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La personalità organica, correttivo necessario alle illusioni e agli errori dell'uomo «moderno»

di Francesco Lamendola - 16/07/2008

 

Abbiamo visto come la riflessione di Lewis Mumford sul senso della storia e del destino umano abbia avuto il merito di porre chiaramente sul tappeto l'esigenza di un cambiamento di rotta rispetto alle tendenze di dominio illimitato dell'homo tecnologicus.

Per il pensatore americano, la civiltà della macchina ha oltrepassato il segno e si è avviata su una strada fatalmente autodistruttiva; egli sosteneva con vigore che è necessario un cambiamento di rotta; e vedeva nella città organica, cresciuta in base alle esigenze delle single comunità, del lavoro, della cultura e dello svago, il modello sociale ideale, contrapposto alla città tecnologica, pianificata, centralizzata, eterodiretta, ove l'individuo è gettato a caso e alienato dalla parte migliore di sé stesso e della vita comunitaria.

In un sistema socio-economico, quale è quello odierno, dominato da ciò che Lewis Mumford denominava la megamacchina, ossia da una preponderanza schiacciante delle esigenze dell'apparato tecnico-industriale su tutte le altre, non vi sono dubbi che il benessere sia concepito come qualcosa di puramente quantitativo e di puramente astratto, ossia di statistico. Ma non è quello che meglio realizza i nostri interessi vitali di persone concrete; e ciò emerge anche da un confronto con altri modelli sociali e produttivi, ad esempio con quello tardo medioevale, caratterizzato da una pluralità di modi di produzione e, di conseguenza, di orientamenti culturali (cfr. F. Lamendola, Dal ricco politecnico medioevale alla moderna monotecnica, « pentagono » di un potere inumano, sempre sul sito di Arianna Editrice).

 

Il nuovo tipo umano - perché di questo si tratta, di un'autentica mutazione antropologica - è comparso verso la fine del Medioevo e si è andato affermando a partire dal XVI secolo.

Scriveva Mumford in La condizione dell'uomo (titolo originale: The condition of Man, 1944; traduzione italiana di Alberto Mondini, Bompiani, Milano, 1967, 1977, vol. 2, pp. 319-320):

 

… Il concetto di Uomo Moderno deve essere preso come un termine storico che illustra un tipo di esistenza, una forma di pensiero e d vita sociale, un ego ed un super ego che apparvero per la prima volta nel quindicesimo secolo. La parola moderno fu usata per distinguere le credenze contemporanee di questo periodo da quelle degli antichi: più tardi essa divenne un termine di speciale elogio, quando i moderni divennero più orgogliosi dei propri successi e più fiduciosi della propria posizione. Nulla di ciò che l'uomo del ventesimo secolo cantò a lode di se stesso potrebbe sorpassare ciò che Voltaire disse del diciassettesimo secolo. E ai nostri giorni il trionfo dell'Uomo moderno si è rivelato una profonda ironia: anche lui porta una data - come portano una data gli uomini e le donne «progrediti» nelle prime commedie di Bernard Shaw.

La parola moderno viene dal latino. Essere moderno significa essere alla moda, cioè scartare il passato come si scarterebbero gli abiti dell'anno scorso, e portare la stessa uniforme dei propri contemporanei. Nel sedicesimo secolo, il termine new fangled (di ultima moda) era pur sempre un epiteto di rimprovero: Filippo di Spagna più tardi classifica «gli innovatori» insieme agli insolventi, ai malviventi e ai fuori legge. Ma poi la novità di un costume cessò di essere un peggiorativo: fumare la pipa, andare in carrozza di posta, mangiare patate, bere tè, preferire Descartes ad Aristotele o Swift a Giovenale non fu più un'audacia. Cambiamento, innovazione, divennero l'ordine del giorno. «facciamo che ogni domani ci trovi più innanzi dell'oggi» divenne la  regola di condotta. Il calendario semplificava tutto il problema dei valori: appartenere al passato significava essere svuotato di ogni valore. Tutto questo era troppo semplice.

