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L'egemonia imperiale americana. Tra mito e declino

di Alfredo Musto - 15/07/2008

 

L'egemonia imperiale americana. Tra mito e declino



Non ci sono dubbi che l’epoca contemporanea sia soprattutto all’insegna di una grande potenza: gli Stati Uniti d’America. Potenza tra le altre prima, la più forte poi, l’unica infine. Come si confà ad una potenza, determina gli eventi o li cavalca girandoli a proprio favore. Superpotenza dunque, ma di che tipo?
Il dibattito sulle caratteristiche degli USA ha mille articolazioni e mai un approdo definitivo. Oscilla tra la percezione che di essi si ha e la percezione che essi hanno di se stessi. Egemonia, impero, dominio sono categorie cui ricorrono tanto i suoi sostenitori quanto i suoi critici. L’uso dei termini nei processi di categorizzazione non sempre si dimostra appropriato, in particolare se a prevalere è una certuna chiave di interpretazione storica che tende a livellare i secoli e gli avvenimenti senza cogliere la forma mentis dei vari periodi e dei vari popoli. Troppo spesso, quindi, le definizioni finiscono per avere una carattere a-storico con il rischio di fuorviare le analisi e le interpretazioni. Di certo, quello della definizione della potenza americana - che sia potenza possiamo darlo per elemento oggettivo e di base – è un problema che si pone con insistenza, ma le letture non sono agevoli.
L’egemonia americana nel sistema delle relazioni internazionali è indiscutibile, ma essa va considerata rispetto a ciò che per egemonia classicamente si intende e rispetto alla capacità effettiva che gli USA sono capaci di esercitare in questo senso.
Nel ricorrere ad una definizione classica di egemonia, si fa riferimento ad una potenza che esercita un ruolo temperato dalla giustizia giacchè volto al principio della direzione e non del dominio, un ruolo imperniato sulla moderazione, che costituisce appunto lo strumento nobile di esercizio della facoltà di comando.
Traendo lumi dalla saggezza degli antichi, pare corretto rifarsi ad una massima di Tucidide che compare nella “Guerra del Peloponneso”: “Meritano lodi quanti, pur aderendo all’istinto proprio dell’uomo di dominare sugli altri, si comportano con maggiore giustizia rispetto alla potenza di cui dispongono”.
Un attore può dirsi egemone allor quando gli altri ne riconoscono il primato, innanzitutto culturale; allor quando esso ottiene il consenso attraverso una equilibrata direzione politico-culturale e non ricorre all’azione unilaterale e coercitiva per piegare le volontà altrui; allor quando esso, responsabile, è consapevole, in virtù del suo primato-guida, di avere oneri oltre che onori.
Diversamente, l’unilateralismo della volontà e dell’azione mediante la minaccia e la violenza al fine di piegare l’altro sono i caratteri propri del dominio.
La fattispecie del potere americano è, forse paradossalmente, un punto di incrocio tra egemonia e dominio, ma un punto fortemente teso verso l’estremo del dominio.
Di fatti, ricorrendo ora al termine egemonia, dovremmo costatare che essa esiste si, ma è circoscritta e non completa, cioè non mondiale. Egemonico è il potere che storicamente hanno esercitato ed in parte esercitano gli Stati Uniti sull’Europa occidentale e più di recente orientale. Alla volontà di imporsi della supremazia americana è corrisposta una notevole volontà di conformarsi da parte degli europei dal secondo dopo-guerra in poi. Sebbene lo slancio verso la protezione e la guida americana non goda oggi della vitalità ancora di qualche anno addietro, il vincolo europeo alla potenza atlantica non può che configurarsi come vincolo di subalternità. Lo dimostra l’impaccio politico-diplomatico delle classi politiche dei Paesi europei nonché delle gerarchie burocratiche ed economiche dell’Unione europea. Più motivato e convinto, eppure molto opportunista, è invece l’atteggiamento della cosiddetta “Nuova Europa”, quella dei Paesi dell’ex-blocco sovietico, i quali sono il nuovo strumento dell’influenza americana sul vecchio continente.
Ora, riprendendo il concetto, se egemonia implica direzione riconosciuta e condivisa fatta di responsabilità tra diritti e doveri per un equo ordine del potere, la deduzione è che quella americana è una non egemonia che semmai è tale solo in quanto circoscritta ad una ristretta cerchia di attori politici, in particolare nello scenario europeo. Per il resto e più in generale, laddove sul globo si manifestano - con varie sfumature, mezzi e forme – l’influenza e il potere americano, pare più opportuno ricorrere alla categoria del dominio. Attraverso questa, sicchè, possiamo inquadrare l’opera di consolidamento, da parte degli USA, del proprio primato. I connotati sono quelli di un unilateralismo segnato da una superiorità economica e in particolar modo tecnologico-militare.
