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Il contesto geopolitico

di Gianfranco La Grassa - 14/07/2008

 

 

Nel 1989-91 affondava il socialismo reale e si dissolveva l’Urss nel modo più vergognoso possibile, senza un sussulto di difesa, nel più totale fuggi fuggi e con un certo numero di vecchi dirigenti del Pcus che, soprattutto in alcune delle ex repubbliche sovietiche, mettevano in mostra tutta la loro arroganza di oligarchi incontrollati, diventando i migliori alfieri di un capitalismo selvaggio e di pura rapina (e sfruttamento bestiale). Veniva in risalto la mediocrità assoluta (non voglio sospettare qualcosa di peggio) di Gorbaciov, osannato da tutti gli ottusi – in particolare i radical-chic manifestaioli – della sinistra italiana che si sciacquarono la bocca con la glasnost, la perestrojka e le altre cretinerie di un “comunismo” degenerato in una forza politica abnorme e mostruosa, di ancora assai difficile definizione. In ogni caso, sono contento di avere scritto su Democrazia proletaria (autunno del 1986, con oltre due anni di anticipo) che la nuova direzione del Pcus e dell’Urss era di pura liquidazione. Naturalmente, fui silenziato dai maneggioni della sinistra di cui appena detto.

Gli Usa emersero così come l’unica superpotenza mondiale e si perfezionò quella che chiamo epoca monocentrica (“imperiale” con termine meno felice). La prima guerra del Golfo (primavera 1991) non sembra essere stata l’atto iniziale della nuova epoca, la prima di una serie di guerre “similcoloniali”, bensì uno sperato (dagli Usa e dai loro servitorelli europei) atto finale e di sanzione della vecchia epoca con il tentativo, fra l’altro, di rinsaldare definitivamente il controllo in una zona strategica come il Medio Oriente; con la convinzione, fra l’altro, che ciò sarebbe pure servito a chiudere infine la partita tra Israele e palestinesi a tutto favore del primo. Quella guerra sembrò anche sancire il ridimensionamento a piccola potenza dell’Urss (dissoltasi pochi mesi dopo), che svolse una vile funzione di copertura per gli americani.

Non ci si scordi che, per chiudere l’aggressione del 1991 all’Irak, gli Usa chiedevano all’esercito di tale paese, asserragliato nei bunker, di uscire allo scoperto dando un chiaro segnale di ritirata verso Bagdad. Gli iracheni non si fidavano, ma fu proprio l’Urss di Gorbaciov a esigere che questo segnale venisse inviato agli aggressori, rendendosi garante dell’incolumità degli iracheni durante la ritirata. Si sa come finì: con un atto di vigliaccheria che ha ricoperto per sempre di disonore l’esercito americano, i cui comandi sostennero che il segnale di ritirata non era chiaro e bombardarono le colonne “nemiche” ormai all’aperto, usando pure armi speciali (e mai dichiarate), massacrando oltre 100.000 inermi. I cialtroni sovietici non osarono nemmeno protestare, dimostrandosi così complici (solo “oggettivi”?) e ricoprendosi anch’essi di vergogna, veri vigliacchi come sono sempre tutti i rinnegati, per fortuna spazzati via nell’agosto di quell’anno (dopo un tentativo di colpo di Stato-barzelletta) da Eltsin, personaggio ancora più squallido e vera quinta colonna americana in Russia.

Per fortuna, malgrado le mene di Gorbaciov (che effettuò un viaggio in Cina nel maggio del 1989) coadiuvate dall’allora segretario del Pcc Zhao Ziyang (poi velocemente rimosso dopo i fatti della Tien-An-Men), il colosso asiatico non andò incontro ad alcuna dissoluzione tipo Urss; mantenne la sua saldezza unitaria, represse le infiltrazioni filo-occidentali (il che significa statunitensi) e non regredì al vecchio “socialismo reale”, bensì accelerò il suo sviluppo secondo i moduli generali del capitalismo (mercato e impresa), pur in condizioni di attento dirigismo centralista che ancor oggi assicura a tale paese un notevole slancio produttivo e di trasformazione sociale incessante. Non mi si fraintenda: trasformazione sociale modernizzante, che nulla ha a che vedere con la vecchia mitologia del socialismo, di cui alcuni sclerotici rimasugli del passato si nutrono ancora in Italia. Non esiste in Cina né il socialismo pianificato né quello “di mercato” (ossimoro indecente, frutto dell’ignoranza del marxismo da parte degli ultimi rigurgiti del vecchio sessantotto, il periodo della distruzione della teoria rivoluzionaria di Marx ad opera di giovanotti presuntuosi e impreparati che inventarono il “grundrissismo”, dandosi le arie di grandi innovatori teorici).

