo che non sia segno di disturbo organico o di devastazione interiore.  Quando si conosce l'equilibrio, non ci si appassiona a nulla, non ci si interessa neppure alla vita, perché si è la vita; se l'equilibrio si rompe, invece di assimilarci alle cose, non si pensa più che a sconvolgerle o a manipolarle. L'orgoglio deriva dalla tensione e dall'esaurimento della coscienza, dall'impossibilità di esistere ingenuamente. Ora, i malati, che non sono mai ingenui, sostituiscono al dato l'immagine falsa che se ne fanno, di modo che le loro percezioni e perfino i loro interessi partecipano di un sistema d ossessioni talmente imperiose che essi non possono trattenersi dal codificarle e infliggerle agli altri, legislatori perfidi e biliosi che si adoperano a rendere obbligatori i loro mali per colpire coloro che hanno la sfacciataggine di non condividerli. Se i sani si mostrano più accomodanti, se non hanno nessun motivo di essere intrattabili, è perché ignorano - loro - le virtù esplosive dell'umiliazione. Chi l'ha provata non la dimenticherà mai, e non avrà pace fin quando non 'avrà trasferita in un'opera suscettibile di perpetuarne le angosce. Creare significa trasmettere le proprie sofferenze, significa volere che gli altri vi si immergano e le assumano su di sé, se ne impregnino e le rivivano. Ciò è vero per un poema, ciò può essere vero per il cosmo. Senza l'ipotesi di un dio febbrile, braccato, soggetto alle convulsioni, ebbro di epilessia, non si potrebbe spiegare quest'universo, che reca dovunque le tracce d'una bava originaria. E i questo dio non intuiamo l'essenza se non quando siamo noi stessi in preda a un tremito quale egli dovette provare al momento in cui lottava col caos. Pensiamo a lui con tutto ciò che in noi ripugna alla forma o al buon senso, con le nostre confusioni e il nostro delirio, lo raggiungiamo con le implorazioni in cui ci smembriamo in lui e lui in noi, giacché egli ci è vicino ogni volta che in noi si spezza qualche cosa e che, a modo nostro, anche noi ci misuriamo col caos. Teologia sommaria? Contemplando questa Creazione abborracciata, come non incriminarne l'autore, come soprattutto crederlo abile o semplicemente accorto? Qualsiasi altro dio avrebbe mostrato maggior competenza o equilibrio di lui: errori o guazzabugli dovunque si guardi! Impossibile assolverlo, ma anche impossibile non comprenderlo. E lo comprendiamo con tutto ciò che vi è in noi di frammentario, incompiuto, e malriuscito. La sua impresa porta le stigmate del provvisorio, eppure non gli è mancato il tempo per condurla a buon fine. Per nostra disgrazia, è stato inspiegabilmente frettoloso. E per una legittima ingratitudine, e per fargli sentire il nostro malumore, ci dedichiamo - esperti in contro-Creazione - a deteriorarne l'edificio, a rendere ancora peggiore un'opera già compromessa in partenza. Certo sarebbe più saggio ed elegante non metterci affatto le mani, lasciarla tal quale, non vendicarci su di essa dell'incapacità del suo autore; ma, siccome egli ci ha trasmesso i suoi difetti, noi non potremmo avere riguardi verso di lui. Se, tutto sommato, lo preferiamo agli uomini, ciò non lo mette al riparo dalle nostre collere. Forse lo abbiamo concepito soltanto per giustificare e rigenerare le nostre rivolte, dare loro un oggetto degno, impedire che si estenuassero e si avvilissero, esaltandole mediante l'abuso riconfortante del sacrilegio, replica alle seduzioni e agli argomenti dello scoraggiamento. Non la si finisce mai con Dio. Trattarlo da pari a pari, da nemico, è un'impertinenza che fortifica, che stimola, e sono veramente da compiangere coloro che egli ha cessato di irritare. Quale fortuna, invece, poter disinvoltamente fargli assumere la responsabilità di tutte le nostre miserie, sopraffarlo e ingiuriarlo,  non risparmiarlo un solo momento, neppure nelle nostre preghiere!