In breve, l'Uomo Moderno fu uno spaventapasseri ideologico: una creatura formata durante il periodo di espansione, e destinata a vivere soltanto finché continuavano ad esistere le condizioni ed i bisogni che gli dettero origine. Essendo il prodotto di un'età di espansione, egli credette di tutto cuore, fervidamente, nel movimento e nella locomozione: non piccola parte della sua esistenza fu dedicata ad accelerare la velocità della nave a vela, del treno e dell'aeroplano. Le astrazioni del tempo, dell'energia e del denaro, sono più reali per lui di qualunque altro sistema di astrazioni, e da esse egli deduce un ideale quantitativo di vita: più energia, più velocità, più movimento, più denaro, più tempo. Affollando le sue sensazioni e moltiplicando gli avvenimenti nei suoi giorni, egli sperò di raggiungere una vita più piena: l'affrettarsi, anziché essere una pratica recente per ottenere maggior produzione in fabbrica, è una concezione universale. L'Uomo Moderno crede nel quadro meccanico del mondo, non come in un inutile strumento di ordine - ciò che esso è - ma come in una rivelazione finale della verità. Tutto ciò che non si adatta entro questo idolum cessa di essere reale. Uniformità obiettiva: caos soggettivo.

L'Uomo Moderno si apprestò alla conquista del mondo esterno: aveva fede nelle macchine, e quella fede fu giustificata dalle opere. Egli proiettò il sogno infantile della potenza illimitata nella società adulta e guardò con speranza anticipata un tempo in cui la pressione di un bottone avrebbe portato il cibo con estrema facilità come il pianto di un bambino porta il poppatoio o la mammella. Ma dopo quattro secoli di strenui sforzi i suoi mitici poteri sono ancora un'illusione. Ad onta delle sue macchine egli soffre la fame in mezzo all'abbondanza: a dispetto della sua sapienza sulle stelle lontane ed i mondi intra-atomici la civiltà che egli ha creato ha dato origine ad una barbarie che si è sparsa ora attraverso il pianeta. In una serie di guerre mondiali e di rivoluzioni mondiali, l'Uomo Moderno è giunto in effetti ad un penoso suicidio.

 

Da questo suicidio sta nascendo, forse, un individuo con caratteristiche spirituali radicalmente diverse. Reso saggio dall'esperienza, l'uomo della post-modernità ha compreso la follia di identificare la psicologia di un'epoca storica determinata, e precisamente un'epoca di espansione, con la natura umana in quanto tale; e, di conseguenza, è arrivato a comprendere come la quantità, la velocità e il denaro non siano, dopo tutto,  quei valori assoluti che l'Uomo Moderno aveva creduto, innalzandoli al rango di una nuova religione.

L'uomo del futuro ha compreso la necessità di realizzare un equilibrio fra le esigenze della specializzazione e quelle della globalità; pertanto le sue caratteristiche più spiccate saranno la capacità di vedere e di pensare con larghezza, di contemperare le esigenze della qualità con quelle della quantità, di sviluppare in misura sempre maggiore l'elasticità e la flessibilità necessarie a padroneggiare il proprio cammino, senza più percorrere ciecamente una strada a senso unico - quella di un supposto progresso che si è rivelata, invece, un vicolo cieco.

Non si tratta di aspirazioni, pii desideri o di utopie a briglia sciolta. Lo sguardo di Mumford è sempre lucido e disincantato; egli sa che l'umanità è giunta a un bivio decisivo, e che potrebbe anche scegliere il sentiero sbagliato, avviandosi verso la catastrofe finale. Dopotutto, quella in cui viviamo non è che una delle numerose civiltà che si sono succedute nella storia del mondo, anche se il suo dinamismo esasperato l'ha portata ad inglobare, fisicamente o culturalmente, l'intero pianeta; e potrebbe benissimo autodistruggersi, come altre hanno fatto prima di essa. Le civiltà, egli dice, non muoiono di vecchiaia: esse muoiono a causa delle complicazioni della vecchiaia.