 

2. Per alcuni anni, sembrò che tutto il mondo fosse avviato a diventare di tipologia capitalistica “occidentale” (la formazione sociale dei funzionari del capitale, prevalentemente strutturata secondo le forme del capitalismo americano). Si parlò della possibilità di un mondo tripolare dominato da Usa, Germania e Giappone. Fu soprattutto quest’ultimo ad essere considerato come il prossimo e più pericoloso antagonista degli Stati Uniti; si parlò a vanvera di irresistibile ascesa del paese del Sol Levante. In ogni caso, i paesi del vecchio “campo socialista” sembravano ormai fuori gara per un’intera (e lunga) fase storica. L’Europa orientale era sempre più una sorta di avamposto della superpotenza “imperiale”, con una serie di autentici “Governi Quisling” che, nella prospettiva dell’allargamento della UE, sarebbero sempre meglio serviti al predominio della superpotenza in oggetto. Il confronto “interimperialistico” – non però tanto immediato come pensavano alcuni sciocchi (sempre tendenzialmente di sinistra) – si sarebbe dovuto spostare verso l’area del Pacifico; mentre in Occidente tutto sembrava evolvere a favore del netto e stabile predominio statunitense con la possibilità di un altrettanto deciso predominio del suo principale “sicario”, Israele, in un Medio Oriente dove si pensava ad una stabilizzazione della pax americana (o americo-israeliana).

Il Giappone invadeva di capitali il settore immobiliare degli Usa; la sua industria automobilistica, grazie alla “mirabolante” qualità totale o toyotismo, ecc. – nuovi caratteri meramente tecnologici dell’industria già fordista, ancora una volta particolarmente enfatizzati in Italia e Francia da quei totali distruttori del marxismo (e del pensiero razionale in genere) che sono state le correnti dette “operaiste” (del tutto impropriamente) – sembrava poter mettere in ginocchio l’economia (e società) statunitense, i cui settori di punta, i veri grandi protagonisti della nuova epoca di modernizzazione (di innovazione in quanto distruzione creatrice), erano invece in piena avanzata; alla fine, gli Usa assestarono un gran brutto colpo al paese asiatico troppo sicuro di sé, che dopo una quindicina d’anni non si è ancora rimesso del tutto e, comunque, è ormai una media potenza di secondo o terzo rango.

Non solo nell’area del Pacifico avanzano adesso Cina e India (e la prima fa sentire anche altrove la sua veloce crescita di potenza), ma si è rimessa in piedi, con una certa celerità, la Russia. Di conseguenza, malgrado l’Europa orientale resti quello che fu fatta diventare negli anni novanta, per gli Usa non si è in definitiva pacificato nemmeno il “fronte più a ovest”. Questo fatto ha avuto precisi riflessi pure in Italia, dove con mani pulite si fece fuori il vecchio regime Dc-Psi, contando sui servigi dei rinnegati del fu Pci, nella convinzione che il nostro paese fosse ormai solo utile come rincalzo per una maggiore presa in sede europea, venendo però a cadere la sua funzione di “portaerei” nel Mediterraneo e di controllo del Medio Oriente, e soprattutto di baluardo estremo verso i “nemici dell’est europeo”, ecc. Tutto fu al contrario rimesso in discussione.

 Il “socialismo reale” fu in fondo una manna per l’occidente e soprattutto per gli Usa in quanto loro paese guida (e preminente). Il mondo fu cristallizzato e diviso in due per mezzo secolo, con una serie infinita di aspri confronti ai margini dei due “campi”. In questa situazione di sostanziale stabilità e pace per i paesi capitalistici avanzati, si svolsero quei processi che assicurarono agli Usa, al momento del crollo del “socialismo”, la funzione di paese predominante di una nuova epoca monocentrica.  Il tutto sotto la copertura di un finto duro confronto tra capitalismo e presunto socialismo, mentre invece il secondo degradava dando pieno risalto al suo avversario, con la messa in crisi non solo di quel forsennato statalismo chiamato socialismo, ma perfino del più moderato intervento statale (il cosiddetto Stato sociale) della socialdemocrazia; talché, ancor prima del crollo socialistico, vi fu la grande ripresa teorico-pratica del liberismo (il “libero mercato”, il mito della “mano invisibile”). 

 

3. Direi che con la guerra nei Balcani – e con i vari eventi che la precedono e preparano – inizia veramente la nuova epoca, in cui finisce la convinzione (e speranza) degli Usa di aver infine risolto per l’essenziale ogni problema sul “fronte occidentale” e in Medio Oriente, e di potersi perciò dedicare completamente a quello del Pacifico e dell’Asia in generale. L’elemento più caratteristico e mobile della nuova situazione non è, come si continua a pensare, la crescita inarrestabile (almeno apparentemente) della Cina, bensì la rinascita della Russia in funzione di antagonista. Può anche essere che lo sviluppo cinese sia più solido di quello russo; esso – unito a quello indiano – sarà probabilmente (non sicuramente) la caratteristica dominante dell’epoca che si aprirà, diciamo all’incirca, fra un ventennio e magari più (dubito assai in tempi più stretti). Allo stato attuale dei fatti, tuttavia, l’equilibrio instabile in cui sembra entrato il mondo – ivi compresa la crisi economico-finanziaria attuale che si continua a dire sia la più grave del dopoguerra – è soprattutto legato al ruolo della Russia. Un ruolo ancora ambiguo, che non decifrerei con assoluta certezza come un lineare percorso antistatunitense (tanto meno di tipo globale); eppure sufficiente al momento a creare una fase di dominio “imperiale” (un’epoca tuttora monocentrica con un paese di potenza nettamente superiore ad ogni altro) del tutto imperfetto.

Le tattiche dei democratici e dei repubblicani (del resto con le solite molteplici trasversalità) potranno anche differire in qualcosa, ma l’essenziale della strategia statunitense dovrà tener conto del mutamento della situazione e della non conquistata tranquillità sul fronte occidentale e mediorientale. Fra l’altro, prima o poi, gli Usa dovranno rivedere qualcosa (e più che qualcosa) della loro politica verso il Sud America, modificatasi rispetto ai decenni precedenti quando appunto sembrava che le prospettive strategiche globali fossero completamente cambiate con il crollo del “socialismo reale” e il dissolvimento dell’Urss. Il mutamento strategico, da dieci e più anni, si è andato concentrando in una serie di guerre e aggressioni: alla Jugoslavia, poi all’Afghanistan e infine ancora all’Irak (in una guerra che non fu più fin dall’inizio quella del 1991, tanto è vero che non ci si è arrestati alle soglie di Bagdad come a quell’epoca).

Si è troppo affrettatamente considerata fallita la politica aggressiva degli Usa; si è trattata, con la solita stupida boria di certi europei nei confronti dei “bambinoni” americani, l’Amministrazione Bush come una raccolta di meri testoni. In realtà, ci si comincia ad accorgere che in Medio Oriente, dai e poi ancora dai, sono stati raggiunti determinati risultati, che speriamo siano abbastanza transitori (e che non si prolunghino in qualche successo, per vie anche interne, in Iran). L’unico punto di autentica debolezza dell’azione americana è in Afghanistan (e connesso Pakistan, dato che tutto sommato si tratta di un unico problema), perché in quella zona si aggrovigliano le maggiori contraddizioni tra gli Usa e le potenze in crescita ad est: Cina, India e, come già detto, Russia. Ancora una volta – nella totale incomprensione di una sinistra sedicente antagonista e antimperialista, veramente costituita di “bambinoni” (altro che gli americani!) – si è dimostrato che le lotte dei popoli, eroiche fin che si vuole, non fanno un piffero ai dominanti se non quando (e dove) si vanno condensando i più acuti conflitti fra di loro.

Certo, sono i kamikaze di Hamas o di certe correnti irachene che vanno in “prima linea”; e così pure accade in Afghanistan con i guerriglieri talebani, ecc. Tuttavia, solo le sorde e sotterranee lotte tra Usa e nuove potenze in crescita – attuanti una politica impastata di estenuanti ambiguità e contorcimenti vari per non urtarsi frontalmente con la potenza ancora preminente – tengono viva una lotta acuta, che tuttavia si è andata facendo confusa e involuta in Medio Oriente, avvitandosi anche in feroce e sfrenata lotta intestina tra frazioni dei popoli arabi. Possiamo ancora confidare soprattutto negli Hezbollah (se tiene l’Iran), ma la guerriglia più insidiosa si sta svolgendo appunto in Afghanistan, con il Pakistan in costante “disordine”. Del resto, se andiamo indietro nel tempo, solo l’aiuto statunitense permise agli afgani di cacciare i sovietici. Bravissimi nella lotta questi “guerrieri” asiatici, ma cerchiamo di non essere infantili.

Nemmeno è il caso di credere che i vietcong avrebbero vinto se, tanto per fare una ipotesi, il socialismo reale e l’Urss fossero implosi vent’anni prima. Le “masse” sono gli “eroi” solo per i demagoghi; in realtà esse rappresentano il “lievito” (e senza questo non si fa certo il pane), ma il processo di panificazione non si mette nemmeno in moto con il solo “lievito”. E nel caso della società – che è un sistema di relazioni solidificatosi in certe forme nel corso di intere epoche storiche – i “panificatori” che vogliono produrre “rosette” invece che “mantovane” debbono approfittare delle furibonde liti scoppiate all’interno dei produttori di queste ultime. Altrimenti, si continua a mangiare “mantovane” e le “rosette” si sognano nei seminari dei “rivoluzionari tutti d’un pezzo”, che predicano alle masse come si potrebbe predicare, con lo stesso successo, ad un esercito di cavallette.

 

4. Alcuni, sempre gli economicisti, presumono che la causa del fallimento (in parte presunto) della strategia statunitense degli ultimi 10-15 anni sia l’enorme costo della stessa, che avrebbe dissanguato gli Usa, provocato il (totalmente) presunto indebolimento del suo sistema economico, e dunque della sua preminenza, innescando l’attuale crisi che attanaglia i mercati finanziari e incide progressivamente sull’economia reale. Il costo di ogni strategia “imperiale”, di predominio in un’epoca monocentrica, è sempre enorme. Tuttavia, il problema decisivo è quale successo si ottiene in termini di controllo strategico globale (o quasi globale). Un controllo che non riguarda direttamente, e immediatamente, quello dei mercati dei prodotti, delle fonti energetiche, delle materie prime, ecc. Il controllo è innanzitutto quello degli “spazi”, cioè in definitiva della politica dei potenziali competitori. Poi, segue anche il vantaggio economico, ma il primo è sempre il controllo politico, la supremazia. Ecco perché la principale “produzione” è quella di potenza (se qualcuno non capisce cosa significhi produrre quest’ultima, non so che farci, si ritiri “in convento” a meditare); che per tale produzione siano anche necessari mezzi materiali, oltre che tanto denaro (per mille scopi, non solo produttivi), non vi è dubbio; ma non è detto che l’abbondanza di tali mezzi sia sufficiente, poiché le strategie non sono vincenti semplicemente mediante il loro massiccio impiego.

Gli Usa sono sembrati conseguire un grosso successo con la “faccenda” delle “due Torri” nel 2001; per un annetto circa sono riusciti (apparentemente più che realmente) a farsi seguire da tutti gli altri paesi di una certa potenza nella “lotta al terrorismo” (anche perché Russia e Cina avevano i loro “terroristi” interni da sistemare). In questo periodo, la nation prédominante ha messo in cantiere l’aggressione all’Afghanistan, che doveva servire anche a rinsaldare definitivamente la sua presa sul Pakistan, uno dei punti focali della sua costantemente perseguita preminenza globale. Si tratta però di uno “spazio” molto delicato, dove affondano le radici anche lo sviluppo e la potenza di Russia, Cina e India, che – piaccia o non piaccia ad alcuni sciocchi di cui ho letto i commenti in un certo sito – rappresentano il “buco nero” della centralità statunitense in quest’epoca.

