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Schizofrenia made in Usa

di Vittorio Zucconi - 17/07/2008

 
 

 

Più ancora che una crisi, quella in atto inAmerica è una grande purga.

 

Di eccessi finanziari, di illusioni ideologiche, di una scadente classe di governo politica ed economica che ha fallito ed è ora travolta nella confusione di una nazione che va aletto col panico e si sveglia con l’euforia. Alla sera collassano banche come la IndyMac, e i clienti si accampano nella notte fuori dalle filiali in California. Alla mattina si scopre che la Borsa sale e il prezzo del greggio crolla, meno 13 dollari in 48 ore. Il mondo finisce e ricomincia da un giorno all’altro, nell’impotenza di chi dovrebbe guidarlo. 

Non è recessione, inflazione, depressione, stagflazione, questa. L’economia americana è in preda alla schizofrenia. L’economista Robert Samuelson parla di «Great Puzzle», di rompicapo del quale nessuno ha la chiave. L’economia americana non è ancora in recessione, che significa caduta del prodotto interno lordo per due trimestri consecutivi, e addirittura prevede una crescita complessiva a fine 2008 che potrebbe raggiungere il 3 percento, un boom per i miserandi tassi di crescita europei, con il 5,5% di disoccupazione. Ma 8.500 famiglie hanno la propria casa pignorata ogni giorno - 250mila mila ogni mese - per la impossibilità di pagare le rate di mutuo. E il mercato immobiliare è alla deriva:l’inventario delle case invendute o messe sul mercato dai creditori, ha raggiunto tempi di 18 mesi. Occorrerebbe dunque almeno un anno e mezzo di acquisti senza nuove case immesse sul mercato, per tornare all’equilibrio fra prezzi, calati già del 20%, e offerte.

 

La domanda che sta al cuore del «grande rompicapo» e della agghiacciante instabilità è se un’economia post-industriale possa resistere al crollo della finanza. Se davvero, come si ipotizzò già negli anni’80 di fronte al crac reaganiano e al disastro delle Casse di Risparmio e Prestiti (che coinvolse la famiglia Bush e il senatore John McCain) economia e finanza possano vivere da separati in casa, in esistenze parallele, ma non necessariamente sovrapposte. L’entità del disastro prodotto dai mutui «subprime», cioè dei prestiti a chi non aveva redditi sufficienti per qualificarsi, e dall’assenteismo del governo, è ormai tale che da tempo l’economia reale avrebbe dovuto esserne stroncata. Le banche, oppresse da portafogli di esotici investimenti andati in fumo, di crediti inesigibili, di case pignorate che sono costrette a esitare sul mercato deprimendolo, annaspano. Nessuno vede la fine. È il panico del nuotatore affaticato che non tocca il fondo coi piedi. Se ancora, sorprendentemente, l’economia reale sembra resistere, nonostante l’inflazione al 5% annuo, massima dal 1991, è perché neppure anni di ideologia repubblicana dominante e di fede nella «virtus sanatrix» del libero mercato sono riusciti a smontare quei congegni di protezione che l’ideologia opposta, quella sprezzantemente definita «statalista», aveva costruito come contrappeso agli sbandamenti di mercati finanziari che sono, per natura non per malvagità come vuole il populismo demagogico, speculativi. Senza un sistema di banche federali costruito dal democratico Woodrow Wilson nel 1913, senza le due corporation semipubbliche, la Fannie Mae e la Freddie Mac, volute da Franklyin Roosevelt proprio per assorbire e regolare i mutui insieme con la garanzia governativa a tutti i depositi fino a 100 mila dollari, oggi non parleremmo di schizofrenia, ma di catastrofe e di cucine per i poveri.

 

E stata questa remora politica, questa miopia ideologica, a ritardare oltre ogni ragione quegli interventi della odiata «mano pubblica», dunque il ricorso al borsellino dei contribuenti, che ha permesso la folle galoppata del credito nei primi anni 2000 e ha creato le premesse perii crac di oggi. La fede nella defiscalizzazione come toccasana assoluto, la certezza messianica nel «mercato» autorisanatore, ha rallentato quegli interventi a sostegno dei mutui e freno al mercato delle «Wall Street Follies» che sarebbero stati più utili e meno costosi se adot-tati un anno fa, quando i primi sintomi del male si erano manifestati. Ora è tutto più costoso, più rischioso, meno efficace, perché la malattia si è diffusa. E tra la benevola indifferenza del Presidente, che ieri ha fatto spallucce dicendosi «un non economista» nonostante il suo Master in Business a Harvard, con le resistenze demagogiche della sinistra democratica al «salvataggio pubblico degli speculatori», non si è fatto nulla, fino a oggi.

 

Ora la questione è sapere se questo colossale esproprio di danaro pubblico usato come sacchetti di sabbia negli argini che si sfaldano, saprà fermare l’alluvione o se l’onda della finanza tracimerà e allagherà anche la valle dell’economia reale, che ancora resiste, fra i successi diApple o Google e il disastro della General Motors. 

 

E in atto una «purga», di eccessi finanziari e di miti ideologici, di classi dirigenti, nelle banche come nella politica e sarà ancora molto dolorosa. La sensazione è che la schizofrenia di un’America senza conducente al volante dell’autobus, affidata al governatore della Fed, Bernanke, non si ricomporrà fino a quando una nuova generazione di governanti e di amministratori sarà alla guida della nazione, dunque fino al prossimo anno. E questo spiega perché il repubblicano John McCain che non può scrollarsi dalle spalle otto anni di governo del suo partito, resti ben dietro a Barack Obama nei sondaggi. Come fu detto in Italia, la scorsa primavera, agli elettori del centrosinistra dopo i due anni di governo Prodi: possono gli eredi di coloro che hanno creato questo il pasticcio, essere coloro che lo risolveranno?