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Violenza del mito e silenzio del sacro

di Alessandro Puma - 14/07/2008

 

 

 

 

 

 

 Il sole della mattina brillò sulla

spada di bronzo. Non restava più

traccia di sangue.

“Lo crederesti, Arianna?”disse Teseo.

“Il Minotauro non s’è quasi difeso.”

J.L. Borges ( L’Aleph ).

 

 

L’Essere – in senso heideggeriano – è il genere più vasto ed originario, il più inclusivo e, dunque, il più nascosto; non ci si può sottrarre alla sua presa, è la prima ‘non-violenza’, pre-metafisica e pre-linguistica, che fonda ogni metafisica e ogni linguistica.

Ma se, come Hegel – vero e proprio deus ex machina della filosofia – ribadiva, la kantiana ding an sich è solo un sintomo di quella falsa predisposizione mentale, consistente nell’in-finitizzare il finito, che prende il nome di “cattivo infinito”; se, ancora, Kierkegaard – questo seduttore della parola, questo cavaliere della fede – in opposizione all’aufhebung hegeliano, propone un tipo di sintesi non mediata, cioè non conciliante, di contraddittori, e se, infine, il Volto dell’Altro, per Levinàs, esprime una trascendenza non tematizzabile, cioè assolventesi dalla sua stessa fenomenicità, proprio in quanto si esprime nel linguaggio, garante della sua oggettività, allora tutto è già stato detto, pensato e pre-visto. Ma questo tutto rimane pur sempre – invincibilmente – indicibile e inesprimibile. Rimane solo da vedere se sia anche, inevitabilmente, impensabile.

Heidegger ce lo ha insegnato: l’essere, presente in ogni ente in quanto è (un essente), non è l’ente che è, perché se fosse il singolo ente ( il ti esti, questo ente qui ) non sarebbe più l’Essere in generale, cioè quell’Impensato che sta alla base di ogni pensato – non solo – metafisico, ma, appunto, l’essere di questo ente determinato.

Pensare questa differenza, come fa Levinàs (1), come totalità violenta, come falsa trascendenza, significa non rendersi conto che l’autarchia di un “Io” non fa violenza a un “Altro” nel momento in cui lo riconduce a Sé; è soltanto quando nego ad un altro le mie stesse capacità che, infatti, gli causo violenza.

Illuminare l’altro con la luce violenta dell’io, o egologia, per capire l’altro – cioè ricondurlo a sé – senza averlo realmente compreso, è l’atto di denuncia della superiorità dell’Essere sull’ente gridato da Levinàs, ma – a parte il fatto che l’Essere in generale, nella sua neutralità trascendente, non può fare violenza – la tragedia, nel suo fondo irridente, è capire che questa luce, violenta o meno che sia, è l’atto irriflesso, involontario e immediato ( potremmo dire, con Husserl, pre-categoriale ) per poter sopravvivere con qualsiasi ‘Altro’ che venga a turbare il mio mondo, e così sfumare la sua minacciosa presenza – che è poi la paura primeva che l’Io ha di se stesso – entro canoni familiari.

L’autarchia, o egologia, di un Io è tale solo fintanto che si parte dal presupposto che tanto questo Io – o Medesimo – quanto l’Altro sono entrambi inconoscibili a se stessi, prima di poter esserlo a qualcosa d’esteriore ad essi. Sospendendo per il momento quest’ultima – importante – affermazione, sulla quale tornerò in seguito, si può notare qui come questa critica, per così dire fenomenologica all’operato di Levinàs, era già stata intrapresa, e con successo, da Jacques Derrida (2), il quale aveva dimostrato sulle orme di Husserl e di Heidegger, come l’alterità levinàssiana – che tenta in maniera encomiabile, in verità, di demolire tutta la tradizione filosofica precedente, ancora schiava di una falsa alterità, sempre riconducibile in seno all’Essere – fosse in realtà anch’essa una falsa alterità; che non potesse, cioè, essere realmente assoluta in quanto ancora inscritta, all’interno di un linguaggio, nel termine etimologicamente greco di ‘Essere’, che non potesse darsi esperienza, all’interno dell’essente, di ciò che è irriducibilmente Altro, e infine che si dovesse necessariamente combattere la luce violenta dell’Essere, apportatrice di guerra, con un’altra luce di tipo diverso, che fosse il male minore, apportatrice di pace, ma sempre in seno alla guerra, all’Essere e al logos (3). Tutto ciò perché, come afferma Derrida, non può realmente esistere un pensiero àfono, un pensiero, cioè, che originariamente non sia anche linguaggio, in cui la pre-comprensione non sia affidata al buio della notte, dove niente ha senso, poiché ciò minerebbe alla base la possibilità stessa del discorso filosofico. Ma è davvero così?