I costi per gli Stati Uniti sono risultati alti proprio perché, pur non potendosi ancora dichiarare il suo fallimento (e prima di poterlo dichiarare, passerà un bel po’ di tempo), la loro strategia non ha rinsaldato proprio nulla; tutto è stato rimesso ampiamente in gioco, e il prossimo decennio sarà caratterizzato, con grande probabilità, da questo gioco. In effetti, nella presente fase, la situazione appare abbastanza di stallo; fare previsioni sulla sua evoluzione è di estrema difficoltà, gli equilibri sono della massima instabilità. Resta, malgrado il presunto dissanguamento, la netta superiorità della potenza statunitense; i paesi in crescita “a est” sviluppano politiche ambigue e, malgrado quel che si dice circa il fatto che il nuovo presidente russo sarebbe una marionetta di Putin, continuo a nutrire qualche diffidenza in merito al suo, mi auguro solo formale, “occidentalismo”.

Ovviamente, la strategia seguita dagli Stati Uniti nell’ultima fase non poteva che esigere, soprattutto in una società capitalistica dove tutto è merce e denaro, una notevole abbondanza di mezzi finanziari; e non semplicemente per le guerre vere e proprie, ma per la molteplice rete di collegamenti e di articolazioni da stabilire nel tentativo di costituire una filiera di comando che si annodi verso il suo vertice (che è anche il centro). Questa è la vera causa del fabbisogno finanziario, in base al quale si amplia e diversifica in mille modi un apparato che sembra ad un certo punto crescere per conto proprio, con una sua dinamica interna e, come al solito, relativamente (e apparentemente) autonoma, andando incontro ai soliti disastri di politiche del genere. Gli economisti, i tecnici finanziari, dei dominanti – ma anche tutti coloro che confondono la marxiana “critica dell’economia politica” con una mera teoria economica “critica” – restano affascinati da questo “mondo di carta” che sembra alimentarsi da solo, afflosciandosi infine su se stesso con grande squasso; tale atteggiamento è del resto spiegabile nello stesso senso in cui è comprensibile che gli abitanti di un territorio aggredito da un sisma di grande portata non stiano a pensare alla “causa profonda” dello stesso; essi non vivono a migliaia di metri di profondità, nelle viscere della terra, se ne stanno “beati e indaffarati” in superficie dove tutto era tranquillo e sereno e adesso, all’improvviso, tutto viene spazzato via.  

Diceva però Marx che è inutile ricorrere alla scienza se ci si ferma alle apparenze, ad esempio a quella del Sole che gira intorno alla Terra. Per migliaia e migliaia d’anni, gli uomini sono vissuti bene, e hanno fatto buoni progressi, convinti di essere al centro dell’Universo, immobili; e si orientavano, nei loro spostamenti, prendendo a riferimento il “movimento” del Sole nella sua orbita. Anzi, per tantissimo tempo, si è pensato che il Sole andasse anch’esso a coricarsi e riposarsi di notte per poi riprendere ristorato e baldanzoso il suo lavorio diurno. Il problema che si pone è allora quello di sempre: si ritiene che non ci fosse bisogno di sapere come stanno in realtà le cose in merito al movimento degli astri? La sua scoperta, il continuo studio cui vengono sottoposti i cieli, sono ritenuti un progresso, oppure una inutile mania degli uomini di andare a ficcare il naso dove non compete loro? Domande per me retoriche; temo però che per alcuni dementi, di cui comincia ad essere troppo popolato questo paese, non lo siano altrettanto.