Al rancore, di cui non abbiamo il monopolio, è soggetto anche lui (come attestano parecchi libri sacri), perché la solitudine, fosse anche assoluta, non preserva affatto da questo sentimento. Che essere solo non sia bene neppure per un dio significa in breve: creiamo il mondo per avere qualcosa con cui pigiarcela, su cui esercitare il nostro brio e le nostre angherie. E quando il mondo svanisce, resta, uomo o dio che sia, questa forma sottile di vendetta: la vendetta contro di sé, occupazione assorbente, tutt'altro che distruttrice perché dimostra che si viene ancora a patti con la vita, che si aderisce a essa proprio attraverso le torture che ci infliggiamo. L'osanna non è nelle nostre abitudini. Ugualmente impuri, anche se in modo diverso, il principio divino e il principio diabolico si concepiscono facilmente; gli angeli, invece, sfuggono alla nostra presa. E se non riusciamo veramente a raffigurarceli se sconcertano la nostra immaginazione, è perché, al contrario del diavolo, di dio e di tutti noi, soltanto loro - quando non sono sterminatori! - fioriscono e prosperano senza lo stimolo del rancore. E, occorre aggiungerlo?, senza quello dell'adulazione, di cui non potrebbero fare a meno gli animali indaffarati che noi siamo. Dipendiamo, per operare, dall'opinione del nostro prossimo; sollecitiamo, ne mendichiamo gli omaggi; inseguiamo senza pietà coloro che emettono su noi giudizi sfumati o anche equi e, se ne avessimo i mezzi, li costringeremmo a emetterne di esagerati, di ridicoli, sproporzionati alle nostre attitudini o alle nostre realizzazioni. Dato che l'elogio misurato si riduce a un'ingiustizia, l'obiettività a una sfida, la riserva a un insulto, che cosa aspetta dunque l'universo per rotolarsi i nostri piedi? Ciò che cerchiamo, ciò che postuliamo nello sguardo altrui è l'espressione servile, un'infatuazione non dissimulata per i nostri gesti e per le nostre elucubrazioni, la confessione di un ardore senza secondi fini, l'estasi davanti al nostro nulla. Moralista profittatore, psicologo e insieme parassita, l'adulatore conosce il nostro debole e lo sfrutta impudentemente. E tale è il nostro decadimento che, senza arrossire, accettiamo come tali eccessi, trabocchi di ammirazione premeditati e falsi, giacché preferiamo le premure della menzogna alla requisitoria del silenzio. Mescolata alla nostra fisiologia, alle nostre viscere, l'adulazione colpisce le nostre ghiandole , si associa alle nostre secrezioni e le stimola, mira, inoltre, ai nostri sentimenti più ignobili,  e quindi più profondi e naturali, suscita in noi un'euforia di bassa lega, alla quale assistiamo storditi; altrettanto storditi consideriamo gli effetti del biasimo,  ancora più forti, poiché toccano, per scuoterle, le fondamenta stesse del nostro essere. Siccome nessuno attenta a esse impunemente, replichiamo sia colpendo senza indugio, sia elaborando fiele, il che equivale a una controffensiva meditata. Per non reagire occorrerebbe una metamorfosi, un cambiamento totale, non soltanto delle nostre disposizioni. ma dei nostri stessi organi, Dato che una simile operazione non è molto imminente, ci inchiniamo di buon grado davanti alle manovre della lusinga e alla sovranità del rancore.