Tutti gli antichi testi gnostici e mistici (4) ci dicono di no; il tempo di Saturno, sontuoso e funereo, in cui la pre-comprensione era in atto e non in potenza, ci dice di no; Iside col suo velo ci dice di no; Abramo col suo terribile silenzio ci dice di no; Cristo che sulla croce non riceve risposta dal Padre Suo (5), ci dice di no; Kafka con le sue sirene che, anziché cantare, tacciono, ci dice di no (6); il grido silenzioso di Munch e quello mai proferito di Laocoonte ci dicono di no; Derrida stesso, con la sua tematica del segreto e della responsabilità costitutiva dell’io ci dice di no (7).

L’Essere coincide col silenzio e col segreto ineffabile, il Deus absconditus con la sua reductio ad nihil, e ciò non deve destare meraviglia, anzi è proprio il fatto che ci sia qualcosa al posto del nulla, che ci sia qualcosa che nasca come ente, a suscitare il thaumàzein per questo – come afferma Plotino – “fatto strano”, o più radicalmente per questo “miracolo” in virtù del quale “Come in uno specchio, la materia è il nulla sul cui fondo appare l’essere”(8).

L’essere stesso, come Super-Essere privo di ogni determinazione, ma presente in ogni cosa determinata, coincide con il nulla; Dio è il Nulla (9) al di sopra di questo nulla. Ogni cosa determinata, proveniente – in quanto ni-ente – dal nulla e diretta verso il nulla, è il nulla infimo; Dio non è questo nulla. Il pensiero impensabile che pensa il Nulla al di là dell’Essere, nel momento, cioè, vertiginoso e impossibile, del non pensare a nulla (di determinato); Dio è questo Pensiero.

E questo è anche il “discorso temerario” (Luigi Pareyson) “della tradizione mistica più radicale che, da Dionigi lo pseudo-Areopagita a Giovanni Scoto Eriugena, da Meister Eckhart a Jakob Boheme, da Angelus Silesius fino all’ultimo Schelling, non cessa di affermare che Dio “è” Nulla, che il nome più adeguato e più proprio della “Deità” nascosta e inaccessibile è “il Nulla”(senza dimenticare l’apporto che a questa tradizione hanno dato Jager, Kolakowski e Jaspers n.d.r.)”(10).

Ora, tutte queste tradizioni e la tematica, su accennata, dell’impossibilità di conoscere noi stessi, l’inconoscibilità di sé, propria sia dell’Ego che dell’Alter, arrivano a coincidere: io non so chi sono Io e non potrò mai saperlo nella misura in cui non potrò mai sapere chi è Dio.

C’è una prevalenza della Notte e la luce della comunicazione interpersonale, del Logos, risulta artificiale, fioca, vincolata al necessario. Cos’è che determina questa inconoscibilità?

Il silenzio dell’Essere, cioè del Sacro.

Afferma Vitiello:

Sacro è A’peiron: Illimite. Non conosce confine, né esterno né interno. Sacro è Aìdion: senza forma, figura, eidos. Sacro è Notte, nulla in esso si vede, e nulla c’è da vedere. Ma non è vuoto non-essere; è anzi il pieno Ni-ente. […] In questo Pieno l’irruzione degli dei è liberazione. […] La nascita degli dei è agli uomini Grazia: la grazia del Giorno che concede la possibilità di “vedere”(11).

E ancora, più avanti: “Il Sacro […] non è circoscrivibile. E neppure dicibile nelle forme del logos. Ad esso maggiormente s’avvicina la narrazione tragica: il mythos della lotta di Zeus e Prometeo. Il mythos che racconta nella prospettiva del molteplice la nascita dei molti dall’Uno […] E anche qui il linguaggio si scontra con se stesso: questo ‘prima’ essendo paradossalmente ‘prima del prima’, prima del tempo (12).

Ecco perché qualunque epifania del Sacro che non sia immediatamente riconducibile alla narrazione mitologica – che  comprende al suo interno quella costitutiva ambiguità e doppiezza di ragione e irrazionalità – porta a quel peccato di hybris che consiste nel voler rendere ragione delle cose del Sacro dal punto di vista umano, “profanando con la parola il Silenzio”(13), quello stesso peccato che fa esclamare l’Empedocle di Holderlin – prima di precipitarsi nella voragine dell’Etna – Non dovevo parlare, sacra Natura! (“Ich sollt es nicht aussprechen, heilige Natur!”)(14).