Gli economisti, così come i “critici” della teoria economica, credono senza dubbio nella scienza, ma ho la sensazione che spesso si confinino da soli in un mondo tolemaico. Per loro, per il loro orientamento, è sufficiente il “movimento del Sole”: pardon, quello dei mercati sia reali che finanziari, della produzione e degli altri vari indici economici. Li capisco, sono come gli abitanti del surricordato territorio che, ad un certo punto, comincia a sussultare e a scrollarsi di dosso questi fastidiosi esseri che si agitano tanto scompostamente in superficie. Tuttavia, credo si tratti di andare a guardare “più sotto”, all’urto – quello strategico tra gruppi dominanti, tra potenze, ecc. – che prepara per il futuro terremoti anche peggiori, e non tutti economico-finanziari (anzi ben più sconvolgenti, il che non significa predire con presuntuosa sicurezza altre guerre mondiali; la Storia è molto più inventiva di ogni singolo cervello umano). Si sia certo avvertiti che il rapporto tra causa profonda ed effetti di superficie non è lineare, semplice e diretto; in questo, la società è certamente più complicata della crosta terrestre.

Non userei nemmeno troppo semplicemente di un concetto di causalità che si dia soltanto nei suoi effetti (di struttura). Le “cause profonde” sussistono e, a dir la verità, non sono nemmeno troppo nascoste: i conflitti di strategia tra gruppi dominanti (all’interno di una data società), e tra potenze sul piano geopolitico, non sono “invisibili” e non si “leggono” solo nelle loro manifestazioni “di superficie” (crisi economiche, guerre, lacerazioni del tessuto sociale, sommovimenti e rivoluzioni di vario tipo, ecc.). Esiste però un nesso complicato, con continui spostamenti degli effetti, con fratture e spazi di interruzione tra eventi e processi vari di cui si perde spesso il collegamento, la cui indagine esige perciò una riflessione diversa da quella troppo semplice – pur se utile e necessaria in molti contesti, non lo metto in dubbio – degli “esperti” e “specialisti” (ma non sono argomenti da affrontare qui). 

L’attuale situazione di crisi, ad esempio, è stata preparata a puntino dalle strategie degli Stati Uniti che – una volta crollato il socialismo reale e credutisi ormai tranquilli sul “fronte occidentale” e con molte lunghezze di vantaggio su quello orientale, dove hanno inizialmente sbagliato nell’individuare l’antagonista principale nel Giappone – hanno dato avvio tutto sommato in sordina alla loro azione strategica con la prima guerra del Golfo e con lo sbaragliamento economico (e pure politico) del “Sol Levante” in pochi anni. Ad un certo punto, si sono accorti che la nuova configurazione geopolitica in gestazione non era quella inizialmente prevista e hanno cambiato passo, forse anche frettolosamente senza magari afferrare adeguatamente la disposizione, e forza, delle varie pedine nello scacchiere mondiale. Da qui, l’“eccesso” di costi sopportati per lo svolgimento delle loro strategie. L’“eccesso” è tale solo in relazione ai risultati ottenuti con una certa “produzione” di potenza in vista del consolidamento definitivo di una supremazia globale; i risultati ci sono in parte stati – finiamola con il non volerli vedere per cecità ideologica (e per la simpatia verso i “diseredati”) – ma evidentemente non erano sufficienti a controbilanciare lo sforzo compiuto.

L’obiettivo statunitense non era il semplice mantenimento, sempre ballerino, di una preminenza ancor oggi sussistente (ma per quanto tempo?), bensì il suo definitivo consolidamento, con la costituzione di una precisa, magari anche elastica, catena di comando che si dipartisse dal vertice costituito dal paese centrale. Non diamo adesso per scontato, con eccessiva fretta, che ormai il tentativo statunitense ha fatto flop; non commettiamo l’errore di pensare ad un lineare processo di declino della preminenza di tale paese e di parallela crescita della potenza dei competitori. Si verificheranno molte giravolte e détour; tuttavia, la “scommessa” che mi sento di lanciare è che, infine, entreremo in pochi decenni nella fase policentrica di forte accentuazione del conflitto tra formazioni particolari di speciale forza, il cui scontro acuirà anche le varie contraddizioni al loro interno. E’ una “scommessa”, fondata su ipotesi di lavoro (teorico), utile per “costruire” il contesto globale nel cui ambito pensare anche le forme del conflitto interno a formazioni particolari: ad esempio, quella italiana, visto che qui noi viviamo e operiamo.