 

Sulle orme di Burckhardt, Mumford osserva che, quando una civiltà si sta esaurendo, fanno la loro comparsa i «terribili semplificatori»: barbari che rinunciano volontariamente a tutte quelle parti della nostra cultura che si ricollegano alle più alte necessità dell'uomo. Barbari confessi, i quali non sanno che farsene di Raffaello, Shakespeare o Bach, e che getterebbero nel fuoco tutte le maggiori creazioni dello spirito in cambio di qualche fragoroso divertimenti da osteria. Ebbene, sostiene Mumford , questi barbari sono già comparsi tra noi: sia in forma esplicita - come nel caso dei nazisti -, sia in forma più strisciante e insidiosa - ad esempio nella pubblicità -, e il trionfo del loro cattivo gusto costituisce un serio e immediato pericolo per la trasmissione dell'intero patrimonio di civiltà di cui siamo, teoricamente, i custodi.

L'unico possibile antidoto al dilagare della barbarie - e, di conseguenza, al declino sempre più rapido della nostra civiltà - è, a giudizio di Mumford, quello di decentrare sempre di più il potere, perché è l'eccesso della sua concentrazione che favorisce i peggiori fenomeni degenerativi della hybris propria dell'Uomo Moderno. Vi è, quindi, un palese sottofondo libertario nella sua proposta politico-sociale, che lo apparenta sia a certi utopisti socialisti di fine Ottocento - William Morris, ad esempio, prima che si convertisse al marxismo; o Petr Kropotkin, ma senza la sua ingenua fiducia nelle virtù liberatrici della macchina -, sia, più recentemente, a  pensatori come Ivan Illich o  Murray Bookchin.

Ma quali dovrebbero essere, esattamente, le caratteristiche della persona organica, l'abitante del terzo millennio aperto al futuro, ma senza complessi o assurde vergogne nei confronti del proprio passato?
Mumford ne traccia un breve ritratto, a conclusione del suo ampio studio La condizione dell'uomo (ed. cit., vol. 2, pp. 509-514), in una pagina che si caratterizza - come sempre, del resto - per la chiarezza espositiva e il nitore formale.

 

La personalità ideale dell'età che si apre è una personalità equilibrata: non lo specialista, ma l'uomo intero. Una tale personalità deve essere in interazione dinamica con tutte le parti del suo ambiente e con tutte le parti della sua eredità spirituale. Deve esser capace di trattare le esperienze economiche e le esperienze estetiche, le esperienze della genitura e le esperienze della vocazione come parti articolate di un medesimo tutto, e cioè della vita stessa. La sua istruzione, la sua disciplina, la sua routine quotidiana debbono tendere verso questa completezza. Per raggiungerla, egli deve esser pronto a voltare le spalle a quei facili successi che provengono, in una cultura agonizzante, dall'automutilazione.

Un tale equilibrio dinamico non si raggiunge facilmente: i suoi risultati sono preziosi e la sua stabilità è precaria: essa richiede una vigilanza ed una prontezza atletica per far fronte a nuove situazioni e a nuovi sforzi, che mestieri più specializzati abitualmente non richiedono. Poiché l'equilibrio non consiste nel dedicare quantità definite di tempo e di energia a ciascun segmento della vita che richiede attenzione; questo già avviene persino nella nostra ripartizione meccanica delle funzioni. L'equilibrio significa invece che l'intera personalità deve essere costantemente in gioco, o almeno pronta ad entrarvi, in ogni momento dell'esistenza, e che nessuna parte della vita deve essere completamente staccata da un'altra parte , a tal segno da essere incapace di influenzarla o di subirne l'influenza.

Ma l'equilibrio qualitativo è importante quanto l'equilibrio quantitativo: vi sono molti generi d'esperienza che hanno nella vita quella parte che le vitamine hanno nella dieta; elementi quantitativamente minuti possono essere per la salute spirituale importanti quanto lo sono per quella fisica le vitamine e i minerali. La maggior parte delle attività più elevate dell'uomo appartengono a quest'ultima categoria. Nessuna persona sana può passare tutta una giornata guardando dei quadri, così come non può passare un giorno intero a far l'amore. Ma anche per la persona più umile, un giorno passato senza la visione o il suono della bellezza la contemplazione del mistero, o la ricerca della verità o della perfezione è un ben povero giorno; ed un succedersi di tali giorni è fatale per la vita umana. Ecco perché anche le più superstiziose forme di religione, che hanno almeno tenuto viva una scintilla di bellezza o di perfezione, contengono ancora per la massa dell'umanità dei valori che il freddo positivismo scientifico ha lasciato andar perduti sia nel pensiero che nella pratica.

L'importanza dell'equilibrio sia per la comunità sia per la personalità apparirà forse più chiara se terremo presenti i più gravi pericoli che accompagneranno la stabilizzazione: pericoli che sono già chiaramente visibili nella mentalità burocratica e nel lavoro a orario che hanno cominciato a infettare tutti i campi della vita: non soltanto gi uffici statali, ma il campo degli affari; non soltanto gli affari, ma l'insegnamento. Coloro cui difetta la capacità creativa di raggiungere  un equilibri dinamico sono già nelle spire della contraffazione o della negazione dell'equilibrio: dell'alessandrinismo o del bizantinismo.

Le organizzazioni che rimangono stabili per un certo tempo -  e l'esercito ne è esempio eccellente - divengono schiave dell'abitudine ed ostili a qualunque cambiamento: esse sono incapaci di far fronte a nuove situazioni, e gli sforzi stessi che fanno per «adattarvisi» divengono una profonda causa di disadattamento. Il progresso scientifico non modifica questo fatto, poiché esso tende a seguire forme istituzionali immutabili, e spesso va alla ricerca della perfezione entro una cornice che diviene ogni giorno più soprassata. Stabilità e sicurezza, ricercate come fini a sé stesse, daranno per risultato una divisione del lavoro secondo caste, e la negazione di qualsiasi cambiamento capace di turbare una routine ogni giorno più radicata: moduli, precedenti, schemi stereotipi sostituiranno i bisogni umani, e gli attributi stessi della vita, la sua capacità di adattamento, di rivolta, di rinnovamento saranno annullati da questo sforzi mal concepiti per custodir meglio la vita.

Queste specie regressive di stabilizzazione hanno già preso forma: sono state poste dai filosofi e dai capi nazisti quale fondamento per costruirvi sopra elle immutabili divisioni di casta. Ma il pericolo non sta soltanto nei fascisti consapevoli: molti di coloro che parlano a voce più alta di individualismo senza compromessi si dimostrano poi nella pratica quotidiana sostenitori di una piatta rigidezza bizantina. I tipi fissi di domande d'esame che sono apparsi in tanti campi dell'insegnamento americano sotto l'etichetta di metodo progressivo paralizzeranno, in una breve generazione, l'acquisizione e l'allargamento di nuove conoscenze. E questo simboleggia una ben più vasta minaccia alla vita e al pensiero.

E proprio perché la stabilità porta con sé questi pericoli, noi dobbiamo introdurre nel nostro concetto della personalità che auspichiamo la capacità di far contatto con la vita in molti punti, di aver mano leggere, di mantenere tutti i campi dell'esperienza in uno stato di continui rapporti e di reciproca influenza: in modo che eventi nuovi appaiano in punti inattesi, in circostanze imprevedibili. Per l'età dell'equilibrio noi abbiamo bisogno di una nuova razza di pionieri, di dilettanti appassionati, per arrestare quella tendenza che porta a dar duro corpo alla prassi modellandola in molli forme, ed a scarificare lo sviluppo della personalità sull'altare della macchina. Quella stereotipizzazione di attività che lascerà l'organismo libero per le funzioni più importanti - come quegli automatismi umani che assegnano una gran arte delle fatiche del nostro agire normale al midollo spinale - non deve arrestarsi sulla sua strada che porta ad uno scopo utile.

Sotto questo aspetto le carie esperienze di guerra affrontate da tanta gente nei più diversi paesi, in qualità di soldati, militi contraerei, pompieri, infermiere e così via, debbono essere considerate contributi essenziali in vista del compito della cooperazione pacifica, tipica di un nuovo genere di cittadinanza in una più vivida forma di vita. Ma non possiamo permetterci di far scoppiare una guerra ad ogni generazione allo scopo di rompere le cristallizzazioni sociali: sarebbe come bruciare la casa per arrostire il maiale.  Dobbiamo fare di questi contrappesi sociali e personali alla rigidità e alla fissità i requisito fondamentali per la maturazione della personalità.

È costume del nostro tempo ritenere che non valga la pena di discutere un cambiamento se questo non può essere immediatamente organizzato in forma di movimento visibile: nell'arruolamento in massa di migliaia, e preferibilmente di milioni, di uomini e donne. Proprio l'apparizione di migliaia di uomini in camicia nera e in camicia bruna diede pubblicità al fascismo e fece sì che le sue rancide idee sembrassero importanti. Molti dei movimenti in atto che oggi cercano di far proseliti sono poco al di sopra degli stratagemmi pubblicitari: stratagemmi decorativi che non cambiano nulla e non muovo nulla. E lo stesso accadrebbe ad un movimento rivoluzionario, se coloro che vi prendono parte non rimodellassero i propri strumenti: a cominciare dalle proprie persone.

In un posto solo può cominciare il rinnovamento immediato; e cioè nell'interno della persona; ed un rifoggiamento della personalità e del super-ego è un primo passo inevitabile verso i grandi cambiamenti che debbono essere effettuati in ogni comunità, in ogni parte del mondo. Ognuno, nel suo campo d'azione - la casa, il vicinato, la città, la regione, la scuola, la chiesa, la fabbrica, la miniera, l'ufficio, il sindacato - deve portare nel suo immediato lavoro quotidiano un atteggiamento diverso nei confronti di tutte le proprie funzioni e d tutti i propri obblighi. Il suo lavoro collettivo non può elevarsi a livelli che siano più alti della sua scala personale di valori. Una volta effettuato un cambiamento nella personalità, ogni gruppo non mancherà di notarlo e di adeguarvisi.

Oggi i nostri piani migliori abortiscono perché sono in mano a gente che non ha subito alcuna trasformazione interna. La maggior parte di costoro non ha voluto guardare in faccia la crisi del mondo, e non s'immagina neppure di averne aiutato l'avvento, ed in quale misura. In ogni nuova situazione essi non portano altro che i fossili di sé stessi.  I loro pregiudizi nascosti, le loro volubili speranze, i loro arcaici desideri ed automatismi - per solito ammanniti nel linguaggio della più spinta modernità - ricordano quelli dei Greci nel quarto sec. a. C. o quelli dei Romani nel quarto secolo A. D. Si trovano come un aereo che picchi a pieno motore e i cui comandi si siano bloccati. E pensano di poter evitare la distruzione chiudendo gli occhi.

Coloro che attendono nelle nostre istituzioni rapidi e importanti cambiamenti sottovalutando le difficoltà che ci troviamo di fronte: la penetrazione della barbarie e dell'automatismo, questi gemelli traditori della libertà, è stata troppo profonda. Nella loro impazienza, nella loro disperazione, costoro segretamente si cullavano nella speranza di poter gettare sulle spalle di un salvatore il fardello della loro redenzione: su un presidente, un papa, un dittatore…volgari degenerazioni di una divinità svilita o di una corruzione divinizzata. Ma un tal capo rappresenta soltanto la massa dell'umanità nella sua peggiore espressione: l'incarnazione dei nostri risentimenti, dei nostri odi, dei sadismi, della nostra codardia, della nostra confusione, e della nostra compiacenza. Non c'è salvezza in questa cruda venerazione di sé: Dio deve lavorare dentro di noi. Ogni uomo ed ogni donna deve prima accollarsi silenziosamente il suo fardello.

Noi non abbiamo bisogno che le bombe e le pallottole effettivamente ci colpiscano per liberare la nostra vita delle cose superflue:: non abbiamo bisogno di attendere gli eventi per stringere all'unisono le nostre volontà. Dovunque noi ci troviamo, il peggio è già accaduto e dobbiamo provvedervi. Dobbiamo semplificare la nostra routine quotidiana senza aspettare le tessere del razionamento; dobbiamo assumerci responsabilità pubbliche senza attendere la coscrizione; dobbiamo lavorare per l'unità e per l'effettiva fratellanza degli uomini senza attenere che altre guerre dimostrano che l'attuale ricerca del potere, del guadagno e di tutte le altre forme di ingrandimento materiale sono un tradimento dell'umanità; tradimento e suicidio nazionale. Anno per anno, dobbiamo perseverare in tutte queste azioni, anche se le restrizioni siano state abolite e si sia affievolita la previsione della guerra. Se noi non ricostruiamo noi stessi tutti i nostri trionfi esteriori crolleranno.

Non vi sono facili forme per questo rinnovamento. Far tutto il possibile non è abbastanza: dobbiamo fare ciò che sembra impossibile. Il nostro primo compito non è quello di organizzarci ma quello di orientarci: un cambiamento di direzione e di atteggiamento. Dobbiamo portare in ogni attività e in ogni piano un nuovo criterio di giudizio: dobbiamo chiederci quanto esso giovi alla piena realizzazione della vita e quanti rispetti le necessità dell'intera personalità.

E prima di tutto dobbiamo domandarci: qual è lo scopo di ogni nuova misura politica ed economia? È forse la vecchia meta dell'espansione o la nuova meta dell'equilibrio? Lavora per la conquista o per la cooperazione? E qual è la natura di questo o di quel nuovo portato industriale o sociale, produce esso soltanto beni materiali o produce anche beni umani ed uomini buoni? I nostri piani individuali per la vita sono diretti verso una società universale, , in cui arte e scienza, verità e bellezza, religione e santità arricchiscano l'umanità? I nostri piani pubblici per la vita sono diretti verso la realizzazione ed il rinnovamento della persona umana, in modo da dare abbondanti frutti di vita, sempre più significativi, di valore sempre più alto, sempre più profondamente sperimentati e più vastamente condivisi?

Se noi tentiamo costantemente presente questo criterio di valutazione noi avremo insieme una misura per ciò che deve essere rifiutato ed una meta per ciò che deve essere raggiunto. Col tempo, noi potremo creare le istituzioni e le abitudini di vita, i riti, le leggi, le arti, la morale, che sono essenziali per lo sviluppo dell'intera personalità e della comunità equilibrata: le possibilità di progresso diverranno nuovamente reali quando avremmo perduto la nostra cieca fede nei ragionamenti esterni portati dalla sola macchina. Ma il primo passo è personale: un cambio nella direzione dell'interesse che deve volgersi verso la persona. Senza questo cambiamento, non si avranno grandi miglioramenti nell'ordine sociale. Una volta cominciato quel cambiamento, tutto è possibile.

 

Impossibile, dunque, per Mumford, immaginare che gli individui possano formarsi una personalità equilibrata, se non nel contesto di una società equilibrata; l'una cosa è collegata all'altra, ed entrambe devono procedere in sinergia.

Ma è impossibile che gli uomini i quali pensano vecchio, abituati come sono a seguire l'orientamento oggi dominante, ritenendo che esso sia assoluto ed eterno, possano traghettarci fuori dalle presenti difficoltà. Essi, per adoperare la colorita ed efficace espressione di Mumford, possono solo portare in giro i propri fossili: sono i fossili di sé stessi. Ma, siccome abbelliscono il loro sapere e la loro «saggezza» con una terminologia estremamente moderna - o, per dir meglio, alla moda - non è facile vedere, di primo acchito, sino a qual punto siano inadeguati al compito di affrontare le sfide presenti, ossia la necessità di operare una profonda conversione nell'orientamento sociale, economico e spirituale della nostra civiltà.

Una società basata sulla ricerca dell'equilibrio richiede, da parte dei suoi membri e, a maggior ragione, dei suoi capi, delle qualità e delle attitudini completamente diversi da quelli che sono necessari in una società basata sull'espansione. È come se le attuali guide dell'umanità dovessero traghettarci verso il futuro, servendosi degli strumenti mentali e materiali del passato.  Mumford usa un'espressione molto dura al riguardo: dice che l'attuale ricerca del potere, del guadagno e di tutte le altre forme di ingrandimento materiale sono un tradimento dell'umanità; tradimento e suicidio nazionale.

Un concetto analogo era stato più volte ribadito - anche nell'ultima intervista concessa alla televisione prima di spegnersi  - da Tiziano Terzani, il quale, in polemica con Piero Ostellino ed altri Soloni armati di «solido realismo», lo accusavano di essere un utopista, quando non solo si opponeva alla seconda guerra del Golfo, ma invitava gli esponenti della cultura ad un profondo ripensamento sui problemi della crescita, dell'ambiente, della pace e dell'autentico benessere per tutti gli abitanti del pianeta.

È mortificante vedere come gli uomini continuino a fuggire dalle proprie responsabilità e a sperare di potersi affidare a un capo carismatico che, con la sua bacchetta magica, possa risolvere i problemi causati da un modello di sviluppo divenuto insostenibile e sempre più distruttivo. Giustamente Mumford osserva che un tale capo, se anche potesse affermarsi, altro non farebbe che assecondare gli umori più torbidi e gli istinti più bassi delle folle; e, del resto, capi del genere se ne sono già visti, nella storia recente, e non hanno certo fatto una buona prova. In genere, la loro strategia è quella di esasperare le paure e di focalizzare le aspettative delle masse su degli obiettivi di comodo, i quali poco o nulla hanno a che fare con i problemi veri posti dalla situazione, sia interna che internazionale. Erich Fromm ha bene evidenziato i meccanismi psicologici che generano questo atteggiamento, contemporaneamente ansioso e rinunciatario, da parte delle masse, riassumendoli nella formula fuga dalla libertà.

Ad ogni modo, il fatto di voler fuggire verso la scorciatoia di una dittatura più o meno camuffata e fondata sul consenso popolare, come osserva Mumford, è la spia di una incapacità, da parte dei singoli individui, di assumersi la responsabilità di operare in se stessi quel cambiamento che le circostanze mondiali rendono ormai improcrastinabile. Ciascuno deve prima trasformare se stesso, per poi essere in grado di dare un valido contributo al cambiamento sociale. Ma nessuno che non abbia saputo divenire l'artefice della propria trasformazione, potrà mai trasformare il mondo in meglio.

Parole sagge, che forniscono ancor oggi la migliore chiave di lettura con cui interpretare le ripetute delusioni provocate dagli esiti negativi di tutte le rivoluzioni moderne, compreso il '68 e il movimento studentesco. Non basta recitare slogan rivoluzionari e predicare la necessità di una violenta rottura col passato, se si è internamente impregnati e profondamente condizionati dagli aspetti peggiori del sistema sociale e culturale che si vuole abbattere. Il che era stato espresso con una vivida metafora, duemila anni fa, da qualcuno che diceva: Non si può versare il vino nuovo in otri vecchi.

La conclusione di tutto ciò è che tutti coloro che ritengono indispensabile un profondo mutamento nello sviluppo della società, devono anche sentirsi interpellati personalmente, uno per uno, a realizzare tale cambiamento nella profondità del proprio essere. Il tempo a disposizione della nostra civiltà è ormai quasi scaduto, siamo sull'orlo del baratro.

Davvero vogliamo continuare a far finta che ogni cosa vada bene, chiudendo gli occhi davanti al disastro imminente; o, peggio ancora, vogliamo imboccare la scorciatoia di affidarci - legati e piedi, - perché operi la nostra salvezza, a qualche leader politico o religioso, abbastanza cinico da cavalcare le nostre paure, ma altrettanto sprovvisto di noi di quei mezzi spirituali i quali, soli, permettono di vedere le cose con un minimo di lungimiranza, e di agire con assennatezza e senso dell'equilibrio?