Reprimere il bisogno di vendetta significa congedare il tempo, togliere agli avvenimenti la possibilità di prodursi, significa pretender di licenziare il male e, con esso, l'atto. Ma l'atto, avidità d'annientamento consustanziale all'io, è una rabbia che superiamo solamente in virtù di quei momenti in cui, stanchi di tormentare i nostri nemici, li abbandoniamo alla loro sorte, li lasciamo marcire e vegetare perché non li amiamo più abbastanza per accanirci a distruggerli, a sezionarli, a farne l'oggetto delle nostre anatomie notturne. Tuttavia la rabbia ci riprende non appena si ravvivi quel gusto delle apparenze, quella passione del derisorio, di cui  fatto il nostro attaccamento all'esistenza. Anche ridotta all'infimo, la vita si nutre di se stessa, tende verso un supplemento d'essere, vuole accrescersi senza alcun motivo, per un automatismo disonorante e irreprimibile. Una stessa sete divora il moscerino e l'elefante; si sarebbe potuto sperare che si estinguesse nell'uomo; abbiamo visto che non è affatto vero, che essa infierisce con accresciuta intensità fra gli infermi stessi. La capacità di rinuncia costituisce l'unico criterio del progresso spirituale: non è quando le cose ci abbandonano, ma quando le abbandoniamo noi,  che accediamo alla nudità interiore, a quel punto estremo  in cui non siamo più affiliati a questo mondo né a noi stessi, e in cui vittoria significa abdicare, rifiutarsi con serenità, senza rimpianti e soprattutto senza malinconia; giacché la malinconia, per quanto discrete ed eteree ne siano le apparenze, appartiene ancora al risentimento: è una fantasticheria improntata di acredine, un'invidia travestita da languore, un rancore evanescente. Finché vi si resta assoggettati, non si rinuncia a nulla, ci si impantana nell'«io», senza tuttavia liberarsi degli altri, ai quali si pensa tanto più in quanto non si è riusciti a spossessarsi di sé. Nel momento stesso in cui ripromettiamo di vincere la vendetta, la sentiamo più che mai esasperarsi in noi, pronta all'attacco. Le offese "perdonate" chiedono subito riparazione, invadono le nostre veglie e, più ancora, i nostri sogni, si tramutano in incubi, sprofondano tanto nei nostri abissi che finiscono col costituirne la materia. Se è così,, a che pro recitare la farsa dei sentimenti nobili, puntare su un'avventura metafisica o sperare nel riscatto? Vendicarsi, sia pure solo idealmente, significa porsi irrimediabilmente al di qua dell'assoluto. Si tratta proprio dell'assoluto! Nn solamente le ingiurie "dimenticate" o sopportate in silenzio. ma anche quelle che abbiamo ricambiate, ci rodono, ci sfibrano, ci assillano sino alla fine dei nostri giorni, e questo assillo, che dovrebbe squalificarci ai nostri propri occhi, invece ci lusinga, e ci rende bellicosi. Il minino affronto, una parola, uno sguardo contaminato da qualche riserva, non li perdoniamo mai a un vivo. E non è neanche vero che gli perdoniamo dopo la morte.  L'immagine del so cadavere ci placa, certo, e ci costringe all'indulgenza; ma non appena l'immagine sfuma e nella nostra memoria la figura del vivo  prevale su quella del defunto e la sostituisce, i nostri vecchi rancori risorgono, riprendono con maggior lena e con tutto quel corteo di vergogne e umiliazioni che dureranno quanto noi e il cui ricordo sarebbe eterno, se ci fosse riservata l'immortalità.

Poiché tutto ci ferisce, perché non rinchiuderci nello scetticismo  e tentare di cercarvi un rimedio alle nostre piaghe? Sarebbe un ulteriore inganno, dato che il Dubbio non è che un prodotto delle nostre irritazioni e dei nostri torti, e come lo strumento di cui lo scorticato si serve per soffrire e far soffrire. Se demoliamo le certezze non è per scrupolo teorico o per gioco, ma per la rabbia di vedere che si sottraggono, e anche per il desiderio che non appartengano a nessuno, dal momento che ci sfuggono e non ne possediamo nessuna. E con quale diritto gli altri dovrebbero trarre profitto dalla verità? Per quale ingiustizia essa si sarebbe svelata a loro, che valgono meno di noi? Hanno penato, hanno vegliato per meritarla? Mentre noi ci sfianchiamo invano per raggiungerla, essi si pavoneggiano come se fosse loro riservata e come se ne fossero garantiti per decreto della provvidenza. Essa tuttavia non potrebbe essere il loro appannaggio, e, per impedir loro di rivendicarla, li persuadiamo che, mentre credono di tenerla in pugno, in realtà si sono appropriati soltanto una finzione. Permettere al riparo la nostra coscienza, ci piace discernere nella loro felicità una certa ostentazione, una certa arroganza, il che ci permette di turbarlki senza rimorsi, e di renderli, inoculando loro i nostri stupori, vulnerabili e disgraziati quanto lo siamo noi stessi. Lo scetticismo è il sadismo delle anime esulcerate..

Più insistiamo sulle nostre ferite, e più ci appaiono inseparabili dalla nostra condizione di non-liberati. Il massimo di distacco cui possiamo aspirare è di mantenerci in una posizione equidistante sia dalla vendetta sia dal perdono, al centro di una colera e di una generosità ugualmente flaccide e vuote, perché destinate a neutralizzarsi a vicenda. Ma a spogliarci dell'uomo vecchio non riusciremo mai, neppure se dovessimo spingere l'orrore di noi stessi fino a rinunciare per sempre a occupare un posto qualunque nella gerarchia degli esseri.

 

A ben guardare, la disperazione della storia chiusa in se stessa è l'inevitabile conseguenza, nella concezione di Cioran, della natura umana disperatamente chiusa in se stessa, ossia sprofondata nell'ego.

Posto che la molla fondamentale dell'agire umano sia la vendetta (ma è proprio vero?), al pensatore romeno è sin troppo facile polemizzare con Plotino e osservare che, se fosse vero che noi respiriamo nell'Uno, in tal caso perderemmo ogni possibilità di dare via libera al nostro bisogno di vendicarci. Su chi mai, infatti, potremmo vendicarci, qualora ogni differenza fra l'io e l'altro si dileguasse in una unità indistinta e onnicomprensiva?

