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L'unica parola possibile su Dio, per Karl Barth, non è quella dell'uomo, ma di Dio stesso

di Francesco Lamendola - 17/07/2008

Karl Barth  (Basilea, 1886-1968) è stato il critico più radicale della cosiddetta «teologia liberale» che, erede del pensiero illuminista e, per altro verso, anche di quello romantico (Schleiermacher, Hegel), aveva concepito la religione come avvicinamento dell'uomo a Dio, cercando di intendere il mistero di Dio in termini razionali e ponendo l'uomo, i suoi sentimenti e la sua stessa ragione, al centro del cammino verso il Divino.

Erede di Kierkegaard e, prima ancora di Lutero, Karl Barth respinge totalmente una tale impostazione, che pretenderebbe di ridurre l'ineffabile parola divina a livello di quella umana, il mistero di Dio alla portata della ragione umana. Dio, per l'uomo, è il Deus absconditus, il Dio sconosciuto, perché nulla di Lui è possibile dire, se non quello che Egli stresso dice all'uomo: e la Sua parola è la teologia della croce, ossia il mistero dell'incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, seguita dalla sua resurrezione.

Una insuperabile differenza ontologica separa il Creatore dalla creatura, secondo la drastica formula: Dio è in cielo e tu sei in terra. Barth, pertanto, torna ad abbeverarsi alle origini della Riforma luterana, ma la radicalizza ulteriormente. Non solo non è possibile la giustificazione per mezzo delle opere, ma la religione stessa diviene un elemento da rifiutare, se essa è intesa come elevazione dell'uomo verso il Divino.

Non solo è necessario respingere, di conseguenza, tutti quei tentativi - come, appunto, aveva fatto la teologia liberale - di conciliare fede e ragione; ma la stessa filosofia deve essere messa da parte, se essa ardisce sostituirsi all'atteggiamento religioso, al centro del quale è l'evento della fede, misterioso e irriducibile alla ragione umana.

Non così la pensava Friedrich Gogarten, il quale, al contrario, aveva sostenuto la fondamentale convergenza di teologia e filosofia (cfr. F. Lamendola, La teologia « esistenziale» di Gogarten come superamento della solitudine e della disperazione, sempre sul sito di Arianna Editrice); il che dimostra che il dissenso fra i due teologi andava oltre la sfera politica, circa il giudizio sul regime nazista; ma investiva in pieno questioni speculative sia di metodo che di merito.

Come per Kierkegaard, l'uomo è una creatura finita e peccatrice, che sarebbe ridotta alla più completa impotenza se non si volgesse a Dio. Ma dove cercarlo? Non certo nella creazione, perché non esiste alcuna possibile analogia fra gli enti e l'Essere, fra le creature e il loro Creatore. Dio è il radicalmente Altro; e, così come non lo si può trovare nelle opere della ragione, allo stesso modo non lo si potrà mai trovare nelle cose finite.

Non c'è nessuna parola che l'uomo possa pretendere di pronunciare su Dio, se non la parola che Dio medesimo pronuncia su se stesso, rivolgendosi all'uomo; e tale parla è la croce di Cristo, la theologia crucis. «La teologia della croce» è la condanna di ogni parlare umano su Dio, la condanna di ogni discorso analogico in sede teologica. Già la stessa domanda: «Esiste Dio?», è una domanda ingannevole, se prima non si chiarisce di che tipo di esistenza parliamo. Infatti, le uniche forme di esistenza che noi conosciamo sono la nostra e quella degli altri enti finiti; ma, se ogni analogia tra creato e Creatore è indebita, allora ne consegue che non possiamo attribuire a Dio una forma di esistenza in qualche modo commensurabile alla nostra.

Esiste una sola maniera, per l'uomo, di rapportarsi con il Divino, ed è quella di riconoscere l'abisso ontologico che lo separa da Esso, la propria assoluta impotenza e insufficienza, dal cui pieno e franco riconoscimento scaturisce la scintilla delle fede.

La fede, allora, è, - propriamente parlando - l'esperienza diretta della negatività della condizione umana: negatività non in senso etico, ma ontologico. Essa nasce, infatti, per contrasto, dalla consapevolezza dell'Altro, su cui la nostra precarietà e indigenza si fondano. «La fede è questo - scrive Karl Barth - : il rispetto dell'incognito divino, l'amore di Dio nella coscienza delle differenza qualitativa tra Dio e uomo, tra Dio e mondo».

 

Posta così la questione, è facile capire come gran parte della successiva ricerca teologica di Barth sarebbe consistita nel tentativo di trovare, nonostante tutto, qualche possibilità di mediazione tra uomo e Dio e, soprattutto, fra peccato e Grazia (Baravalle). Diversamente, spingendo all'estremo le premesse, non resterebbe che porre un abisso incolmabile fra le due sfere, davanti al quale non sarebbe possibile che l'abbandono totale dell'uomo, come nella teologia islamica.

 

Scrive dunque Karl Barth nella sua Epistola ai Romani (titolo originale: Die Römerbrief, 1919; seconda edizione riveduta, 1922; traduzione italiana di G. Miegge, Feltrinelli, Milano, 1962, 1978, pp. 12-13):

 

Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale né una forza dell'anima, né alcune delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro somma, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l'origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda. Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e non «soprannaturalmente» sopra, ma al di là di tutte le forze condizionate-condizionanti, né deve essere scambiata con esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse. La potenza di Dio (…) è l'assolutamente nuovo che nella riflessione dell'uomo intorno a Dio diventa un fattore decisivo, cardinale. Tra Paolo e i suoi uditori e lettori , si tratta appunto della proclamazione e dell'accettazione di questo messaggio. A questo messaggio si riferisce tutta la dottrina, la morale, il culto della comunità di Cristo; tutto ciò non è altro che il cratere, non vuole essere altro che lo spazio vuoto, in cui il messaggio presenta se stesso. La comunità di Cristo non conosce parole, opere, cose sacre in sé, conosce soltanto parole, opere, cose che come negazioni rinviano al Santo. Se tutto quello che è cristiano non venisse riferito all'Evangelo, non sarebbe altro che un prodotto secondario umano, un pericoloso residuo religioso, un deplorevole equivoco, fintanto almeno che volesse essere invece di spazio vuoto, contenuto, invece di concavo, convesso, invece di negativo, positivo, invece di espressione di indigenza e di speranza, espressione di un essere e avere. Se mirasse a questo, se ponesse al posto di Cristo  il cristianesimo, se pervenisse a un trattato di pace o anche solo a un modus vivendi con la realtà del mondo in sé rivolgentesi al di qua della linea della resurrezione, non avrebbe più niente da fare con la potenza di Dio. Il cosiddetto Evangelo in questo caso non sarebbe fuori concorso, ma sarebbe gravemente impegnato nella ressa delle religioni del mondo e delle visioni del mondo. Poiché nel soddisfare bisogni religiosi, nel produrre efficaci illusioni sulla nostra conoscenza di Dio  e particolarmente della nostra vita con lui, il mondo se n'intende certo meglio di un cristianesimo che si fraintende. (…)

La potenza di Dio è potenza «per la salvezza». L'uomo si trova in questo mondo in prigione. Una riflessione alquanto profonda non può concedersi nessuna incertezza sulla limitazione delle possibilità che sono qui e ora a nostra disposizione. Ma noi siamo più lontani da Dio, la nostra decezione da lui è più grande e le sue conseguenze sono sempre ancora più vaste di quanto ci permettiamo di pensare. L'uomo è signore di se stesso. La sua unità con Dio è lacerata in un modo tale che non siamo nemmeno più in grado di rappresentarci la sua restaurazione. La sua creaturalità è la sua catena. Il suo peccato è la sua colpa. La sua morte è il suo destino.. Il suo mondo è un informe ondeggiante caos di forze naturali, psichiche e altre. La sua vita è un'apparenza. Questa è la nostra situazione. «Vi è un Dio?», Domanda veramente legittima! Concepire questo mondo nella sua unità con Dio, è colpevole arroganza religiosa, se non è la conoscenza ultima di ciò che è vero al di là della nascita e della morte, conoscenza che viene da Dio. La presunzione religiosa deve sparire, se deve subentrare ad essa la conoscenza che viene da Dio. Quando circolano monete false, anche le buone sono sospette. L'Evangelo offre la possibilità di questa conoscenza ultima. Ma perché divenga realtà, essa deve mettere fuori corso tutte le concezioni penultime.

 

Per Barth, la fede è l'azione di Dio che si apre agli uomini; ed è un'azione gratuita, nel senso di spontanea e incondizionata. Gli uomini, di per sé, non saprebbero nemmeno mettersi alla ricerca di Dio. Ecco dunque la frase di Pascal, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato, che bisogna correggere - com'era, probabilmente, nelle intenzioni dell'autore - in: tu non mi cercheresti, se Io non ti avessi già trovato (cfr. il nostro articolo: Che cos'è la natura umana, quando viene ridotta all'essenziale?, sempre sul sito di Arianna).

Il rapporto con Dio - come per Lutero, come per Kierkegaard - è un rapporto esclusivamente personale; e la fede, dono della Grazia divina, è il luogo di quel rapporto. E, come per Kierkiegaard, la fede del cristiano è la fede di Abramo: la fede assoluta e incondizionata; la fede che è scandalo e paradosso per la ragione e per il giudizio del mondo; la fede che va oltre la ragione e che - come afferma esplicitamente San Paolo - è inaccettabile per la ragione, che non riconosce alcuna istanza superiore a se stessa.

 

Un altro aspetto fondamentale della teologia di Karl Barth è che se la fede dell'uomo in Dio si basa sulla parola di quest'ultimo, allora nella Bibbia Egli si rivolge agli uomini di ogni tempo, come se fossero suoi contemporanei. Non è quindi il caso di impegnarsi eccessivamente in un'opera di contestualizzazione filologica che restituisca alla Bibbia la sua storicità, illuminandone i singoli passi mediante lo studio delle condizioni concrete in cui venne scritta e che caratterizzavano la vicenda del popolo di Israele. La parola di Dio è fuori del tempo, è eterna: e parla all'uomo della modernità con la stessa forza e immediatezza, con la stessa sconvolgente evidenza con cui parlava agli uomini di mille o duemila anni prima.

Con questa convinzione, Barth fa tabula rasa di tutta la scuola storica ottocentesca, che aveva concentrato le sue indagini intorno agli elementi storici dell'Antico e del Nuovo Testamento. Si può ben comprendere, pertanto, quali e quante discussioni accompagnarono e seguirono, negli anni e nei decenni successivi, la pubblicazione della Epistola ai Romani, e non solo in ambito protestante, ma anche cattolico (un interesse che sarebbe stato ricambiato, date le sia pur caute aperture mostrate da Karl Barth verso la Chiesa cattolica, all'epoca del Concilio Vaticano II).

 

Un altro elemento ci sembra importante sottolineare, anzi l'elemento veramente centrale, e cioè l'assoluta unicità di Gesù, quale riferimento per la fede del cristiano. Se è vero che Dio è, per l'uomo, il totalmente Altro, e quindi un Dio sconosciuto, è però altrettanto vero che questo Dio sconosciuto ha scelto di aprirsi e di manifestarsi all'uomo mediante l'incarnazione di Cristo. Pertanto, l'unica parola di Dio che l'uomo deve ascoltare è Gesù Cristo.

Questo concetto ci aiuta a comprendere non solo l'opposizione di Karl Barth al nazismo, mediante la Dichiarazione di Barmen del 1934 e la fondazione della Chiesa confessante, dopo la sua cacciata dalla Germania, nel 1935 (cfr. F. Lamendola, Il « caso » Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea, sul sito di Arianna); ma anche, più in generale, la sua posizione nei confronti del potere e delle tentazioni statolatriche del XX secolo.

Che cosa contraddistingue, infatti, il progetto totalitario, non solo del nazismo, ma di ogni ideologia mirante a realizzare il «Paradiso in terra», se non la convinzione di poter comprendere, orientare e, infine, addirittura dominare il movimento complessivo della storia? Ma tutto ciò, per Barth, è radicalmente sbagliato; è, anzi, la peggior forma di paganesimo e di hybris della ragione.

L'uomo non sa e non può sapere quale sia il movimento della storia: immerso nel finito, non è in grado di comprendere il senso assoluto di essa. Come Abramo sotto la tenda, l'uomo può solo ascoltare la parola di Dio e rendersi disponibile alla Sua chiamata. Deve fidarsi di ciò che non si vede, deve credere in ciò che eccede le possibilità della ragione. La ragione è data all'uomo, come  per San Paolo gli è data la Legge, solo per mostrargli la fondamentale ingiustizia ed empietà del suo essere; e, al tempo stesso, l'impossibilità di una redenzione attraverso gli strumenti che le sono propri.

In conclusione, ci si salva mediante la fede, e non mediante la storia. Fallaci e ingannevoli sono tutte quelle ideologie che sostengono la capacità dell'uomo di salvarsi con i suoi propri mezzi. E questo è il punto che segna e ribadisce, malgrado tutto, la distanza con il cattolicesimo, secondo il quale le opere cooperano con la fede alla salvezza dell'uomo.

 

Tuttavia, si può dire che anche la teologia cattolica degli ultimi decenni si è avvantaggiata da una seria e approfondita riflessione sull'opera di Karl Barth. Quest'ultima, infatti, ha svolto l'importante funzione di ricordare ai pensatori cattolici la distinzione fondamentale fra Cristo e la Chiesa, distinzione talvolta un po' messa in sordina. Se Cristo è la sola parola che Dio rivolge agli uomini e che costoro sono tenuti ad ascoltare, la Chiesa è pur sempre un prodotto umano, per quanto sostenuto dalla Grazia; e, come tale, sempre carente e sempre perfettibile; sempre bisognosa di aprirsi al mistero della radicale trascendenza di Dio.