La difformità egemonia/dominio non è astratta, bensì funzionale a cogliere le dinamiche delle relazioni internazionali. Infatti, un sistema con una potenza egemone legittima è fondamentalmente più stabile e pacificato, mentre un sistema con una potenza dominante all’insegna dell’imposizione è decisamente più instabile perché più lontano dai criteri di equità e giustizia e così più soggetto a disordini e violenze, ad ogni livello.
Oggi più di ieri, l’idea di un ordine internazionale gerarchizzato con in vetta l’egemonia americana rimane una prospettiva interna quasi esclusivamente ai circoli politico-culturali d’Oltreoceano, di contro ad una forte tendenza che nei fatti, ancor prima che nelle idee, mina alla base le vecchie ipotesi di struttura mondiale. Il riferimento, cioè, è a quella forte tendenza all’emergere di importanti attori e poli geopolitici che inficiano la dimensione unipolare, anche se si è ancora lontani da un organico multipolarismo.
Al ruolo americano nel mondo si è soliti spesso associare la categoria di impero.
Ciò specie in considerazione della sovrastante concentrazione di potere politico, economico e militare che si attribuisce agli Stati Uniti. Anche qui, tuttavia, riprendendo i riferimenti classici, e nello specifico l’esperienza storica di Roma, possiamo tracciare delle linee di fondo attribuibili ad una struttura imperiale, quali l’imperator, l’espansione mondiale e l’universalità.
La figura del princeps che sta sopra la norma e che la norma emana, che guida e traccia la via da seguire, non è ovviamente sovrapponibile alla figura del Presidente americano.
L’espansione senza confini ma nei confini del mondo allora conosciuto di Roma non è l’espansione sotto la bandiera a stelle e strisce, la quale si ritrova ormai dinanzi dei confini invalicabili di genti e territori non assoggettabili.
L’universalità regolatrice all’interno della pax, fondata sul diritto e sull’estensione dei diritti e della cittadinanza comune in cui riconoscersi è negata nella dimensione americana. Una vocazione universalistica nell’influenza e nel messaggio proprio degli Usa esiste in altre forme ed ha i caratteri propri dell’occidentalismo erede dei monoteismi, dell’illuminismo e del progressismo come appunto fattori unificanti dell’umanità.
Il parallelo imperiale tra Roma e USA è sostanzialmente viziato da una chiave di interpretazione storica di tipo material-positivistico (non solo marxista). Considerata pure la possibilità di comparazione di taluni fattori, ribaditi pure alcuni comuni elementi di guerra, espansione, potenza militare e gestione politica, occorrerebbe precisare, tanto nei confronti dei sostenitori che nei confronti dei denigratori, che l’impero americano (ponendo che tale sia) non è erede di quello romano, che la pax americana non si nutre dei capisaldi di quella romana che fu. L’approccio tutto moderno alla storia, specie a quella antica, non consente di cogliere punti fondamentali, come nel caso del realismo degli antichi romani che non è il pragmatismo-materialismo “american style”. La stessa pulsione universale -ideologica, morale e anche religiosa- degli americani non vive delle forme, delle manifestazioni oltre che dei significati della spiritualità romana.
L’imperium regolava la convivenza del pluriverso identitario e religioso “pagano”, allora esistente, senza serbare velleità omologanti, l’impero presunto di oggi presuppone, nelle sue radici scaturenti dalla visione lineare della storia, una missione civilizzatrice animata dalla certezza della Verità assoluta che, però, è la propria e non può essere quella di tutte le genti. Sul piano sia culturale che politico. Una nazione che crede il suo modello essere il migliore e crede di doverlo rendere universale. Negli americani, la loro dimensione teoretico-religiosa protestante ha come suo naturale riflesso la dimensione materialistica del danaro, dell’interesse e del progresso. E’ la democrazia dell’interesse del singolo all’interno, e dell’interesse “collettivo”- del Paese - all’esterno.
Non è qui percorribile un’analisi dell’identità e delle costruzioni politiche e culturali di Roma antica, ma si ribadisce l’unicità dei principi che le animarono, quali virtvs, fides, ivstitia, pietas e libertas. L’organicità, la distribuzione gerarchica e la legittimità, fondate sul diritto e costitutive dell’ordine romano, non hanno reincarnazione storica contemporanea. La pax romana fu ordine nel rigore di una redistribuzione legittima del potere, nella gerarchia degli oggetti e dei concetti, nel primato della legge sull’arbitrio, nel primato dell’avctoritas, nel senso dell’obiettività e del diritto.
Sicchè, i criteri di rilevazione strategico-militare possono indicare degli strumenti comuni e fornire delle analogie tra le due esperienze imperiali. Esse, tuttavia, differiscono in pieno sul piano politico-culturale.
Più precisamente, lo stile e l’edificio della Civiltà di Roma, posti nell’ottica del confronto, segnano la differenza tra impero e imperialismo.
Gli USA hanno più propriamente i caratteri di un dominio imperialista.
Se, comunque, al variare del senso e della specificità delle categorie, si vuol cedere alla suggestione o all’idea di quello americano come un impero – in virtù della sua influenza, del suo strapotere finanziario, militare, tecnologico- potremmo definirlo come un impero imperfetto o “un impero senza impero”, cogliendo qui l’espressione del politologo David Polansky.
Un elemento tipico degli imperi storici è la territorialità, cioè l’effettivo controllo di territori conquistati. Nel caso degli Stati Uniti questa territorialità ha assunto forme decisamente nuove, cioè è un controllo non in loco, a prescindere dalla presenza o meno di basi militari.
Sorvolando sul processo storico dell’affermazione mondiale dalla fase multipolare a quella bipolare fino all’ultima unipolare, come si colloca oggi la supremazia americana?
L’indiscutibile dato obiettivo della nostra epoca è che parallelamente al consolidamento del ruolo degli USA sulla scena internazionale si è avuto lo sviluppo dei fenomeni della globalizzazione e del mondialismo. L’America ha guidato e conduce il capitalismo nelle sue varie fasi, fino a quella odierna della finanziarizzazione.
Democrazia e libero scambio compongono il Verbo del messaggio universale americano. Gli americani sentono il dovere di imporre al mondo i loro diritti. L’approccio metodologico del tentativo di interpretazione del loro agire nel mondo non può prescindere dal loro modo di porsi: non puntano a comprendere gli altri, ma a formarli di sé, pur rimanendo loro i migliori. Agiscono con un imput propositivo nei confronti di tutta l’umanità, come sancito nella Dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776. L’American way of life è tutto interno alla strategia di affermazione dell’impero nei meccanismi della globalizzazione, che essenzialmente è l’espansione del sistema americano a gestione multinazionale, una sorta di pianificazione capitalisitica che spacca le sovranità parimenti al mondialismo che è l’uniformità generalizzata che spacca le identità. La globalizzazione, tuttavia, non è la supremazia americana tout court. E’ probabile anzi che l’America declini e permanga il processo globalizzante.
La supremazia americana ha i suoi vettori istituzionali, citandone i principali, nell’Onu, nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario Internazionale, nel WTO, nella NATO. Il loro utilizzo è più marcato nell’azione multilaterale, meno rilevante se non di palese ingombro in quella unilaterale.
L’impero ha nei suoi simboli un’arma preziosa: il dollaro. Il suo status di unica moneta di riserva mondiale è decisamente strategico. Nel paradosso, il biglietto verde misura il rafforzarsi della potenza americana nella sua perdita di valore, nel suo svalutarsi rispetto alle altre monete. E con una situazione economica oggi particolare, frutto del perseverare nel liberoscambismo. Nella sua lucida analisi nel celebre saggio “Dopo l’impero”, Emmanuel Todd mette a fuoco una certa singolarità dei fenomeni, partendo dalla costatazione di come il deficit commerciale americano si sia progressivamente aperto agli scambi con il resto del mondo ben oltre la sfera di influenza del colosso americano. “L’implosione del comunismo ha permesso l’entrata di nuovi paesi importanti in questo sistema di scambio asimmetrico: oggi, ad avere il più forte avanzo commerciale con gli Stati Uniti è la Cina, non il Giappone o l’Europa. Il sovraconsumo americano è ormai l’elemento-chiave di una struttura economica mondiale intesa da alcuni come imperiale. Tuttavia, l’America non è più essenziale al mondo per la sua produzione, ma per il suo consumo, e ciò in una situazione d’insufficienza della domanda globale, fenomeno strutturale creato dal libero scambio”. A ribadire l’influenza dei meccanismi che ruotano intorno a Washington: “La tendenza al ristagno della domanda derivante dal libero scambio e dalla compressione dei salari è un’evidente spiegazione del calo regolare dei tassi di crescita dell’economia mondiale e delle sue recessioni sempre più frequenti … In effetti, è proprio il ristagno della domanda su scala mondiale che permette agli stati Uniti di giustificare il loro ruolo di regolatori e di predatori dell’economia globalizzata, di assumere e rivendicare la funzione di uno Stato planetario”. In un contesto economico frenato e depresso, il consumo forsennato degli americani superiore alla loro produzione è inteso come beneficio planetario. L’America sorretta con il lavoro di tutto il pianeta. Il suo deficit commerciale come prelievo imperiale. La società a stelle e strisce che si fa Stato del mondo.
Questo librarsi oltre le proprie possibilità è consentito dallo strapotere militare, tecnologico, monetario, propedeutici all’influenza USA. C’è anche l’arma tutta moderna e capace di giungere oltre gli spazi controllati, l’arma della penetrazione “liquida” che travalica i confini con il suo flusso di prodotti, notizie, rappresentazioni, manipolazioni: i mezzi di comunicazione. Mai veicolo è stato più formidabile di questo per gli States nell’edificazione del mito del loro modello sociale, nell’elaborazione della loro cognizione della storia, nella legittimazione del loro primato decisionista. Con tutto il corollario di nemici assoluti che poi si ripresentano, cedendo quindi alla logica di un’assoluto che si relativizza. Gli americani necessitano sempre di un confronto dualistico di principio: il Bene contro il Male.
Il filosofo Alain de Benoist, riprendendo la distinzione schmittiana Terra-Mare, individua la consequenzialità esistente tra la potenza marittima americana ed il processo di globalizzazione, scaturente dal suo raggio d’azione mondiale. Nel suo saggio “Terrorismo e “guerre giuste”, se la Terra è il politico e il Mare il commercio, ecco “perché gli Stati Uniti esprimono così frequentemente la loro adesione al modello unipolare, che consacrerebbe la loro egemonia planetaria”. Dal Mare, via commercio, alla globalizzazione, si potrebbe sintetizzare il cammino evolutivo della potenza statunitense. Ecco che de Benoist ne tratteggia in quest’ottica il primato: “Nella misura in cui essa si caratterizza con la proliferazione delle reti e dei flussi di ogni sorta ( commerciali, finanziari, tecnologici, di comunicazione ecc. ), la globalizzazione dipende anch’essa dalla logica del Mare, che non conosce frontiere né territori chiusi. Per un’abitudine linguistica anch’essa rivelatrice si dice della globalizzazione che essa unifica la Terra, ma di fatto, unificandola, sottomette la Terra alla logica del Mare, che è la logica dell’abolizione delle frontiere e della supremazia dei flussi e riflussi”.
Il Mare, dunque, ma anche la Terra. E rispetto alla Terra c’è la sfida americana per il predominio. Che è anche una causa del suo declino. Così, riportando ancora il discorso –lampante sulla scena internazionale- del filosofo francese, ma potrebbe citarsi ugualmente lo stratega Brzezinski, si ha che “l’obiettivo geopolitico principale degli Stati Uniti è quello di evitare la formazione di uno Heartland continentale o eurasiatico che possa rivaleggiare con la loro propria potenza, cioè di fare tutto il possibile per evitare l’emergere di una potenza rivale in Europa Occidentale, in Asia o sul territorio del vecchio impero russo”. La visione di Mackinder aggiornata al XXI secolo. In quest’ottica si rimodella la strategia delle missioni NATO ed il suo allargamento. Del resto, l’azione svolta dagli americani è parallela al ruolo crescente dell’Asia-Pacifico negli affari del mondo.
Ma nel mondo il “Washington consensus” ha la sua parabola discendente. La supremazia americana è incrinata. Siamo forse in una fase di ridisegnamento nel sistema delle relazioni internazionali. La forzatura delle dimensione unipolare produce spinte contrarie. Il continuo rilancio della spinta egemonica statunitense è foriero di sempre nuovi attriti e nuovi elementi che spesso finiscono per andare fuori controllo.
Da una parte abbiamo la crisi e il fallimento di molti presupposti interni al dominio americanocentrico, dall’altra l’emergere di dati nuovi parallelamente a nuovi attori geopolitici. Lo scenario, comunque, rimane variegato a seconda delle aree di riferimento interne al raggio di azione degli Stati Uniti.