In realtà - dice Cioran - noi non respiriamo nell'Uno, ma nel molteplice. Non tenta di dimostrarlo: non è nel suo stile, non rientra nelle sue abitudini. Per questo abbiamo detto che, più che un filosofo,  Cioran è un grande, risentito moralista e un superbo scrittore di aforismi, dalla penna lampeggiante come il taglio di una spada di Damasco. Una specie di Cyrano beffardo e vendicatore, che semina immagini corrusche e sconcertanti, in luogo di dipanare ragionamenti e di tessere pazientemente le fila di una dimostrazione.

Ora, se il nostro regno è quello dell'Io, non può esserci salvezza attraverso l'Io, perché il nostro  regno è una dannazione e un esilio. Esistere - dice Cioran - significa accondiscendere alla sensazione, dunque all'affermazione di sé (ha forse letto Carlo Michaelstadter?); da qui il non-sapere (con la sua conseguenza diretta: la vendetta), principio di fantasmagoria, fonte della nostra peregrinazione sulla terra.

Pertanto, più cerchiamo di strapparci al nostro «io»,  e più vi sprofondiamo. Tutto quello che mettiamo in opera per indebolirlo, scardinarlo, farlo esplodere, gioca contro di noi, nel senso che rafforza in pari misura la prigione dell'«io»; e tali sono il suo vigore e la sua perversità - aggiunge - che esso si dilata ancora meglio nella sofferenza che nel godimento. Così è per l'io; e così, a maggior ragione, per i nostri atti.

È come una trappola vischiosa: quanto più si crede di essersene allontanati, tanto più vi si è sprofondati ulteriormente. Agire, vuol dire farsi schiavi dell'azione, infeudarsi al molteplice;  significa, in ultima analisi, tradire l'Assoluto.

Potremmo continuare, ma crediamo che basti.

È strano che Cioran, persona coltissima e lettore infaticabile, non abbia visto quante filosofie rispondano alla sua domanda e quante possibili direzioni si possano prendere per superare il circolo vizioso dell'io, da lui così vividamente rappresentato. A cominciare dalla dottrina taoista dell'agire non agendo, e passando per quella cristiana dell'azione disinteressata, le alternative esistono, ma  egli non le ha prese seriamente in considerazione.

Ha preferito concentrarsi sulle antinomie di un Io preso in trappola fra sé e sé, bramoso di liberi orizzonti eppure condannato a un desolante ristagno; forse perché questo quadro - apocalittici e integrati, direbbe Umberto Eco - meglio si prestava a fornirgli i colori per quella sua cupa e mirabile tavolozza, dalla quale - come nei cieli temporaleschi di El Greco - sapeva trarre incredibili contrasti e ossimori inauditi.

Pittore ammirevole di infuocate apocalissi, Cioran è stato il lucido testimone di una profonda crisi del pensiero contemporaneo, del quale ha visto con spietata lucidità debolezze e ipocrisie, fustigandole con macabra allegria.

Altro non è stato, né possiamo chiedergli di più.

Altri, eventualmente, saranno i traghettatori dalla palude tenebrosa, nelle cui secche si è impigliata la barca della post-modernità.

Ad essi sarà richiesta, più che la cinica consapevolezza del male presente e l'irridente facondia di una critica fine a se stessa, la capacità di vedere e sentire le cose con la totalità del proprio essere, e non solo con una moralità offesa e risentita.

Forse, in ultima analisi, saranno richieste ad essi non l'esercizio una razionalità più caustica e tagliente, ma una generosità più profonda e una maggiore disponibilità a farsi piccoli e semplici, per accogliere l'ineffabile mistero dell'Essere.

 

 

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA.

 

Émile Cioran è nato nel 1911 a Rasinari, in Transilvania, che oggi fa parte della Romania mentre, all'epoca, era inclusa nel territorio della monarchia ungherese, ed è morto nel 1995 a Parigi. Si era trasferito in Francia nel 1937, e in lingua francese ha scritto la maggior parte delle sue opere: saggi filosofici caratterizzati da una forma sorvegliatissima ed elegante, nonché da un contenuto estremamente pessimistico, ma anche paradossalmente pacificato.

Fra esse ricordiamo: Compendio di decomposizione (1949), La tentazione di esistere (1956), Storia e utopia (1960); Il funesto demiurgo (1969); Squartamento (1979); Lacrime e santi (1986); Esercizi di ammirazione (1986); Confessioni e anatemi (1987); Antologia del ritratto di Saint-Simon a Tocqueville (postumo, 1996).