 

5. Ho rilevato che, pur se non si può parlare con faciloneria e superficialità, di semplice fallimento statunitense, certamente però il predominio monocentrico (“imperiale”) di tale paese è estremamente imperfetto; ed ormai rintuzzato da più parti. Solo per pochi anni, quelli del “crollo del muro” e del dissolvimento dell’Urss, accompagnati dalla prima “guerra del Golfo”, gli Usa crederono di aver ormai perfezionato la loro supremazia globale. Assai rapidamente furono costretti a rivedere le loro convinzioni e, forse, improvvisarono alla bell’e meglio un cambiamento di strategie mondiali che certamente hanno creato l’instabile – anche economicamente e finanziariamente – situazione odierna.

In questo momento, sarebbe infantile predire con certezze indefettibili il futuro anche prossimo. Ho “scommesso” circa l’entrata in una fase policentrica entro, grosso modo, 20-30 anni. Già è ardua questa previsione; forse più difficile ancora capire il prossimo futuro. Si tratta di rispondere (con una serie di ipotesi) alla domanda: con quale ritmo stiamo eventualmente entrando in un’epoca del genere? E soprattutto: in quale parte dell’ipotizzato percorso stiamo andando a piazzarci? Ammettiamo, quale “esperimento ideale”, che sia azzeccata la previsione dei 20-30 anni appena formulata. Questo non ci chiarisce affatto se nei prossimi 2-3-5 anni la corsa al policentrismo sarà lenta o veloce, se magari incontrerà ostacoli che potrebbero arrestarla per un breve periodo, ecc. Tante le possibilità e i già ricordati détour dei percorsi storici.

Un indice della situazione – ma nulla più che un indice, quale che sia la gravità dei suoi effetti per noi, poveri comuni individui, in agitazione sulla superficie della crosta terrestre – può esserci fornito dalla pesantezza maggiore o minore dell’attuale crisi, di cui mi pare si approssimi “l’occhio del ciclone” (e, mi dispiace per i patiti delle catastrofi, mi auguro di sbagliare). Se il policentrismo è ancora lontano – non in termini di semplici unità di misura quali sono gli anni – la crisi in oggetto, per quanto possa magari rivelarsi la più grave del dopoguerra, lo sarà solo quantitativamente ma non qualitativamente. Non si ripeterà nelle stesse identiche forme di quella legata sempre al petrolio, verificatasi nella prima metà degli anni ’70; avrà forse effetti più duri e duraturi; ma non sarà così differente da provocare radicali sconvolgimenti nei rapporti di forza tra capitalismo predominante e capitalismi subdominanti (in specie quelli in crescita per il momento ancora impetuosa).

Se invece lo squasso sarà tale da alterare questi rapporti di forza – e non necessariamente, nel futuro prossimo, a sfavore degli Usa, pur se il centro della crisi economico-finanziaria è lì collocata, come del resto lo fu nel 1929 (e nel 1945 gli Usa emersero come paese preminente centrale del capitalismo “occidentale”) – allora questo sarà un sintomo che comunque il policentrismo comincia a mordere in profondità, a quella profondità in cui si va facendo più intensa la “frizione tra le falde tettoniche”.

 

Ho voluto qui fornire alcuni spunti (sulla base di ipotesi) per riflettere sul contesto internazionale nel quale inquadrare analisi più centrate sul nostro paese perché credo che alla sua storia (in questo dopoguerra e soprattutto a partire dagli inizi degli anni ’90), alla sua struttura economica, ai blocchi sociali (esistenti o che si è tentato di creare), ecc., è necessario dedicare maggiore attenzione. Non si ricrea nulla sulla base di vuote dicotomie dell’epoca “di Marco Cacco” (si pensi all’ormai vetusto conflitto capitale/lavoro, vero rifugio per chi è troppo pigro per tentare, certo via ipotesi come si fa nella scienza, qualche pensiero innovatore); o con mere manifestazioni di solidarietà verso le lotte dei “diseredati” (data in un modo a mio avviso offensivo dell’intelligenza dei loro gruppi dirigenti e degli scopi reali che questi perseguono).