Il mito, in qualche modo, de-sacralizza il Sacro, rendendolo accessibile alla sfera umana, sebbene – appunto – mai del tutto comprensibile. Per questo è necessariamente violenza, gioiosa ed estatica violenza; è il profano che incorpora e lotta contro il silenzio sacrale.

Lo sforzo del guerriero-martire mitologico ( da Adone a Cristo, sempre sottoposto a violenza soteriologica ) è molto simile allo sforzo intellettuale del filosofo che cerca di dire l’indicibile, di aggirare l’Essere, pur sapendo che l’Essere è inaggirabile.

Operazione sacra anch’essa, anzi santa, perché gratuita ed inutile – secondo una logica utilitaristica umana – come il sacrificio degli Spartani alle Termopili o come l’insegnamento di Gesù presso i sadducei del Sinedrio.

 

 

 

 

Note:

 

(1)               “Totalità e Infinito” di E. Levinàs, Ed. Jaca Book ’98, introduzione di S. Petrosino.

(2)               “Violenza e metafisica” di J. Derrida, in “La scrittura e la differenza” , Einaudi ’71.

(3)               “Che si debba dire nel linguaggio della totalità l’eccesso dell’infinito sulla totalità, che si debba dire l’Altro nel linguaggio dello Stesso, che si debba pensare la vera esteriorità come non-esteriorità, cioè ancora attraverso la struttura Dentro-Fuori e la metafora spaziale, che si debba ancora abitare la metafora in rovina […] questo significa forse che non c’è logos filosofico che non debba innanzitutto lasciarsi espatriare nella struttura Dentro-Fuori. […] Prima ancora di essere procedimento retorico nel linguaggio, la metafora sarebbe l’insorgenza del linguaggio stesso. E la filosofia non è altro che questo linguaggio […] non può che parlarlo, dire la metafora stessa, il che significa pensarla nell’orizzonte silenzioso della non-metafora: l’Essere” , in “La scrittura e la differenza”, op. cit.

(4)               Come si verifica all’interno della paradossale Gnosi Basilidiana secondo la quale: “…il Dio che non esisteva creò dal nulla il mondo che non esisteva, gettando in basso e collocando di sotto il seme (non esistente) che aveva in sé tutta la semenza del mondo”, in “Testi gnostici in lingua greca e latina” a cura di Manlio Simonetti, Arnoldo Mondadori Editore.

(5)               Quando Cristo gridò: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai tu abbandonato?’ che situazione tremenda per Cristo. […]. Ma a me sembra che sia stato ancor più tremendo per Dio il sentirlo.”, S. Kierkegaard in Papirer, XI1 A 422 [Diario, II, pp.573-74].

(6)               “Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva”, F. Kafka, “Il silenzio delle Sirene” in “Tutti i racconti di Franz Kafka” , a cura di E. Pocar, Volume secondo, Oscar Mondatori, ‘80.

(7)               “Donare la morte” di J. Derrida, ed. Jaca Book.

(8)               Per ciò che concerne, qui, il difficile concetto plotiniano in base al quale, semplificando molto grossolanamente per mancanza di spazio, il mistico e filosofo distingue due tipi di “nulla”, il primo in quanto ‘Super-essere’ divino, che non coincide con nessuna delle cose determinate, perché finite; il secondo in quanto ‘nulla infimo’ realmente svuotato di tutto, che è la materia, il cui aspetto miracoloso sta appunto nel fatto che in essa vi sia qualcosa – quando invece non dovrebbe esserci nulla – , si fa riferimento alla metafora dello specchio. Cercando di risolvere, infatti, l’evidente contraddizione logica per cui l’assoluto non-essere (della realtà), pur non partecipando dell’Essere ne partecipa e trae ogni cosa dalla sua vicinanza ad esso, Plotino utilizza il geniale esempio della materia come “specchio” su cui si riflettono, apparendo e scomparendo, le “immagini” fuggevoli come ombre degli enti sensibili. “Lo specchio, che sembra contenere tutto in sé, non possiede realmente nulla; al di là della “danza” delle immagini è in se stesso “vuoto”; in esso non vi è nulla di  “sostanzialmente reale” e, in definitiva, la materia, “propriamente parlando, non esiste” (A. Magris, Invito al pensiero di Plotino, Mursia, Milano).

(9)               Anzi, Dio: il Nulla, perché già dire “è” implica una determinazione ontologica.

(10)           Il nome del Nulla di P. Necchi, postfazione a Il piccolo libro del nulla di C. de Bovelles, edizioni il melangolo.

(11)           Il Dio possibile di V. Vitiello, Città Nuova Editrice.

(12)           Ibidem.

(13)           Ibid.

(14)           Der tod des Empedokles , F. Holderlin.