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Nessuna legge umana può regolare la morte

di Antonio Polito - 14/07/2008

 

 

 

Vorrei spiegare perché il nostro giornale non ha pubblicato la lettera uscita sabato sulla prima pagina di Repubblica, in cui una donna racconta la decisione della madre, malata di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), di darsi la morte col sonnifero, da sola e di sua volontà. Quella lettera ci era stata offerta come un contributo al dibattito sull’eutanasia, riaperto dalla vicenda di Eluana. Ma non ci era sembrata pertinente. Vi si racconta infatti di un suicidio. Di una persona che, come scrive la figlia, «coraggiosamente è riuscita a liberarsi da quella terribile malattia», in realtà liberandosi della vita. In casi come questo, quando il malato è ancora in grado di fare da sé la sua volontà, non c’è materia che possa riguardare il dibattito pubblico. È una scelta individuale e tragicamente libera. Commuove il nostro sentimento, interpella la nostra etica, ci fa magari chiedere «che cosa farei io al suo posto»; ma non pretende alcuna risposta dalla comunità. Inserirla nel dibattito su Eluana rischia solo di accrescere la confusione tra suicidio, suicidio assistito, eutanasia, interruzione dell’accanimento terapeutico: soluzioni molto diverse tra loro e di radicale diversità di fronte alla legge e alla morale. Quando il pubblico entra nelle scelte privatissime di un essere umano, allora è inevitabile contrapporre privato a privato. E infatti nello stesso giorno, sulla prima pagina del Foglio, un altro malato di Sla, Mario Melazzini, raccontava la sua decisione opposta.: continuare a vivere nutrito dal sondino, scoprendo anzi la speciale qualità di quella vita: «Da uomo sano non ipotizzavo che la totale dipendenza dagli altri potesse essere conciliabile con la dignità della vita. Invece è così». 

 

Il bipolarismo etico - il partito del meglio morire e il partito del meglio vivere - è una regressione del dibattito pubblico. Al limite, sarebbe stato più interessante se Repubblica avesse pubblicato la lettera di vita, e il Foglio quella di morte. Domandiamoci perché non è accaduto, e già avremo compreso il rischio di questo tipo di «guerre culturali». Voglio dire che in materia di vita e di morte non si può pretendere ogni risposta dalla legge, e dunque dalla politica. La polis, in una data epoca storica e col grado di conoscenze scientifiche del momento, può al massimo cercare un limite. Ma fissare quella soglia nel modo burocratico e generale cui ogni legge si deve attenere non risolverà mai l’incertezza del caso per caso, non calzerà mai l’eccezionalità di ogni singola storia personale. A quelli che ritengono necessaria una legge per l’eutanasia, infatti, si potrebbe obiettare che la norma già consente la sentenza con cui la Cassazione ha autorizzato il padre di Eluana a sospenderle idratazione e alimentazione. A che servirebbe una nuova legge: a prescrivere, oltre che a consentire? A chi invece ritiene che sarebbe necessaria una legge per prevenire la volontà di eutanasia, verrebbe da chiedere: una legge che impedisca alla malata della lettera di Repubblica di togliersi la vita?

 

La yubris della modernità ci fa credere che l’uomo, attraverso la legge, possa ormai regolare ogni aspetto della vita: proteggerla dal rischio, difenderla dalla persona stessa in cui si incarna, o metterle fine quando un freddo criterio giuridico decide che non merita più di essere chiamata tale. Ma chi siamo noi, per dirlo? Ho seguito il dibattito sul testamento biologico che si è svolto per due anni al Senato, e vi assicuro che non saprei ancora dire se per me l’idratazione sia un accanimento terapeutico che si può interrompere, o l’irrinunciabile precetto evangelico di dar da bere agli assetati. La volontà del malato, che può essere chiara in una fase della malattia, come nel caso della lettera di Repubblica, può essere solo ipotizzata, come è nel caso di Eluana. Un genitore ne sa più di un parlamentare. Un medico più di un editorialista. Un giudice più di un lettore di quotidiani. Ogni uomo è un’isola, ed è per questo che lo stato etico, che decide una volta e per sempre e per tutti, è un pericoloso arbitrio.

 

Perciò non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l’onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi. Nel mio universo morale, la vita è sempre più bella della morte. Ma non pretendo che il mio universo morale sia legge, perché la legge non può mai essere uguale per tutti. L’Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C’è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia.