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Il Liberalismo e limiti della giustizia. La critica comunitaria di Sandel e MacIntyre

di Michele Franceschelli - 15/07/2008

 

 

 

 

“NON GLI EGOISTI MA GLI ESTRANEI, A VOLTE BENEVOLI, SONO I CITTADINI DELLA REPUBBLICA DEONTOLOGICA”, Michael Sandel,

“Il Liberalismo e limiti della giustizia”

 

Michale Sandel  fa parte del gruppo di autori americani 
riconducibili al movimento comunitarista di Etzioni;
stiamo parlando, oltre che allo stesso Sandel, di  Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Robert N. Bellah, Michael Walzer, Roberto Mangabeira Unger.

In questo articolo cercherò di mettere in luce alcuni degli aspetti che contraddistinguono il pensiero di Sandel e MacIntyre.

Con diverse differenze tra di loro, questi autori condividono la tesi che individua nella caducità, banalità e  incompletezza
dei rapporti sociali, nella perdita dei sentimenti di appartenenza, nell'inettitudine  di arrivare ad una qualsiasi formulazione della
nozione di bene comune, i tratti più evidenti della crisi che avvolge le società moderne.

Nel suo libro “Il  liberalismo e limiti della giustizia” edito da  Feltrinelli 1994, scritto con un linguaggio accademico e poco divulgativo,  Sandel si dilunga ad analizzare e a criticare le tesi di John Rawls, autore della celebre "Teoria della Giustizia", 1971, nella quale Sandel ritrova tutti i presupposti teorici che fondano i disagi della modernità sommariamente sopra elencati.

 Rawls viene  considerato come uno dei più importanti assertori moderni della visione  neutra e procedurale della democrazia. Le sue idee hanno infatti influenzato notevolmente il  pensiero liberal-democratico del XX secolo, e il suo libro  rappresenta un’opera di filosofia politica fra le più studiate del novecento.

Quella intrapresa da Sandel non è pertanto una semplice querelle accademica,  ma una sfida rivolta contro una delle punte di diamante della rinascita del contrattualismo. A tal scopo l’Autore analizza puntigliosamente le tesi di Rawls, mettendone alla fine in evidenza l’inevitabile conseguenza: la progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese.

 

La tesi di Rawls si incentra sulla formulazione della giustizia come equità,  sulla tesi della  posizione originaria e  del velo di ignoranza.

Pur con diverse sfumature, sono formulazioni tipiche facilmente rintracciabili all’interno della scuola teorica liberale e neutralista.

La giustizia come equità di Rawls, la sua teoria liberale della giustizia,   aspira  infatti a situarsi in uno spazio super partes rispetto alle diverse concezioni morali che si contendono il campo della sfera pubblica delle democrazie occidentali; la base imprescindibile per l’erezione di una società giusta ed equa nei confronti delle diverse anime che ne fanno parte è identificato nella neutralità  del consesso politico.

Per fondare la sua idea di neutralità e imparzialità delle istituzioni, Rawls ricorre alla sua teoria della posizione originaria, che non è che una riedizione dell’idea del contratto sociale.

All’inizio, all’origine delle società umane, è immaginata da Rawls una situazione  iniziale di scelta, la posizione originaria appunto, in cui i cittadini sono chiamati a scegliere i principi di giustizia su cui fondare il modello di cooperazione sociale.

I cittadini nella posizione originaria si trovano in una condizione speciale:  per i criteri della loro scelta essi non ricorrono alle loro identità particolari, alle loro doti naturali, alla loro collocazione sociale o alle  proprie concezioni del bene; su tutte queste informazioni  viene steso un velo d'ignoranza, che non le rende utili e disponibili per una scelta come questa, di portata generale.

Il velo di ignoranza permetterebbe di valutare impersonalmente i principi di giustizia su cui si definiscono i termini equi per la cooperazione sociale e di scegliere questi ultimi razionalmente.

In queste tesi Sandel rintraccia le fondamenta teoriche della  disgregazione sociale, dell’ individualismo radicale, dell’ anomia, dell’ egoismo,
e quindi della progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese. La dimostrazione di ciò è data dalla visione complessiva dell’uomo che fonda teorie di Rawls:  affinchè la giustizia liberale sia la prima virtù infatti, di noi devono essere vere certe cose, in primis quello di considerarci come essere indipendenti dagli interessi e dai legami che possiamo avere in ogni circostanza. In questa visione  non dobbiamo immedesimarci  nei nostri obiettivi ma sempre  avere la facoltà di situarci un passo indietro per passarli in rassegna ed esaminarli ed eventualmente rivederli.
Accanto alla nozione di io indipendente Sandel evidenzia   la visione dell’universo morale in cui quest’io deve abitare: l’universo dell’etica deontologica. 

L’universo dell’etica deontologica  è un luogo sprovvisto di significato intrinseco, un mondo senza un ordine morale oggettivo in cui è possibile appunto concepire un io indipendente,  un soggetto staccato e anteriore ai suoi scopi e ai suoi fini. 

Quest’ etica deontologica non ha la capacità di riscattare la sua promessa liberatoria nei confronti del soggetto, ma al contrario lo rende schiavo delle circostanze di cui si riteneva dovesse essere padrone. Infatti quello che succede ad un io indipendente quale ci viene presentato nella posizione originaria, non è un io sovrano  capace di scegliere volontariamente, ma un io che si trova in balia  innanzi ad una scelta puramente preferenziale di desideri preesistenti, indifferenziati in quanto a valore, con i migliori mezzi per soddisfarli.

Ancora più profonde  le considerazioni in merito alle conseguenze che l’etica deontologica ha sulla nostra vita morale.

La deontologia insiste nel volere che noi ci riteniamo io indipendenti, indipendenti nel senso che la nostra identità non è mai legata ai nostri obiettivi e ai nostri  affetti.

Considerarsi indipendenti in questo modo significa privarsi in gran parte di tutte quelle lealtà e convinzioni la cui forza morale consiste in parte nel fatto che vivere coerentemente con esse è inseparabile dal ritenerci quelle particolari persone che siamo. “Fedeltà come queste sono qualcosa di più di valori  che per caso io ho o di obiettivi che io sposo in un momento dato qualsiasi. Esse fanno sì che io abbia verso qualcuno dei doveri superiori a quelli che la giustizia richiede o addirittura permette, non in ragione di accordi che io abbia fatto, bensì in virtù di quegli affetti e di quegli impegni più o meno duraturi che, presi nel loro insieme, definiscono parzialmente la persona che sono”. (Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia)

Una persona incapace di affetti costitutivi di questo genere non equivale ad un agente idealmente libero e razionale, ma ad un individuo  completamente sprovvisto di spessore morale.

Avere carattere significa avere la consapevolezza di trovarsi in una storia che non evoco nè controllo, la quale comporta tuttavia delle conseguenze per le mie scelte e per il mio comportamento.

Quando agisco in base a qualità del carattere più o meno resistenti la mia scelta dei fini non è arbitraria come quando in assenza di affetti costitutivi la deliberazione sfocia in una scelta puramente preferenziale.

Quando decido mi chiedo non solo che cosa voglio ma chi sono realmente, e quest’ultima domanda mi porta oltre ad una concentrazione ai miei desideri soltanto, fino a riflettere sulla mia stessa identità.

La possibilità del carattere in senso fondante è indispensabile anche per un certo genere di amicizia, un’amicizia contraddistinta da reciproco intuito oltre che da affetto.

Ma per persone ritenute incapaci di affetti costitutivi, atti di amicizia come questi si trovano di fronte a un potente handicap: per quanto io possa volere il bene di un amico ed essere disposto ad incentivarlo, solo l’amico stesso può sapere che cos’è quel bene. Questo accesso limitato al bene degli altri deriva dalla portata ristretta  della riflessione su di sè.

Per persone piene in parte di una storia che esse hanno in comune con altri, per contrasto, conoscere se stesse è una cosa più complicata. E’ anche una cosa meno esclusivamente personale. “Se la ricerca sul mio bene è limitata dall’esplorazione della mia identità e dall’interpretazione della storia della mia vita, la conoscenza che cerco  è meno trasparente per me e meno opaca per gli altri. L’amicizia diventa un modo di conoscere oltre che di piacere”. (Sandel, op. cit.)

Sandel conclude pertanto che vederci come la deontologia vorrebbe significa privarci di quelle qualità di carattere, di riflessività, e dell’amicizia che dipendono dalla possibilità di avere progetti e affetti costitutivi. Vedere noi stessi come dediti a impegni come questi significa ammettere una comunità più profonda di quella descritta dal contrattualismo, una comunità di comprensione condivisa di sè oltre che di affetti allargati.

 

 

 

 

 

 

 

 

“La storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità” A. MacIntyre, Dopo la virtù.

 

Proprio partendo da queste ultime riflessioni di Sandel, in particolar modo per ciò che concerne l’importanza della propria storia e della propria identità per le proprie scelte morali, ci possiamo ricollegare ad alcune tesi sostenute da un altro importante membro dei comunitaristi americani: Alasdair MacIntyre, autore del libro: Dopo la virtù, uno studio di teoria morale, 1981, la sua opera più famosa, alla quale è legato il suo nome.

Non è possibile compiere in quest’articolo un’analisi  dettagliata di questo libro. Qui mi preme sottolineare la parte che MacIntyre dedica all’importanza della storia, dei ruoli e dell’identità delle persone.

MacIntyre dice che per comprendere noi stessi, la prima domanda che ci dobbiamo porre non è che cosa devo fare, ma bensì di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte.

Rispondendo a questa domanda scopriamo che il nostro io è situato in un personaggio di una storia che ha una propria coerenza ed unità. MacIntyre parla a tal proposito di identità stretta.

Pertanto qualsiasi tentativo di chiarire il concetto di identità personale indipendentemente e separatamente da quelli di storia e di narrazione è condannato al fallimento.

La storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità.

MacIntyre sottolinea per esempio come nelle antiche culture greche, medievali e rinascimentali il pensiero e l’azione morale del singolo sono in sintonia con l’organizzazione sociale della comunità, e ogni individuo riveste un ruolo e un rango prestabilito entro un sistema ben preciso, che trova nelle categorie del casato e della parentela le sue più alte espressioni. In tali forme, ogni uomo sa chi è proprio perché conosce il proprio ruolo sociale e, in forza di ciò, sa anche quali sono i suoi doveri e i suoi diritti nell’ambito della comunità di cui fa parte: in questo caso, la virtù è il frutto dei valori tradizionali e della comunità.

Il valore e la funzione di una virtù sono  pertanto localizzati all’interno di “pratiche”, intese come attività perseguite secondo regole stabilite all’interno di una comunità e ogni azione o asserzione diviene intelligibile se inserita in un ordine narrativo, ciò che conferisce unità alla vita individuale, finalizzato alla realizzazione della vita buona; questa e ogni altra attività si situa all’interno di una tradizione morale, che non esclude tuttavia innovazioni e critiche.

La vita morale e la ricerca del bene sono sempre imprese comuni, nelle quali l’unità narrativa della vita individuale è necessariamente connessa con quella della comunità di appartenenza. La nozione stessa di “pratica” individua lo sfondo sociale condiviso nel quale l’esercizio delle virtù è inserito e da cui trae intelligibilità.

 

In analogia a ciò che facciamo con noi stessi, dove la prima domanda che ci dobbiamo porre non è che cosa devo fare, ma bensì di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte, comprendere le società significa in primis individuare l’insieme delle storie che costituiscono  le sue fondamenta, le sue risorse drammatiche originarie (la mitologia per esempio).

 

La tradizione morale aristotelica così ricostruita da MacIntyre costituisce l’antitesi speculare della posizione emotivista e dell’individualismo burocratico che ne è la controparte politica, sulla cui analisi l’autore si sofferma ampiamente nella prima parte del suo libro “Dopo la virtù”.