A tal proposito, Henry Kissinger, in un articolo recente sul “Washington Post”, riproponendo un quadro di interpretazione maturato nel suo libro “Does America need a foreign policy?”, distingue la struttura globale secondo tre ambiti: uno post-nazionale, che concerne le relazioni interne europee e quelle euro-americane; uno asiatico, come già citato, ove sussiste un classico “balance of power” tra Stati sovrani; uno pre-nazionale o pre-westfaliano, che proprio del Medio Oriente con le sue caratteristiche etnico-confessionali che travalicano le entità statuali, sul tipo dell’Europa modello guerra dei Trent’anni. Sono tre ambiti vasti in cui gli USA applicano strategie diversificate, ma registrano fattori di crisi. Andrebbe, in più, considerato l’ambito latinoamericano; il cortile di casa statunitense ha alcuni nuovi inquilini che rivendicano sovranità nazionali ed economie autocontrollate.
Relativamente al primo ambito, un assetto franco-tedesco non è gradito, altrettanto un processo di unificazione europeo dalla chiara impronta politica. Ma le nuove conquiste sul fronte dei Paesi orientali permettono a Washington di operare sia nella direzione di spaccare il già fragile unicum politico continentale sia in quella di un’offensiva nei confronti di Mosca. La NATO continua ad essere il braccio militare del suo imperialismo, intanto che nuovi nemici vengono individuati.
Relativamente al terzo ambito, il progetto di configurare un nuovo ordine per il Medio Oriente, già di per sé irrealistico a partire dai principi e dalle metodologie di intervento, mostra il buco nero della guerra irachena –dove la resistenza assurge ormai attore di primo piano-, la fermezza della Siria e i successi di un soggetto non solo militare ma abilmente politico come Hezbollah. Il tavolo per la pace in Palestina è solo un tavolo di controllo per lo status quo senza pacificazione. Lo scontro con l’Iran rimane poi legato in parte anche alla concezione di quale ruolo vorrà ritagliarsi il Paese degli ayatollah, relativamente alle convenienze israelo-americane.
Il secondo ambito, dicevamo già, è quello del “Nuovo Grande Gioco”.
Ci sono le medie potenze emergenti come Cina e India e c’è il ritorno imperiale della Russia. Le riserve e le risorse di gas e di petrolio –ritorna la mitica Via della seta- anche in questa area del globo sono nelle mire delle multinazionali, in particolare quelle angloamericane; le zone grigie, le mafie e il terrorismo sono armi di divisione e controllo. Il fronte afgano misura l’impasse della forza USA nelle geometrie variabili della guerra asimmetrica e nel tentativo di state-building. La zona del Pacifico è fortemente globalizzata, ma il punto è che sullo stesso terreno Cindia erode l’influenza americana. Ma è più configurabile una “Chimerica” o comunque l’attuazione della “dottrina Zoellick” quale soluzione per una Cina come “stakeholder” nell’ambito del controllo economico americanocentrico.
Occorre ribadire, però, la centralità dell’Eurasia rispetto ai tentativi egemonici di Washington. “La grande scacchiera” di Brzezinski rimane di grande attualità.
Ebbene, la Russia sembra delinearsi come il più consistente contropotere, non nell’ottica di una riedizione fuorviante della guerra fredda, ma in quanto potenza di rilievo sul versante europeo, asiatico ed energetico in grado di spingere per un assetto multipolare delle relazioni internazionali.
Non c’è dubbio che la tendenza alla sovraestensione del dominio porta gli USA ad un incremento delle frizioni su scala internazionale. E la questione si pone ben oltre un approccio multilaterale o unilaterale che sia, nelle forme e negli strumenti, a guida democratica o neo-con.
L’indispensabilità e l’eccezionalità americana si restringe ormai ad una pretesa autoreferenziale, seppure consolidata in aree del pianeta mediante il sostegno/ricatto economico-finanziario. Gli scompensi della dimensione globalista e neoliberista sono evidenti a tutte le latitudini, dalle crisi finanziarie nazionali o sistemiche, dalla corsa cruciale agli approvvigionamenti energetici all’emergere di attori geopolitici statuali e non, verso un ibrido complesso pubblico-privato di poteri costituiti. Ma gli USA rivendicano rispetto a tutto ciò il primato ed il comando nella gestione dei fenomeni, per di più dinanzi al pericolo di venir essi stessi globalizzati. Quindi si tratta anche di una misurazione sia del potere dei gruppi oligarchici propri del predominio americano sia del ruolo politico del Paese. Quello degli ultimi anni, da parte dei neoconservatori, di ristrutturare la posizione egemonica, incrociandola persino apertamente con una prospettiva imperiale, ha forse determinato uno scenario di transizione che per ora si nutre soprattutto di “spinte eversive”.
Nonostante l’evidenza dello sforzo, ci consegnano lo scompenso tra il modello e la realtà. Tra onnipotenza e impotenza. Sullo sfondo, il declino americano.